Attualità

Impressioni di settembre

È uno dei mesi con più "personalità": sei firme raccontano il loro rapporto con settembre.

di Aa.Vv.

È finito il senso di morte. Sono tornato dal mare, una settimana di vacanza, e ho comprato con mia moglie dei mobili per il terrazzo. Quest’estate il mio conto è andato due volte in rosso, e d’estate tutto sembra più grave, le morti annunciate sui giornali, i problemi di coppia. Ho litigato con un amico prima dell’estate e tornare a Roma mi permette di sentire cosa sta succedendo invece di sognarlo. Il cortile è stato invaso da insetti volanti, piccoli e dal dorso giallo e nero, che si sono nascosti nella struttura della porta di casa. Dopo averli ammazzati abbiamo sparato con la pompa del cortile sulla struttura della porta, bagnando dentro casa. Tutto pur di far ripartire la vita nostra, che dopo due mesi a trentacinque gradi stava degradando, deteriorandosi. Le invasioni di insetti dipendono dal caldo. È prezioso avere una casa, essere persone considerate persone. Sono felice di non essere stato chiuso in un camion e lasciato morire, quest’estate. Inizia un nuovo anno di lavoro, è bastata una sola settimana di vacanza per creare la sensazione di ricominciare. Sono così vecchio che quando sono triste mi sento mancare il cuore e penso che morirò. È l’amore: l’amore mi fa sentire che morirò. Oggi un amico è venuto a trovarmi al bar in piazza e mi ha fatto bere. Settembre è così, la felicità scampata di ritrovare la gente persa due settimane prima ti fa bere a pranzo. Anche la colite è bella, tutto promette di farsi più mite, di leccarti le ferite, la vita si fa bella, tra poco smetteremo di dormire male.

(Francesco Pacifico)

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Tanto per cominciare a settembre si tornava a scuola, e il mio compagno Gianluca tornava da Bordighera sempre con qualcosa di rotto, un braccio, una gamba, a volte pure lo stesso arto del settembre precedente. Ho imparato così che la Liguria è un posto pericolosissimo.
C’erano le cartoline da raccogliere e smistare, «Mi manchi tantissimooo!!!» dietro la foto della pineta di Castiglione della Pescaia, «Ci rivediamo tra un secolo, uffa!» ad accompagnare vedute còrse, quando leggevi quelle righe strappacuore avevi già visto tutti e non avevi cagato nessuno, ma era giusto, andava bene. Ho imparato così che dire le bugie è comunque bello.
C’era la finale del Festivalbar all’Arena di Verona, e pensavo fosse ingiusto che non fosse trasmessa come a luglio da Lignano Sabbiadoro, la sorella di mia nonna abitava lì, a Lignano City, e per me era come se vivesse dietro il Madison Square Garden. Ho imparato così che è sempre tutto relativo.
C’era Miss Italia, e un anno (era il ’94, inutile far finta di non ricordare) finii in castigo per chissà cosa e mi vietarono di vederlo (vinse Alessandra Meloni, in gambissima dalla Sardegna). Ho imparato così che la bellezza non è tutto.

C’era la Festa de l’Unità a Milano, da me in Brianza cadeva a giugno, il Monte Stella diventava Central Park, il PalaTrussardi un altro Madison Square Garden, il primo concerto della vita fu proprio lì, Francesco Il Principe. Quella sera persi l’adorato pupazzetto di Bagheera, cercai di dissimulare, di farmi forza. Ho imparato così che cosa sono i pattern.
Poi il 4 settembre di molti anni fa presi la patente, la sera andai al cinema da solo a vedere un dimenticabile film di inglesi poveri diretto da Stephen Frears. Ho imparato così che era finito tutto.

(Mattia Carzaniga)

