Attualità

Le radicali vie di mezzo di Renata Adler

Intervista con una delle voci più sfacciatamente oneste del giornalismo americano, staff writer del New Yorker per più di quarant'anni e reporter radicalmente di centro.

di Giulio D'Antona

Renata-Adler---New-York-m-001Il 27 luglio del 1974, il presidente Richard Nixon veniva accusato da una Commissione speciale di abuso di potere e ostacolo all’operato del Congresso. Nixon, in condizione di impeachment, era costretto a rassegnare le dimissioni e lasciare gli uffici della presidenza. Qualche giorno dopo sarebbe comparso l’ultimo di una serie di nastri di intercettazioni, definito dalla stampa «pistola fumante», in cui il presidente ordinava l’insabbiamento di tutte le prove a suo carico. Finivano contemporaneamente un’era politica e un’era giornalistica: Watergate, il nome che sarebbe rimasto nella storia. Da quel momento in poi le fonti sarebbero diventate intoccabili, purché ne esistessero almeno un paio; l’influenza della stampa sulla politica americana sarebbe cresciuta enormemente.

«Cosa vuol dire che servono due fonti perché il pezzo sia attendibile?», mi dice Renata Adler ridendo sopra il piatto del suo avocado sandwich in una caffetteria dell’Upper West Side. «Se una fonte può mentire, possono mentire in due. Saranno due persone che mentono anziché una sola. E poi: se puoi inventarti una fonte, te ne puoi inventare due, tre, trenta. Quante ne servono perché una storia falsa diventi vera». In un articolo del 1976 dal titolo “Searching for the Real Nixon Scandal”, comparso sull’Atlantic e quasi del tutto ignorato dall’opinione pubblica, occupata a scandalizzarsi per la cattiva politica che aveva sempre avuto sotto il naso, Adler sottolineava quanto ci si fosse spinti otre il confine dell’indagine giornalistica per carambolare nel territorio del pettegolezzo e faceva notare come la carriera politica di Nixon avrebbe potuto concludersi molto prima. Per tradimento e corruzione, non per abuso di potere. Nel nome della «buona storia» da dare in pasto ai «lettori informati«, il muro dell’onestà era stato scavalcato tra spie invisibili e imputati innominabili. Gole profonde e racconti non verificati. «Non c’è niente che mi faccia più arrabbiare», dice la donna annoverata tra i dieci newyorchesi più litigiosi da Spy nel 1989.

Dagli inizi della sua carriera al New Yorker – nel 1963, a ventiquattro anni – Adler ha collezionato una vastissima gamma di sentimenti contrastanti nei suoi confronti. Dalla fiducia cieca all’odio disperato, dal risentimento alla glorificazione. Ha criticato mostri sacri e ha sollevato dubbi di cui nessuno voleva sentir parlare, ha lasciato intendere di voler essere una voce fuori dal coro per non far parte delle schiere condizionabili e ha fatto dell’onestà assoluta il suo unico punto di vista. «A trascinarmi nella questione del Watergate è stato l’allora consulente particolare della Commissione di giustizia John Doarr», ha raccontato in un’altra occasione. «Mi ha chiamato la vigilia di Natale del 1973 e ha esordito dicendo: “Sei repubblicana, vero?”. Ho risposto: “Sì. In un certo senso”. Mi piaceva pensare di essere l’unica giornalista di New York a non essere democratica». Tra la metà degli anni Sessanta e i primi Settanta, mentre il New Journalism prendeva piede in mezzo alla quasi totalità del consenso editoriale, lei si batteva perché l’opinione personale non andasse a intralciare i fatti. Nel 1965 si è opposta alla pubblicazione dei reportage di Truman Capote che poi sarebbero confluiti in A sangue freddo e prima di allora aveva insistito per aggiungere un commento critico agli interventi di Hannah Arendt, cosa che l’ha portata a un confronto diretto e allo sviluppo di una sincera e duratura amicizia.

Nel 1965 si è opposta alla pubblicazione dei reportage di Truman Capote che poi sarebbero confluiti in A sangue freddo

«Sono arrivata al New Yorker e non avevano niente da farmi fare. Era un periodo in cui mettevano sotto contratto persone in attesa di trovare un’occupazione adatta a loro. Mi hanno detto: “Con le tue qualifiche potresti fare il fact checker, ma c’è un problema: non abbiamo fact checker donne”. Allora mi hanno dato alcuni manoscritti e mi hanno detto: “Ecco, leggi e dicci cosa ne pensi”. E così ho cominciato. La cosa divertente è che prima di allora non avevo mai letto veramente il New Yorker, ero appena laureata e non era una rivista che circolasse molto nelle università». Quello che non ha mai smesso di fare, da quel momento, è dire quello che pensava. «Sono stata abbastanza fortunata, perché i due lettori che avevano allora si sarebbero presto sposati tra loro e l’editor mi ha proposto di entrare nella squadra per far sì che a leggere i manoscritti non fossero solo marito e moglie».

