Attualità

Rifare gli italiani

Lo ius soli, i migranti, raccontare un Paese che cambia. Intervista a Johanne Affricot di Griot, la rivista culturale di riferimento delle seconde generazioni.

di Davide Piacenza

Johanne Affricot, trentenne, ha sempre vissuto a Roma, e ha origini haitiane, ghanesi e americane. Nel 2015 ha fondato Griot, un magazine online in italiano e in inglese che tratta di arte, cultura pop e stili di vita da una prospettiva più inclusiva, e tiene conto delle diversità etniche e culturali con un linguaggio contemporaneo e un occhio estetico curato. Nei giorni del prossimo voto finale al Senato per la legge sullo ius soli – che deciderà se milioni di persone legalmente residenti nel territorio di questo Paese potranno richiedere la cittadinanza italiana – l’abbiamo raggiunta per farle qualche domanda sul relativo dibattito pubblico, chiedendole anche cosa significa fare cultura in una società poco abituata all’accoglienza.

 

ⓢ Johanne, hai fondato Griot, «uno spazio alternativo che celebra la diversità estetica, creativa e culturale», come da sua autodescrizione, ed è rapidamente diventato un punto di riferimento per le seconde generazioni e quelli che i media nazionali hanno soprannominato “nuovi italiani”. Com’è vissuto dalla tua comunità il dibattito sullo ius soli?

Griot è un punto di riferimento per tutti. A essere sinceri, all’inizio eravamo seguiti più da un pubblico italiano di “prima generazione” orientato alle arti, alla cultura, alla musica, alla moda. C’erano pochi “nuovi italiani” e per me era un po’ frustrante, pensavo che i contenuti fossero sbagliati, ma non capivo dove. Dopo sono arrivati moltissimi lettori italiani con origini africane, soprattutto da Roma, Milano, Torino. Per quanto riguarda la mia comunità, che è una comunità italiana composta da italiani e “nuovi italiani” (ma anche un network internazionale fatto di artisti, musicisti, stilisti, fotografi) il dibattito sulla cittadinanza è vissuto con sentimenti di apprensione, rabbia, frustrazione, che però sono stati canalizzati nella giusta direzione. Il risultato, seppur ancora non definitivo, lo hai visto il 15 giugno: i provvedimenti sullo ius soli temperato e lo ius culturae sono arrivati nell’aula del Senato, dopo un stallo di quasi due anni (per non contare i tredici anni di discussione in parlamento). È grazie soprattutto all’organizzazione Italiani senza cittadinanza, alla loro presenza sul territorio e nei palazzi della politica, e alla loro attività capillare sui social, che il dibattito sulla riforma da ottobre a oggi è arrivato a questo punto.

Come dicevo però il risultato è parziale e bisogna mantenere accesi i riflettori, perché al momento la discussione sul ddl di riforma non è stato ancora calendarizzato. Il 21 giugno ad esempio il movimento #ItalianiSenzaCittadinanza promuove al Pantheon, a Roma, un flash mob dedicato con palloncini tricolore da sventolare per rivendicare il diritto dei bambini a sentirsi rappresentati. Ci sarà anche a Torino, alla stessa ora, in Piazza Castello.

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ⓢ Dietro ai toni d’allarme e alle accuse apocalittiche verso la legge che deve passare in Senato c’è una grande confusione sui temi dell’immigrazione, mi pare: diversi esponenti politici di destra ci vedono assist consapevoli a sedicenti “piani Kalergi” di sostituzione etnica, al terrorismo, o perlomeno a un multiculturalismo che in qualche modo (quale, non è mai troppo chiaro) danneggerà gli italiani. Eppure uno studio della Fondazione Leone Moressa ha trovato che al momento in Italia ci sono circa 1 milione e 65mila minori stranieri, figli di genitori che vivono qui da anni, persone che da tempo vanno a scuola in Italia, parlano con l’accento della loro regione, eccetera. Forse la risposta migliore, in questo senso, l’ha data il sito di Repubblica, con la sua ben riuscita videointervista a bambini la cui cittadinanza oggi non viene riconosciuta. Quale sarebbe la tua, di risposta?

La stessa risposta che diedi a una mia amica quando presi la cittadinanza italiana. Ricordo che mi chiese: «Come ti senti, ora che sei italiana?». Io le risposi: «Normale, come sempre. Sono sempre stata italiana!». L’italianità non è un qualcosa di legato al colore della pelle o a una stretta di mano, quella che ti dà l’ufficiale quando vai a fare il giuramento. L’italianità è legata a un sentimento di amore, di appartenenza – anche di incazzatura – che nutri verso un Paese in cui sei cresciuto e che ti ha cresciuto, dove si è formata la tua identità di essere umano. Mi sembra assurdo doverlo spiegare. Se rivolgessi a te la stessa domanda, non ti farebbe strano dover rispondere? Sì, perché tu dai per scontata la tua italianità. Come faccio io, e come fanno i bambini nell’intervista video e tutti coloro che sono nati e/o cresciuti qui e che si sentono italiani.

