Attualità

Studiare scienze in inglese migliorerà l’inglese degli italiani?

Alle superiori e alle elementari si comincerà a insegnare una materia scientifica in inglese. Servirà? Esistono gli insegnanti qualificati? Quando la lingua è un fine, e quando invece è un mezzo. Un po' di opinioni a confronto.

di Redazione

Insegnare una materia scientifica in inglese per aiutare gli studenti a imparare l’inglese. Un approccio didattico (si chiama Clil: Content and Language Integrated Learning) volto a incentivare l’apprendimento di una lingua come strumento applicato – un mezzo, più che un fine – sostenuto dal ministro dell’istruzione Stefania Giannini. La riforma scolastica prevede già l’insegnamento di una materia curricolare in inglese all’ultimo anno delle superiori, mentre si sta valutando di estenderlo anche alle elementari. Tuttavia c’è chi mette in dubbio la fattibilità del progetto (mancherebbero gli insegnanti qualificati) mentre altri temono che questo modello potrebbe compromettere l’educazione scientifica («Se studiamo un argomento in inglese, rinunciamo a capire parte di quella realtà», diceva il pedagogo Benedetto Vertecchi al CorSera).

Dunque, che utilità ha insegnare una lingua straniera non più solo come una materia a sé stante, ma anche come lingua di insegnamento per un’altra materia? E la Scuola italiana è in grado di farlo? Abbiamo messo insieme un po’ di opinioni.

 

Anna Ascani, Parlamentare PD (commissione Cultura e Pubblica Istruzione della Camera)

For every complex problem there is an answer that is clear, simple, and wrong.”

H.L. Mencken

L’odio-amore tra la scuola italiana e la lingua inglese affronta una nuova puntata: la proposta del Ministro Giannini di estendere il metodo CLIL sin dalle elementari, ossia insegnare, tramite una full-immersion in lingua inglese, una o più materie. Il CLIL esiste già, attualmente limitato all’ultimo anno delle scuole superiori, e porta in dote reazioni ambivalenti, soprattutto perché lo sforzo di formazione dei docenti si è rivelato spesso parziale o inadeguato.
È innegabile che le finalità, educative, didattiche e pratiche dell’Inglese a scuola siano potenzialmente molteplici e tutte più che fondate: dal basilare “conversational English”, al piacere di apprendere dei rudimenti di letteratura, o consultare articoli di approfondimento, ricerche scientifiche, saggi, etc. D’altronde il mercato del lavoro è evidentemente cambiato, globalizzandosi enormemente, così che la maggior parte di noi (e figurarsi le prossime generazioni) sono costretti a scambiare informazioni tecniche nell’Esperanto globale che è la lingua inglese. È nostro dovere, dunque, dare ai bambini e ai ragazzi di oggi gli strumenti per capire e farsi capire, poiché l’inglese sarà molto probabilmente il veicolo naturale per svolgere e far conoscere il proprio lavoro.
Qualsiasi scelta si compia nella scuola, si riverbera pesantemente sulla formazione dei docenti e sul loro reclutamento, sull’organizzazione, sul sistema educativo in generale. Ogni cambiamento è tutt’altro che indolore, ma questo è il momento di scegliere, sapendo che non esiste una risposta chiara, semplice, onnicomprensiva, e univocamente giusta. Noi abbiamo scelto, con La Buona Scuola, di scommettere sulle competenze, e per questo la proposta dell’estensione del CLIL, per quanto ambiziosa, ci convince.

Leonardo Tondelli, docente e blogger

Sono un insegnante di scuola secondaria di primo grado (che tutti chiamano “scuola media”). Intorno a me dovrei avere studenti che studiano inglese già da cinque, sei, sette anni; in grado quindi di articolare un discorso e, perché no, di assistere a una lezione in un inglese molto semplice. Purtroppo la mia esperienza mi dice che le cose non stanno così. Non solo i ragazzi escono dalle primarie con un’infarinatura di inglese che lascia molto a desiderare; ma il tempo passato a non imparare l’inglese purtroppo sembra sottratto ad altre materie fondamentali, come l’italiano e la matematica, con i cattivi risultati che i test Ocse e Invalsi stanno certificando. Mi capita spesso di domandarmi (soprattutto in prima), se i ragazzi siano in grado di assistere a una lezione non dico in inglese, ma in italiano. In terza magari una volta ci proverò, perché è un’idea stimolante; ma in prima no, sarebbe davvero un approccio irrealistico e velleitario. Dopo tanti anni continuo a pensare che l’idea di portare l’inglese nelle primarie non fosse cattiva; purtroppo è stata stroncata in culla dal ritorno al maestro prevalente. C’è ancora molta gente convinta che le riforme della scuola si possano fare a costo zero, e che se si costringe una maestra a imparare l’inglese, lei diventerà per qualche misterioso motivo una buona maestra d’inglese. Credo che ormai abbiamo tutte le prove che ci servono per concludere che non succede così.