Nei primi quattro anni al New Yorker, Adler non ha fatto altro che entrare e uscire dall’ufficio di Robert Shawn – l’allora direttore, che ancora adesso chiama «Mr. Shawn», con un tono di gratitudine – con proposte e appunti che andavano ben oltre il suo lavoro di lettrice. È facile immaginarla, minuta e con la treccia bionda che pende da un lato del capo, vorticare per i corridoi carica della stessa tenacia con la quale oggi non si lascia scappare nemmeno un’occasione per ricordare un altro aneddoto. A ventisei anni, dopo aver cominciato a scrivere riempitivi, aver lasciato cadere un incarico nella critica letteraria («Impiegavo una vita a scrivere queste piccole recensioni non firmate. Per spiegare cosa pensavo di quello che leggevo mi ci volevano mesi!») e essersi inventata una rubrica laterale di resoconti che pescavano nel profondo dello spirito degli anni Sessanta – la scena musicale underground di Sunset Strip a Los Angeles, gli Hare Krishna a New York e l’arte contemporanea, per fare alcuni esempi – le è venuta l’idea che l’ha portata al suo primo reportage.

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«Ho chiesto a Mr. Shawn se potevo andare a Selma, aspettandomi che mi ridesse in faccia. È stato abbastanza carino da non farlo». “Letter from Selma” (ripubblicato nella raccolta di saggi e articoli After the Tall Timber, New York Review of Books, 2015) , uscito il 10 aprile 1965, descrive, con l’attenzione ai particolari che poi sarebbe diventata il carattere distintivo della scrittura asciutta di Adler, la marcia pacifica per i diritti civili partita il 27 marzo dello stesso anno da una chiesa metodista di una cittadina in Alabama e diretta agli uffici governativi di Montgomery. La scoperta dell’esistenza di una nazione nella nazione, guidata da Martin Luther King: una nazione chiusa in un orgoglioso silenzio, interrotto soltanto dagli slogan e dalle preghiere dei predicatori. Il resoconto di Adler è perfetto, frutto non tanto della fortuna che l’ha portata sul campo, ma della determinazione e di una curiosità che anche oggi, a settantasei anni, non sembra sopita. «Era il mio primo incarico importante e mi sono presentata a Selma in tacchi alti, guanti e cappotto. Capirai: non è il massimo della comodità per marciare. Oltretutto, vestita così mi hanno preso per un’agitatrice e non mi facevano dormire in nessun albergo sul tragitto della marcia. Ho dovuto dormire nelle tende con i manifestanti, cosa che alla lunga è stata molto più utile».

La non silenziosa protesta di Adler nei confronti del giornalismo narrativo, non la pone però fuori dalla categoria. Il suo reportage da Selma, pur rispettando un canone più vicino a quello della tradizione che ai pezzi di Norman Mailer o Gay Talese, lascia trapelare l’entusiasmo di un’opinione in corso di formazione. Parlando con i manifestanti, con i poliziotti, con i simpatizzanti e con gli abitanti delle città attraversate, camminando in prima fila di fronte alle barricate, appoggiandosi alle staccionate da cui le folle razziste e feroci lanciavano oggetti e dirigevano insulti ai predicatori che rispondevano con benedizioni, Adler prende una parte e lascia che sia la forza del racconto a sostenerla. Dall’uscita di “Letter from Selma” è apparso chiaro quale fosse il suo destino.

51chR8DmeoL._SX332_BO1,204,203,200_Nell’introduzione alla raccolta di scritti degli anni Sessanta intitolata Toward a Radical Middle (Random House, 1970), Adler si riferisce all’impossibilità di prendere una posizione netta nei confronti delle battaglie successive al 1968. «D’ora in poi – scrive – non verranno che sforzi pazienti e vittorie complicate». A Selma era facile capire da che parte stare, con chi marciassero i buoni, gli onesti, i pacifici, ma poi tutti si è fatto più fumoso e la ragione ha preso una strana posizione, a metà strada tra il diritto e la volontà. «Il rapporto tra chi scrive e chi legge si è fatto molto pericoloso», mi ha detto. «Ogni volta che un lettore, con una serie di ottime giustificazioni, decide di cedere all’opinione di un giornalista, senza interrogarsi sulle sue ragioni, perdiamo un po’ di credibilità».