 

ⓢ Da persona di colore che si occupa di cultura e lifestyle in Italia, trovi che l’Italia sia un Paese ancora culturalmente razzista? E, nel caso, cosa hai visto cambiare intorno a te negli ultimi anni, su un piano tanto professionale quanto sociale?

Da italiana, da nera nata da madre haitiana e padre ghanese-americano, da persona che si occupa di cultura, arti e lifestyle, penso che l’Italia abbia ancora molta strada da fare a livello culturale: ma ci vuole tempo, pazienza e volontà. Il fatto che l’Italia abbia rimosso alcune vicende dalla sua memoria storica – pensa a Leone Jacovacci, il Nero di Roma, il Pugile del Duce – e il non vedere rappresentati nei media i “nuovi italiani”, né in ruoli normali, cioè non stereotipati, né tantomeno nei programmi di intrattenimento e di approfondimento, non aiuta il Paese a evolvere culturalmente. La trasmissione Rai Nemo, nessuno escluso è l’unica oggi a mostrare queste nuove storie. Il problema non è solo mediatico, però. Se in banca, o alle poste, o al supermercato o nella tua azienda non vedi diverse sfumature di italianità è naturale che il Paese resterà chiuso in sé stesso, ed è facile che dilaghi una cultura razzista e ignorante. Ma anche quando organizzi festival o concerti di musica dove inviti a suonare molti artisti black. Pensi che a loro faccia piacere avere un pubblico solo ed esclusivamente bianco? Dieci giorni fa c’è stata Villa Aperta, un evento all’Accademia di Francia, e Keziah Jones, quando ha finito di suonare, ha fatto notare questa cosa. Ma pochi, mi sa, hanno capito.

La rappresentazione è importante, fondamentale per avere coscienza di sé e riconoscersi in un Paese. E creare degli spazi gestiti da noi o coinvolgerci in prodotti in cui si parla di noi è importante. Noi con Griot stiamo cercando di fare questo in Italia, vorremmo aiutare a cambiare le cose da un punto di vista di narrazione mediatica, ma anche in altri settori legati alla creatività, alle arti, alla cultura. Ti faccio un esempio: hai visto cosa è successo il mese scorso quando una ragazzina di 15 anni del liceo di Mirandola ha accolto il presidente della Repubblica in visita nelle zone terremotate? Per l’occasione, indossava un vestito-bandiera italiana, un abito confezionato dalle sue compagne di classe. Siccome strisciava per terra, una persona l’ha denunciata per vilipendio alla bandiera. Come ha scritto per prima la blogger italiana Naturangi: «Con quel “la bandiera strisciava”, quella persona voleva dire “non voglio la bandiera italiana su una negra di merda”». Sottoscrivo le sue parole.

A livello professionale a me è sempre mancata questa presenza di “nuovi italiani” in tutti i posti dove ho lavorato. Dal ministero degli Esteri alle varie agenzie creative. Non che ne soffrissi, però mi rendevo conto di essere l’unica, ed ero curiosa di scoprire anche altre persone come me, con altre culture di provenienza. Credo che la situazione sia migliorata, ma ci vuole tempo per vedere dei cambiamenti effettivi. E soprattutto volontà. A livello sociale ci sono tanti afroitaliani e “nuovi italiani” nel mondo delle arti, della creatività e della cultura: sono quelli di cui mi occupo io e che mi interessa raccontare.

 

ⓢ Di recente, con la serie The Expats, hai provato a “normalizzare” la figura del migrante – protagonista, suo malgrado, di una crisi internazionale spesso e volentieri banalizzata o ricostruita in senso populista – raccontando storie di giovani italiani di origine straniera che hanno scelto di trasferirsi all’estero. Mi sembra che alla base di questo lavoro ci sia un brillante e rivelatorio cortocircuito: l’immigrato che diventa expat, annullando una differenza linguistica (segnalata tempo fa dal Guardian) che racconta molto della nostra contemporaneità culturale.

Ho svuotato il termine expat, giocandoci. Ho cercato di creare un cortocircuito narrativo (per molti, ma non per noi) che puntava a raccontare questa Italia diversa a tutti gli italiani. L’ho fatto raccontando storie di italiani che quasi sempre vengono visti come qualcosa di esterno alla cultura del Paese, ma che come molti altri italiani cercano opportunità migrando. È qui che il campo si livella, e puoi creare un’apertura.