Anna Momigliano, giornalista

L’inglese non si impara studiando l’inglese, bensì studiando qualcos’altro in inglese. Messa così sembra un po’ tranchant, ma stando alla mia esperienza (personalissima, per carità) le cose stanno esattamente così. Per tutta la mia infanzia e prima adolescenza, il mio inglese è stato a dir poco risicato, in stile pubblicità della Maxibon, nonostante i corsi al British Council e le lezioni a scuola (a dire il vero prevalentemente incentrate sulla traduzione di tre-righe-tre di Shakespeare oppure di tre-righe-tre di Joyce, con lo stesso spirito mortifero di una versione di greco antico svolta scopiazzando il Rocci). Poi, per i casi della vita, a 17 anni mi sono trasferita in Israele. Dove, sempre per caso, la scuola che frequentavo offriva due corsi in inglese: storia dell’Islam (il docente era americano, con le gambe storte, la brutta copia di Ben Stiller, e aveva idee destrorse aberranti) e Relazioni Internazionali (il prof. era argentino e molto simpatico, un tizio magrolino e spiritato). È stata l’illuminazione: finalmente avevo capito che una lingua poteva essere un mezzo, e non soltanto un fine. Oggi l’inglese è la mia lingua di lavoro e scrivere in inglese – non lo dico per snobismo, ma perché è, beh, vero – mi piace più che scrivere in italiano. Probabilmente se riesco a scrivere e lavorare in inglese è anche perché per qualche anno ho vissuto in America. Ma le basi, quelle utili, le ho costruite con quei due corsi di storia islamica e relazioni internazionali: grazie, prof. M., lei era un po’ fascio, ma se oggi ho un lavoro è anche merito suo.

Arianna Giorgia Bonazzi, scrittrice

Ho iniziato le elementari nell’87, e nella mia scuola di quartiere, l’introduzione dell’inglese sembrò all’avanguardia. Ci spostavamo a studiarlo in corridoio, con un’insegnante tutt’altro che madrelingua, che ci allungava le schede coi palloncini blueyellowpurple, pronunciati blù, ièllo, pàrpol. Varie riforme dopo, ultima quella di Renzi, nel 2015, mio figlio, in prima elementare, dice ancora ièllo balùn. Negli anni ’90, al liceo, in Friuli, ho assaggiato un certo tipo di bilinguismo scientifico: le mie compagne della bassa pianura ripassavano biologia in friulano, improvvisando lis ribosòmas, lis mitocondris, lis bâs azotâs.
Lo stesso Luigi Meneghello, professore all’università di Reading, autore di quel pastiche linguistico (veneto, italiano, inglese e francese) che è Pomo Pero, da bambino, a Malo, non studiava le lingue, per dire pipì diceva pissìn e tutti ridevano di lui.
Con questo, non voglio certo dare ragione a quella minoranza di pedagoghi secondo cui la sola lingua madre sarebbe adatta all’infanzia, e il bilinguismo impoverirebbe il vocabolario riducendo la complessità del pensiero. Voglio dire, anzi, che c’è sempre il tempo di migliorare le proprie competenze (anche senza essere Meneghello), e che se aggiungiamo l’insegnamento di una materia in inglese alla nostra scuola un po’ ruggine, non può fare più di tanto male. Di sicuro, gli insegnanti, per un po’ di anni, saranno mal preparati. Ma tanto, alle elementari, l’idea non è di studiare Joyce, o la glicolisi, ma al massimo spiegare che abbiamo due mani e due piedi.
La miglior prova di come la scoperta linguistica sia fonte di complessità, indipendentemente dalla correttezza della pronuncia, è racchiusa in un racconto di Michele Mari. Si chiama Freccia Nera, come il romanzo di Stevenson. C’è un papà che regala il romanzo a suo figlio, e il bambino non ha il coraggio di dirgli che ce l’ha già. Ma quando lo apre, vede che le campane non risuonarono a un’ora insolita ma suonarono a un’ora strana. È lo stesso romanzo, ma con un altro traduttore! È qui, la prima volta, che il bambino scopre dell’esistenza di un’altra lingua, e che è impossibile far corrispondere le parole una a una. Hand con mano. Foot con piede.
Anche se il giovane scolaro le dovesse confondere, verrebbe comunque a conoscenza di qualcosa d’altro, qualcosa che potrebbe chiamarsi Europa.
 

Nell’immagine in evidenza: una scena dal film Detached.