Nel 1967, per conto della rivista femminile McCall, Adler si trova di fronte alla scelta di partire per il Vietnam. «Mi hanno chiesto di non scrivere né di politica, né della guerra. E a me andava benissimo, perché non sapevo nulla né di una né dell’altra». L’esistenza di un fronte tanto misterioso e lontano da casa, ha fatto sì che nel il giornalismo americano si formasse una sorta di fronte interno. È a questo punto che il senso per l’onestà ha cominciato a perdersi, per inseguire le prese di posizione che, a favore o contro la guerra, non hanno fatto che macchiare la verità di un alone sempre più prepotente di protagonismo. Adler, come spesso è accaduto, si trovava a presidiare il suo Radical Middle utilizzando la guerra come un semplice pretesto. Ha scritto soprattutto di combattimenti fra galli e dei personaggi attratti dal conflitto per ragioni del tutto estranee alla politica internazionale, al pacifismo o all’interventismo.

Dopo il Vietnam è venuta le Guerra dei sei giorni, di nuovo per il New Yorker. «Però non avevo spesso occasione di scrivere per loro, le storie che facevo richiedevano molto tempo. Ne usciva una e non sapevo quando sarebbe uscita la successiva. Per questo ho deciso di chiedere a Mr. Shawn se potevo accettare un incarico al New York Times». Risposta di Shawn: «Se pensi che io ti consigli di accettare l’incarico, ti sbagli di grosso. Però ti concedo di scrivere per loro, se vuoi». Tra il 1968 e il 1969 sul Times escono le recensioni cinematografiche che poi sarebbero state raccolte in A Year in the Dark (Random House, 1969). «Ne scrivevo una ogni due giorni e ogni fine settimana dovevo fornire un articolo di approfondimento. Ho imparato che non è facile guardare un film e formarsi un’opinione in così poco tempo, ma è sempre meglio che scrivere di libri. È stato piuttosto faticoso». La visione critica di Adler è di nuovo qualcosa che esce dagli schemi. Il fatto di non avere alle spalle una formazione cinematografica, porta di fronte al lettore un parere schietto legittimato dal prestigio della testata. Lo sforzo di liberarsi del gusto per cercare un approccio quanto più possibile oggettivo, traccia i contorni di una critica che non si può definire “di pancia”, ma che non poggia sui canoni tecnici utilizzati dai teorici e dagli accademici.

Sono i film – soprattutto francesi – come lei li ha visti, descritti con la pulsione all’onestà e l’impossibilità di uscire dal bacino dell’assoluta sincerità. In questo periodo al Times si forma la persona che in seguito sarebbe stata aspramente criticata, la giornalista che non è capace di mentire nemmeno per gentilezza. «Ho scritto questa recensione di un libro che si chiama The Bretrhen, di Bob Woodward e Scott Armstrong, per la New York Review of Books. Era un libro terribile, orrendo. Quando l’ho consegnata mi hanno chiesto: “E ora come facciamo a lanciarla?”. “Lanciarla?”, ho fatto io. “Sì, abbiamo bisogno di una frase carina da mettere in prima pagina, per lanciare la recensione”. Non ho ben capito come, ma ce l’hanno fatta lo stesso».

Dopo essere tornata al New Yorker, inaugurando con un reportage dal Biafra un periodo che sarebbe durato quarant’anni, Adler ha dovuto fare i conti con la sua onestà, quella dei lettori e quella dei colleghi in almeno due occasioni. Nel 1980 ha scritto una lunga recensione riguardo alla raccolta di critiche cinematografiche When the Lights Go Down, della collega Pauline Kael, che contiene una delle più trancianti e irrevocabili opinioni mai fornite su un libro, riassunta in una frase che probabilmente farebbe bene ai filosofi del “Se non puoi dire niente di buono, non dire niente”. Una sentenza: «[Il lavoro di Kael è] articolo dopo articolo, riga dopo riga, tutto e senza alcuna eccezione, completamente inutile».

Quando tutta l’opinione pubblica è voltata dalla stessa parte, quando la maggioranza è unanime, lei si alza e mette le mani avanti

Proprio come nel caso del Watergate, il ruolo di Adler è quello della voce dubitativa. Quando tutta l’opinione pubblica è voltata dalla stessa parte, quando la maggioranza è unanime, lei si alza nell’interezza della sua minuta figura e mette le mani avanti: «Un momento!». Questo, in un ambiente in cui le fonti di prima mano contano sempre meno, e sempre di più è rilevante l’interpretazione dell’interpretazione, ha finito per farla apparire come un’inguaribile pessimista, quando è sempre stata, piuttosto, la voce della ragione. Di una ragione, per lo meno.