Florida Flora

È il mese in cui mi è capitato di venire al mondo, e per questo ho con settembre un rapporto strano e unico. È una rapporto che non ho con altri mesi, né con altri giorni, settimane, o cose similmente cicliche. Vedo in settembre una personalità forte, e credo siano pochi i mesi con un carattere così definito. Vedo in settembre molti tratti del mio carattere e delle mie malinconie, dei miei pessimismi e delle tristezze. Per settembre provo un affetto che penso sia simile a quello che individui che non capisco provano per quell’entità che chiamano patria, e in fondo non è molto diverso: è capitato che nascessi a settembre, è capitato che nascessi in Italia, in Serbia, in Irlanda. Organizzo la mia vita, sempre, intorno a piccoli obiettivi, cioè nell’attesa che si realizzino. Possono essere: l’arrivo di un pacco di libri a cui tengo molto; un weekend di vacanze; il giorno di un tatuaggio; un matrimonio di amici. Per quanto riguarda settembre c’è il mio compleanno, e quindi l’occasione per vedere persone che non vedo da tempo, a volte da prima di quella cesura che è agosto, a volte dallo stesso compleanno, un anno prima. È l’ultima occasione per parlare dei viaggi appena fatti, o della città vuota e calda per chi è rimasto. Per raccontarsi aneddoti divertenti e apprendere di coppie che si rompono (nella mia esperienza in estate ci si lascia, più raramente ci si incontra), per guardare le braccia abbronzate e i capelli più chiari del solito. Gli alberi sono ancora verdi, il mio gatto, quando torno dalle ferie, ha più voglia di stare con me e io con lui. Mi viene da pensare che gliene freghi qualcosa. Le persone sono ancora poco vestite. Mi piace la nudità cittadina, uomini e donne, i piedi nudi, le gambe nude, le spalle e le caviglie. Mi piace l’idea di essere nato d’estate, ma un’estate più originale, quella che raffredda e sparisce. A settembre, solitamente, faccio l’ultimo bagno della stagione, mangio l’ultimo cono gelato dell’anno. Di settembre mi spaventano i propositi, perché mi spaventa la sicurezza di non rispettarli. Ma fino al mio compleanno va tutto bene, è ancora estate. Il difficile inizia dopo. Settembre è una fine, più che un inizio.

(Davide Coppo)

Country View

L’inizio del campionato, della scuola, le liste dei buoni propositi, l’aria fresca del dopo temporale che soppianta l’odore di chiuso nelle case cittadine. Intraprendere una nuova carriera, lanciare un’attività, proporre un trasloco: qualsiasi cambiamento, nel primo mese autunnale, trova le controparti fisiologicamente più aperte al nuovo, addirittura assetate di nuovo. Il gennaio boreale ce la mette tutta, a scimmiottare l’energia di un incipit indimenticabile, ma sappiamo tutti qual è il vero mese dedicato ai fresh start. Le ciniche scommesse su chi morirà l’anno venturo, il premio al miglior calciatore dell’anno andato e la compilazione delle volenterose to do list sono tutti gesti da trasferire in blocco a inizio settembre. Il 31 agosto, la gente tornerebbe più volentieri ad aprire casa con la prospettiva di gettare dalla finestra qualche antico soprammobile odiato. Le cene di questo nuovo capodanno si celebrerebbero coi peperoncini portati dalla Calabria, coi pomodori di Sorrento e i fichi verdi e neri sopravvissuti al controesodo dentro cartocci odorosi nel bagagliaio; con le castagne, il pesto, i mirtilli della Liguria. Le speranze si affiderebbero al primo fungo o alla prima zucca della stagione. Programmi, intenti, cose da fare. L’inglese ha una bella espressione: todo’s. I da farsi.

E poiché dove si progetta il futuro, si tirano anche le somme, io, da vera maniaca delle bucket list, ho dato una spuntata all’elenco dei do’s dell’anno prima, e mi sono accorta di aver disatteso soltanto una promessa: quella di svuotare quell’incredibile set di Wes Anderson che è il garage di casa. Sono scesa a darci un’occhiata, per capire se quest’anno sarà la volta buona. Mi sono lasciata investire da quella puzza di umido che una volta si mischiava all’odore intenso (e per una bimba altrettanto disgustoso) di damigiane piene di vino da imbottigliare. A settembre. Molto meglio se con la luna piena. Mi è venuta in mente una famiglia di amici che, a settembre, se ne frega delle convenzioni sociali, prende le figlie, e proprio i primi giorni di scuola, le porta in Francia a fare la vendemmia scalze, schiamazzando nude nei tini come in un film del Sundance. Io, quando a settembre spiavo, col naso turato, l’imbuto schizzato di rosso e la schiena del nonno china sulle bottiglie in garage (giuro, giuro che quest’anno lo svuoterò!), pensavo proprio che sarei stata quel tipo di persona: che se ne scappa quando tutti arrivano. Oggi, invece, provo il dolce piacere di convergere nella calca che compra i quaderni nei supermercati, condividendo con essa – in barba a tanta anonima furia – il rinnovato fremito di un inizio eternamente annunciato: riempire di nuovo la dispensa, richiamare la signora delle pulizie, riallacciare il contratto di internet, riordinare la scrivania dell’ufficio, e tanti altri verbi col suffisso ri-.
Adesso, è proprio l’ora di andare a ricomprare la piantina di basilico da balcone.

