Attualità

All’inizio del futuro

Intervista con Derrick May, padre della techno. Storia di un genere nato a Detroit non per caso.

di Francesca Berardi

È uscito per Humboldt Books Detour in Detroit di Francesca Berardi. Un libro bellissimo da sfogliare e interessante da leggere, che ricostruisce attraverso interviste, fotografie (di Antonio Rovaldi) ed esplorazioni il passato e il presente di una delle più affascinanti città americane, nota  per le sue industrie dismesse, per i suoi desolati spazi urbani, per i suoi fenomeni di spopolamento, ma anche per la sua vitalità artistica, soprattutto musicale. Tra le altre cose, è la città dove, nella metà degli anni Ottanta, un trio di adolescenti dà vita alla techno. Qui pubblichiamo in esclusiva in lingua italiana un estratto del libro che contiene un’intervista a Derrick May, inventore, insieme a Juan Atkins e Kevin Saunderson, di questo genere musicale.

detour-in-detroit-10«Mi muovo lentamente. Ho la sciatica». Derrick May si siede al nostro tavolo tenendosi una mano sulla parte inferiore della schiena. Il padre della musica techno, uno dei più celebri dj al mondo, colui che da trent’anni fa ballare milioni di persone, si presenta così, con un acciacco che ti aspetteresti più da un vicino di casa. La cosa mi sorprende e mi rilassa. Tuttavia, a differenza degli altri comuni mortali con lo stesso problema, a Derrick – un cinquantunenne in perfetta forma – il mal di schiena viene perché ogni settimana attraversa l’Atlantico per suonare nei più importanti festival e club d’Europa.

Il locale che ha scelto per vederci è l’Astro, una caffetteria un po’ hipster, molto buona e decisamente accogliente (un barista, Brad, si è ricordato il mio nome e io, abituata ai ritmi di New York, mi sono quasi commossa). Si trova a Corktown, il più antico quartiere rimasto in piedi a Detroit, storicamente sede della comunità irlandese. Negli ultimi anni, a fianco dei vecchi pub in cui scorrevano litri di Guinness dopo le partite dei Tigers, uno in fila all’altro stanno aprendo ristoranti, caffetterie e locali che non hanno niente da invidiare a quelli più modaioli di Brooklyn. L’Astro si trova su Michigan Avenue, una strada che partendo da Downtown Detroit attraversa lo Stato per 220 miglia, fino a New Buffalo, poco distante dal confine con l’Illinois (a circa un’ora da Chicago). Per gli abitanti di Detroit e dintorni è la statale che porta diretti a Dearborn, una cittadina conosciuta essenzialmente per due ragioni: ospita la storica sede di Ford e presenta la più alta concentrazione di persone con origini arabe in America.

 Da Astro, Derrick è di casa. D’altronde in città lo conoscono – e lo amano – un po’ tutti. Ordina un caffè (si può scegliere tra diverse qualità e viene filtrato a mano: non bisogna avere fretta) e un buttermilk scone, che mi dicono essere una delle specialità della casa. Io invece divido con Antonio un panino croccante ripieno di avocado, succo di limone e prezzemolo. Per la sua semplicità ero convinta di poterlo rifare tale e quale a casa – e ci ho provato tante volte – ma non è mai stato lo stesso. Derrick spiega che il locale è gestito da una coppia, lui originario dell’area di Detroit, lei australiana. E che lei è bravissima in cucina. Veniamo a noi. «Qui a Detroit ti chiamano the Innovator, come il primo album che hai prodotto con il tuo vero nome. Sostengono che più di tutti, tra gli altri fondatori della musica techno, tu abbia saputo sperimentare e mescolare generi diversi».  Derrick afferra la bottiglia di vetro trasparente appoggiata sul tavolo, mezza piena d’acqua. «Il processo di creazione è come l’innamoramento. Ed è come questa bottiglia. Con il tempo gradualmente si svuota, così come si spezzano i cuori. Non si può tornare indietro». La nostra breve conversazione al bar finisce così, con una metafora. «Ti va se continuiamo a parlare in macchina?».