«Le recensioni sono una cosa. Io ho la mia opinione, che non è detto che sia un’opinione universale, e tu hai la tua, sempre relativa. Ma i reportage sono un’altra cosa. Quando nel 2006 il vice presidente Dick Cheney è stato coinvolto in quello che è passato alla storia come “Incidente di caccia” e ha sparato nel petto a Harry Whittington, tutti i reporter si sono fiondati alla conferenza stampa della Casa Bianca. Secondo me avrebbero dovuto essere sul luogo dell’incidente a raccogliere indizi. Si sarebbero accorti che le cose non quadravano». Una delle colpe del giornalismo narrativo, secondo Adler, è quella di avere perso la strada del resoconto in favore della scrittura. «Si fa un sacco di confusione tra l’essere creativi e l’essere onesti. Il che non vuol dire che la buona scrittura non conti niente – se un articolo non è ben scritto non vale la pena di essere stampato. Ma dovrebbe essere un concorso di fattori concomitanti, una delle due cose non può prevalere sull’altra».

41glPurvd6L._SX325_BO1,204,203,200_Nel 1999, è uscito il memoir Gone: the Last Days of the New Yorker (Simon&Schuster), in cui Adler racconta della sua esperienza alla celebre rivista nel periodo della transizione tra Shawn e Tina Brown, chiamando in causa il crollo dell’intero sistema intellettuale newyorchese assieme al declino dell’apparato di valori artistici che fino a quel momento lo avevano sostenuto e nutrito. «Un libro elegiaco, divertente, denso, di parte, ostile, sproporzionato, intramurale, subdolo, violento, incredibilmente artistico in alcune delle sue caratterizzazioni, e rappresentativo di un massiccio blackout morale. Una volta finito non si può fare a meno di chiedersi se ci si è trovati di fronte al lavoro di un troll altamente qualificato», così lo descrive James Parker sull’Atlantic. Questo è stato probabilmente il punto di non ritorno, il momento in cui, dopo una carriera giornalistica imponente, due romanzi – Mai ci eravamo annoiati (Speedboat, 1976, in Italia per Mondadori, tradotto da Silvia Pareschi) e Pitch Dark (Knopf, 1983) – e una serie infinita di battaglie, alcune vinte e altre perse, contro la scarsa oggettività, la propensione a seguire l’opinione comune e quella che lei chiama misinformation, Adler si è fermata per guardare indietro. Ha visto il mestiere cambiarle sotto le dita e lo ha sentito scapparle di mano. Mentre i giornalisti diventavano opinionisti, si moltiplicavano e si evolvevano assieme ai mezzi a loro disposizione. Mentre tutti si affrettavano a cambiare le regole e smettevano di toccare con mano per essere i primi a reinterpretare una notizia, Adler si sentiva semplicemente stanca.

Nei profili e nelle recensioni scritti su di lei, che fioriscono di qui e di là dall’uscita di After the Tall Timber, facendo a gara a chi è capace di rivalutarla meglio, la parola più ricorrente per descriverla è «fearless», senza paura. Non molto tempo fa, alla fine di una presentazione a Brooklyn, un ragazzo ha alzato la mano per chiedere la parola. «Signora Adler», ha detto, «si ricorda di quando ha scritto di un consulente della Cia di nome Sam Adams e di come avesse truccato i numeri dei caduti Vietcong per influenzare l’opinione pubblica in merito alla legittimità della guerra? Ecco, volevo sapere perché lo ha fatto: quell’uomo era mio padre e non ho fatto in tempo a chiedergli di questa faccenda». Adler lo ha guardato come si guarda una persona per la prima volta. Ha pensato per qualche secondo e poi ha detto: «Era la verità». Il ragazzo ha ringraziato e si è seduto. Appena prima che un altro spettatore prendesse la parola, Adler si è voltata di nuovo verso di lui, interdetta. «Perché si siede?», gli ha chiesto. «Non vuole continuare a discutere?». Ma lui non sapeva già più cosa dire.

Prima di farle l’ultima domanda che mi ero preparato, pagare il conto e accompagnarla all’auto, mi sono venute in mente le centinaia di commenti che mi è capitato di leggere sul web. Come certe volte colgano il punto, altre lo manchino clamorosamente, ma nella maggior parte dei casi siano semplicemente superflui tentativi di alzare la voce in un posto in cui il tono non conta niente. Ho riunito mentalmente tutte queste opinioni non richieste e mi sono domandato come dev’essere subirle per cinquant’anni e cercare sempre di rispondere in maniera pertinente. Così le ho chiesto: «Ha mai avuto paura? Non si è mai trovata a pensare: “Non ne posso più, ne ho avuto abbastanza”?». Mi ha guardato con la stessa espressione che deve aver dedicato al figlio di Sam Adams mentre tornava a sedersi, poi ha piegato la testa di lato. «Una volta sola», ha detto. «Quella in cui ho deciso di smettere».

Nell’immagine in evidenza: dettaglio di un ritratto apparso sul numero di agosto 2014 di Interview Magazine (foto di Sebastian Kim).
L’articolo è tratto da “Ritratti”, lo speciale numero digitale di Studio. Si compra qui in pdf, si scarica dalla nostra applicazione, qui.