(Arianna Giorgia Bonazzi)

Water Reflection

Dagli zero fino ai diciotto anni ho passato quattro mesi all’anno, tutti gli anni, in un campeggio sul mare insieme ai miei genitori e ad altre dieci famiglie. Per diciotto anni la mia casa estiva è stata una piccola comune un po’ hippy dove tutti conoscevano tutti, non esistevano regole, si mangiava tutti insieme, si andava a pescare di notte e si facevano i fuochi sulla spiaggia. Una meraviglia. Ovviamente, io e gli altri bambini eravamo dei selvaggi: per tutta l’estate andavamo in giro mezzi nudi e scalzi, non ci pettinavamo i capelli, non avevamo regole né orari. Per quattro mesi, da maggio a fine agosto. Fino a quando, a settembre, non si tornava a casa. E ci si doveva rimettere le scarpe e i vestiti. E la pelle dal tutto il sole che aveva preso si screpolava tutta e diventava secca secca e disidratata. Ecco, settembre è il mese della pelle secca. E dei chili di crema idratante che ci volevano per farla tornare normale. Se fosse un odore, settembre profumerebbe di crema Nivea.

(Simona Siri)

Weathered Wimbledon

È il primo giorno del mese di settembre, sono venuta a Recco, nel Levante ligure, partendo all’alba su un treno regionale, con la precisa intenzione di leggere ininterrottamente tutto il giorno, osservare bambini vestiti come piccoli marinai guardare il mare per l’ultima volta quest’anno e vedere le nuvole coprire il sole un po’ sì e un po’ no come in un cambio della guardia celeste. L’ombrellone dei miei vicini di spiaggia libera è appena volato in acqua per via del vento intenso, decretando in prima persona, ai miei occhi, l’effettiva fine della stagione estiva. Tra due giorni ritornerò ai miei lavori, regolari e meno regolari, in un repentino cambio di rotta saranno le giornate a temperatura più alta di 26 gradi a stupirmi e non il contrario mentre studierò risposte più o meno esaustive, attente, coinvolte, al mucchietto di email a cui mi sono sforzata di non dare risposta nelle ultime settimane. Poche ore fa, nel posto accanto al finestrino dell’aereo che mi riportava in Italia abbozzavo, molto al di sopra dell’arco alpino, qualche proposito per l’anno che sta iniziando: fare ancor più del mio meglio sul lavoro e scrivere ogni giorno con regolartà anche solo poche righe, anche brutte, anche della tipologia “da riordinare appena ho tempo” in quel tempo che forse non avrò mai. Un po’di scienza insomma, di regola da non trasgredire, che mi aiuti a migliorare, questo pensavo quando l’hostess è venuta a svegliarmi dal propositivo dormiveglia cercando di vendermi un gratta e vinci. Ma oggi su questa spiaggia posso ancora limitarmi a procrastinare di qualche giorno la mia nuova vita vagheggiata perché oggi, dicevamo, è il primo settembre, il primo giorno di un mese che, mi pare, esiste solo nell’idea che abbiamo di lui, un mese che può durare 72 ore se siamo fortunati oppure soltanto il tempo di un’idea sottesa alla tenacia agostana.

Non esiste settembre dunque, se non qui, adesso, mentre davanti a me una famiglia francese fotografa la linea dell’orizzonte, già con gli zaini sulle spalle, pronta a salire in auto dopo quest’ultimissimo scatto, qua su questi sassi con i passerotti che cercano briciole di focacce buonissime mentre la radio di un piccolo bar che si chiama didascalicamente “Il baretto” trasmette l’ave maria dello struggimento: Eye in the Sky degli Alan Parsons project. Al mio fianco, un gruppo di badanti piuttosto abbronzate, consumando una sigaretta sottile dopo l’altra, si confronta animatamente in merito al modo più economico per raggiungere telefonicamente la Moldavia. Se alzo gli occhi e giro su me stessa posso vedere i palazzi più alti, violenti prodotti del boom edilizio ligure, smettere di brillare nei loro eccentrici colori pastello in assenza di sole e il camion che trasporta gelati Motta parcheggiato in lontananza, relegato in un angolo in via definitiva. Settembre è dunque tutto questo, ne raccolgo visivamente ed emotivamente le tracce mentre finisco di leggere “La lunga strada di sabbia”, un reportage di Pier Paolo Pasolini uscito sulla rivista Successo nell’estate del 1959, il racconto in tre puntate di un viaggio in Millecento lungo le coste italiane dalla Liguria a Casarsa scendendo e risalendo per tutta la nostra nazione. Le ultime righe, che riesco a leggere appena prima che qualche goccia mi costringa a correre in acqua per l’ultimo bagno della mia estate, raccontano profeticamente il sentimento solido che sta prendendo forma proprio qui, dove mi trovo ora: «Sulle povere voci, sulla povera spiaggetta, il temporale getta un’ombra leggera, biancastra. Qui finisce l’Italia, finisce l’estate».

(Giulia Cavaliere)