L’auto di Derrick è una Audi RS6. Non me ne intendo di macchine ma da come spinge sull’acceleratore non dubito che sia potente. «Ho solo auto veloci, mi piace guidare», spiega. Allo specchietto retrovisore è appesa una collanina colorata che oscilla lievemente a ogni curva e a ogni sorpasso. È di Serene, la figlia avuta una decina di anni fa da una ex compagna di origini per metà giapponesi (con la quale – ci tiene a dirmi – ha un ottimo rapporto di amicizia).  In un attimo siamo fuori città: a Detroit, se si entra in quella gigante ragnatela di autostrade, sopraelevate e sottopassaggi, succede sempre così.

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Stiamo andando in direzione di Belleville, la cittadina dove circa 35 anni fa è iniziato tutto. A quel tempo Detroit sembrava terra di nessuno e le famiglie si trasferivano fuori città per poter iscrivere i figli in scuole pubbliche migliori (cosa che succede tutt’ora). A Belleville, comune di neanche 4000 anime, l’allora liceale Derrick May ha conosciuto gli altri due fondatori della techno, Juan Atkins e Kevin Saunderson. «Non ero mai stato chiamato negro prima di trasferirmi lì. Un giorno a scuola una ragazza – una tipa proprio come te (ride) – mi ha incrociato camminando e mi ha detto ‘cosa ti guardi, negro?’  Ci chiamano The Bellville Three ma per noi non ha senso. In realtà in quel posto ci abbiamo vissuto solo pochi anni. Juan ed io siamo nati a Detroit, Kevin a Brooklyn». In una cittadina che senza mezzi termini Derrick definisce «razzista» ha preso vita il filone più underground della storia della black music. E a pensarci bene, quell’espressione, Belleville Three, ha poco senso anche per un altro motivo: è difficile non contare anche i numeri quattro e cinque. Eddie Fowlkes, colui che per primo ha avuto l’intuizione di sperimentare la combinazione di suoni techno e soul, e Blake Baxter. Vanno ricordati perché anche loro, come Atkins, May e Saunderson, hanno fatto scatenare Berlino – la Berlino che vedeva abbattere il suo muro – con un album passato alla storia: Techno! The New Dance Sound of Detroit. Da quegli anni il legame culturale tra le due città è indistruttibile, a cementarlo negli ultimi trent’anni ci ha pensato l’etichetta berlinese Tresor

«Credevamo di vivere all’inizio del futuro e volevamo diventarne parte»

La leggenda (che a quanto pare tanto leggenda non è) vuole che il trio si sia formato grazie ad un cazzotto in faccia. Derrick – che già seguiva Juan come musicista – ha fatto amicizia con Kevin dopo essere stato messo ko. I due – all’epoca quattordicenni – avevano scommesso sui risultati del Super Bowl, la finale del campionato di football americano. In gioco c’erano 5 dollari. Derrick, che aveva perso, non li voleva sganciare. «Un giorno mi sono sentito battere sulla spalla. Mi sono girato ed era Kevin. Il pugno che mi ha dato era così forte che mi ha steso a terra. Da quel momento non ci siamo più separati e siamo diventati amici inseparabili». Quello che li accomunava era la passione per certi filoni musicali d’oltreoceano. I tedeschi Kraftwerk, prima di tutti, ma anche i giapponesi Yellow Magic Orchestra e il compositore Sakamoto. «Credevamo che quello che stava accadendo in Europa fosse più interessante di ciò che succedeva qui», spiega allontanandosi ancora di più dalla città. «Ma questa gente non sarebbe mai venuta a Detroit per un concerto. Dovevamo visualizzare e immaginare tutto. Sapevamo che quella musica proveniva da degli intellettuali e noi volevamo essere intellettuali come loro. Leggevamo tutto, imparavamo tutto, non ce ne rendevamo conto, ma stavamo andando oltre, prima ancora di iniziare a fare musica».  Il libro che più di tutti ha influenzato Derrick è Future Shock di Alvin Toffler. «Credevamo di vivere all’inizio del futuro e volevamo diventarne parte. Pensavamo con una mentalità futuristica, tanto che ci siamo spinti a un punto di non ritorno. Siamo cresciuti con i libri e la musica, non attraverso gli occhi dei nostri genitori, dei nostri padri. Mio padre non c’era, quello di uno di noi, Juan, era invece in prigione e lo è ancora oggi. È grazie a lui se siamo qui, è stato lui a comprarci tutta l’attrezzatura all’inizio. Senza di lui non saremmo andati da nessuna parte».