La scorsa settimana su Griot abbiamo lanciato una nuova rubrica fissa, Motherland, dove troverai tante altre storie video, principalmente di italiani che gravitano sempre intorno al mondo delle arti, della cultura, della musica, della moda, del cinema. Gente che crea e che vive e lavora perlopiù in Italia. Abbiamo lanciato David Blank, cantante marchigiano-nigeriano che ha debuttato con il suo primo singolo in italiano “Stasera no”, e, giusto ieri, la videointervista alla cantautrice Vhelade, fresca di debutto del suo album, Afrosarda. Tra le cose che mi sono piaciute delle loro interviste c’è questa loro voglia di esprimere con la massima forza creativa il loro attaccamento all’Italia. David per esempio ti dice: «Ho deciso di fare questo singolo e album in italiano perché volevo cantare nella lingua del Paese in cui sono nato e cresciuto»; Vhelade racconta che ha girato il singolo “Afrosarda”, che porta lo stesso nome dell’album, in Sardegna perché «era importante per me rappresentare la cultura millenaria sarda. Ho un orgoglio sardo molto forte, oltre che negro».

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ⓢ Per una persona mediamente colta, che ha viaggiato almeno un po’, che conosce le proposte di cui si discute in Parlamento (che prevedono, tra l’altro, uno ius soli “temperato”, non sul modello americano dunque), il sì a questa legge è una scelta normale, direi quasi scontata. Dunque qual è il vero motivo di questo scetticismo così diffuso, secondo te?

Credo che la paura che alcuni hanno sia legata al fatto di normalizzare una realtà che già esiste, di essere messi formalmente tutti sullo stesso piano. C’è da considerare che poi viviamo un momento di crisi economica che dura da dieci anni. La politica non riesce a dare risposte concrete, ogni giorno sembra ci sia un’apocalisse e i flussi di persone che arrivano in questo Paese vengono usati strumentalmente da sciacalli che usano questi esseri umani per spaventare la gente, creando confusione. E quando questi urlano “vogliono regalare la cittadinanza agli immigrati”, mica si sprecano a precisare che 815 mila di questi “immigrati” sono minori nati e/o cresciuti qui. Mischiano tutto. La gente quando è ignorante e ha fame si nutre di quello che gli dai, basta placare il suo appetito: i vari attentati compiuti in diversi Paesi europei sono stati usati da alcuni per seminare paura e ergere barriere contro questa riforma. Ma lo scetticismo è più dei politici che del popolo, lo dimostrano anche i sondaggi.

Come facevi notare tu, peraltro, si tratta di ius soli temperato, ovvero si concederebbe la cittadinanza a figli di stranieri che soggiornano legalmente sul territorio italiano da almeno cinque anni. E la cosa non è così scontata come vogliono far credere. In più dello ius culturae non si parla più, sembra scomparso. Invece è molto importante parlarne perché è un provvedimento che lega l’ottenimento della cittadinanza a un percorso culturale, ovvero concederebbe la cittadinanza ai minori nati o arrivati in Italia entro i 12 anni che abbiano frequentato regolarmente un ciclo di studi di almeno cinque anni, ottenendo un titolo scolastico. Per i ragazzi tra i 12 e i 18 anni nati all’estero è invece anche previsto che risiedano in Italia da almeno sei anni. Sia per lo ius soli che per lo ius culturae serve, comunque, il nulla osta del Viminale, quindi non c’è nulla di scontato né di regalato come molti vogliono far credere.

 

ⓢ C’è una persona particolare – magari un amico, o un conoscente – a cui pensi, quando in questi giorni si parla di dibattito sulla concessione della cittadinanza? E come credi che cambierebbe la sua quotidianità col passaggio della legge?

Fino a un po’ di tempo fa pensavo a Gaylor, uno del team Griot, una testa molto bella, oltre che una persona dotata di molta classe e di un carattere diplomatico. (Lui ha 32 anni, è in Italia da quando ne ha meno di 2 e ha preso la cittadinanza solo l’anno scorso. Ti rendi conto?). Oggi penso a Sonny, 30 anni, che ha perso enormi opportunità di lavoro e sportive all’estero; a Xavier, a Ilham, che è una 22enne sarda-marocchina, che ha preferito fare un Erasmus più breve per non avere problemi con il permesso di soggiorno, e recentemente le è stato negato l’accesso a Montecitorio perché senza passaporto italiano. La cosa buffa, paradossale anzi, è che era stata appena premiata dalla Camera dei deputati per meriti accademici. Penso a questi Italiani senza cittadinanza, cioè quelli che animano l’associazione, e a tutti gli altri italiani senza cittadinanza, 815 mila minori, le cui vite sono appese a un filo. Questa riforma deve passare: si tratta di diritti umani, di civiltà.

Immagine in testata: Mbayeb “Mami” Bousso, la ragazza di Mirandola che ha accolto il presidente Mattarella; tutte le altre immagini courtesy Johanne Affricot