E poi c’era la radio. «Le stazioni che ascoltavamo all’epoca erano due: Wgpr con The Electrifying Mojo e Wlbs, gli unici canali che trasmettevano musica new wave, rock e funky». Electrifying Mojo, una figura misteriosa di cui si conosce solo la voce (nei video compare oscurato, come una sagoma), era un militante della radio: è passato alla storia per essersi ribellato a certe convenzioni, specialmente a quelle che imponevano la trasmissione di white music sulle black station e viceversa. Il suo celebre programma, andato in onda dalla seconda metà degli anni Settanta ai primi anni Ottanta, era ciò di più eclettico e innovativo si potesse trovare sulle frequenze Fm. È grazie a lui se Derrick e i suoi amici ascoltavano i Kraftwerk e i Depeche Mode. Come è grazie a lui se Detroit ha scoperto il funk e Prince.

Il giro in auto con Derrick è più lungo di quanto pensassi. Fuori il paesaggio scorre rapido, ritmico, fedele a un’identità, ma con continue variazioni. Un brano musicale grigio cemento, blu e verde – come il Midwest – suonato a una velocità che l’uomo può raggiungere solo attraverso la macchina. Ancora meglio con un Audi RS6. La nostra meta è la casa di Derrick, il luogo in cui si ritira quando non è in giro per il mondo e quando non dorme da Transmat, la sede dell’etichetta musicale che ha fondato nel 1986 su Gratiot Street, nel quartiere dell’Eastern Market. Quel segmento di strada un tempo era conosciuto come il Techno Boulevard ed ospitava anche le sedi di Metroplex e KMS, etichette fondate rispettivamente da Atkins e Saunderson. Transmat, unica sopravvissuta, è in un edificio che pare un ex magazzino: i muri in mattoni sono coperti di graffiti e non presenta vetrine o finestre.

La Detroit degli anni ’80 era un’enorme distesa di case semi-abbandonate che trasudava la rovina di un sogno

Chiedo a Derrick perché la techno sia iniziata a Detroit e non altrove. «Perché è una città dove c’è isolamento, dove non si cammina  e quindi non si parla». Ascolto quella parola, isolamento, e in effetti racchiude in un termine neutrale due grandi realtà più estreme. Una triste, la segregazione, e un’altra vitale, la presenza di uno spazio per l’immaginazione. La Detroit degli anni Ottanta era un’enorme distesa di case semi-abbandonate che trasudava la rovina di un sogno, quello di una città fiorita per incarnare il trionfo di una rivoluzione industriale. Era anche la città che ispirava l’ambientazione di Robocop: un futuro distopico, popolato di criminali e dominato dalla corruzione. L’unica speranza erano i robot.

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«A Detroit c’era un club, The Music Institute, è stato il primo a organizzare feste con la nostra musica. Ma non abbiamo aspettato che ci fossero dei club ad invitarci, prima ci pensavamo noi ad organizzare le serate». Ispirato agli house and garage club di Chicago, The Music Institute è stato aperto nel 1988 al 1315 di Broadway, nel cuore di Downtown, proprio – e forse non a caso – dove inizia Gratiot Street. Il proprietario era George Baker, che lo aveva fondato con Alton Miller e Chez Damier. Aperto da mezzanotte fino al mattino, il locale era frequentato quasi esclusivamente da ragazzi afroamericani. «Le uniche facce bianche nella folla erano quella di avventurosi ragazzini gay che amavano la techno» scriveva nel 1997 Alan Oldham, un artista che gravitava intorno a quella scena musicale. Il Music Institute ha chiuso dopo poco più di un anno, nel novembre del 1989, ma gli storici della musica continuano a considerarlo tra le parentesi più significative nella storia del genere, ricordando Derrick come colui che a quel posto ha dato l’anima. Carl Craig, uno dei più grandi nomi della scena techno di Detroit, descrive così le sue performance: «Suonava le versioni più folli della musica più selvaggia. Quando Derrick suonava, non capivi se si trattasse di dischi o strumenti manipolati. La gente impazziva, suonava Big Fun tre o quattro volte e ogni volta la mia mente esplodeva, e così succedeva anche agli altri». La sera della chiusura Derrick ha voluto celebrare la breve storia di quel locale a modo suo: mixando il suono registrato delle campane di un orologio, sulle note di uno dei suoi singoli più famosi di sempre Strings of Life. Le ragioni della chiusura sono molteplici, ma certamente ha avuto il suo peso, in termini di entrate, il fatto che alcol e droga dovessero restare fuori. «Per noi la droga non era una roba cool», chiarisce Derrick. «Noi vedevamo la gente uccidersi per la droga, non era come in Europa, dove si potevano vedere anche ragazze carine farsi».

music-institute-12-pt-11Usciamo dall’autostrada e sulle note di Philipp Glass ci avviciniamo alla sua abitazione. Saliamo lungo una strada immersa negli alberi, e per rispetto della natura – e di Glass – ci viene spontaneo restare zitti. Una volta arrivati, rompo il silenzio con un’esclamazione di stupore. Derrick possiede quella casa da più di dieci anni, ma sta ancora facendo dei lavori. All’ingresso, proprio di fianco alla porta, c’è una piccola stanza piena di scarpe. Mi spiega che ne possiede una cinquantina di paia e che la sua passione per le calzature è tale da aver iniziato a disegnarne dei modelli da far produrre (un’altra sua passione – oltre la musica – è la fotografia). Al primo piano c’è una grande living room con cucina. L’arredamento è ancora piuttosto essenziale: divani, maschere africane alle pareti, un grande tavolo di Cassina comprato ad Hong Kong. In bagno c’è una vasca affacciata su una finestra che guarda il bosco. Al piano di sopra, dove i lavori sono ancora in piano svolgimento, sta costruendo la sua stanza da letto.

 Derrick trascorrerà qui i prossimi giorni, per recuperare le forze dopo una serie di concerti in Grecia. Per noi è invece ora di tornare verso la città, ci salutiamo con un «ciao»(Derrick parla un po’ anche l’italiano) e una promessa. Quella di rivederci nei giorni del Movement Electronic Music Festival, la grande manifestazione dedicata alla musica techno che dal 2000 si tiene ogni anno a maggio, durante il Memorial Day weekend. Un tempo Derrick era nell’organizzazione, ma poi ha mollato. Avere a che fare con le amministrazione comunale precedente a questa era «un incubo». Quest’anno suonerà dopo la chiusura del festival in un club privato, in un elegante edificio di Downtown che un tempo ospitava gli uffici di una banca.

 Andare al Festival dopo l’incontro con Derrick è stato straniante. I suoi racconti sulla nascita della techno, il riscatto del sogno futurista su una realtà nel coma della segregazione, si intrecciavano con l’immagine di una manifestazione il cui costo del biglietto è ormai proibitivo per gran parte degli abitanti di Detroit. Sessanta dollari al giorno per ballare sul Detroit River – nel cuore di Hart Plaza – è quello che infatti si permettono quasi solo ragazzi bianchi che vengono da fuori. Me inclusa.

Tutte le fotografie ©Antonio Rovaldi