Attualità

Guida minima a Roberto Bolaño / Pt. 2

La seconda parte del bigino per orientarsi nell'opera dello scrittore cileno. Qui: i racconti, ma soprattutto gli articoli, le interviste e i discorsi, da cui si capisce molto della vera vita dell'autore.

di Davide Coppo

Seconda parte di una guida minima all’orientamento nella letteratura di Roberto Bolaño, di cui Adelphi ha recentemente pubblicato il libro fondamentale, I detective selvaggi. La prima parte è qui

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Come scrivevo nella prima parte di questa guida minima a Roberto Bolaño, uscita in occasione della pubblicazione italiana di I detective selvaggi per Adelphi, il successo internazionale dello scrittore è cresciuto più o meno di pari passo con le speculazioni poco letterarie sulla sua vita privata, sulle sue convinzioni personali, sul suo piacere per l’eroina, per il sesso, per l’alcol, per la sinistra o per la destra, per il lavoro, per il Cile, per l’esilio, per il Messico, per Garcia Marquez, Isabel Allende o Nicanor Parra. Come scriveva soprattutto Horacios Castellanos Moya nel 2008, sembra che attraverso Bolaño l’industria culturale nordamericana abbia voluto ridefinire i contorni della loro idea di Sud America, abbandonando il realismo magico venduto qualche decennio prima e presentando al pubblico un Rimbaud cileno, esule, morto prematuramente e quindi morto in circostanze pregne di fascino letterario, maledetto. Cosa che, scrive Castellanos Moya, non rispecchia la realtà e rappresenta un furbo tentativo di creare un prodotto vendibile, un’icona letteraria mitica per imbellettare una letteratura (ma di questo, e piuttosto a lungo, si può leggere appunto nella prima parte. E questa è la seconda). Per questo, questo sequel della guida minima a Roberto Bolaño, in cui si parlerà di racconti, di interviste, di discorsi, di saggi, di articoli di giornale, inizia con un libro che svela il Bolaño più personale, così:

Tra parentesi

Il sottotitolo è “Saggi, articoli e discorsi (1998-2003)”, quindi il Bolaño qui raccolto è un Bolaño lontano dal ragazzino che vagava per il Sud e il Centro America, che fondava movimenti infrarealisti, è uno scrittore affermato che ha appena pubblicato o sta per pubblicare il romanzo più importante della sua vita vissuta su questo mondo, I detective selvaggi. È, Tra parentesi, uno dei libri che ho sottolineato di più, ma questo potrebbe derivare dalla mia passione per le interviste, per gli articoli, per gli autoritratti e gli scorci di vita privata. Il primo testo è proprio una presentazione di Roberto Bolaño scritta da Roberto Bolaño. Si chiama semplicemente “Apertura. Autoritratto” ed è stata scritta nel 1999 per il Premio Rómulo Gallegos, vinto proprio con I detective. Inizia con: «Sono nato nel 1953, l’anno in cui morirono Stalin e Dylan Thomas. Nel 1973 fui incarcerato per otto giorni dai militari golpisti del mio paese, e nella palestra dove venivano tenuti i prigionieri politici trovai una rivista inglese con un reportage fotografico sulla casa di Dylan Thomas nel Galles». Poi, discostandosi immediatamente dall’autobiografia, Bolaño inserisce un sogno che ha fatto (o non ha fatto) in prigione, un sogno in cui ci sono lui, Dylan Thomas e Stalin, in un bar di Città del Messico, che bevono whisky e giocano a braccio di ferro. La dimensione del sogno è una dimensione enormemente usata in Bolaño, ci sono sogni ogni qualche decina di pagine, sogni che evocano inquietudine, sogni che servono ad aprire spunti per nuove storie, sogni che aprono abissi, sogni che portano nuove immagini il cui carico non è nessun altro se non immaginifico, e nuovi racconti il cui scopo si esaurisce nel semplice racconto. Poi, Bolaño parla anche dei suoi libri, per quasi tutti ha un giudizio brevissimo. Poi ancora, alla fine: «Anche se da più di vent’anni vivo in Europa, la mia sola nazionalità è quella cilena, ma ciò non impedisce che io mi senta profondamente spagnolo e latinoamericano». E infine: «Sono molto più felice quando leggo che quando scrivo». In questo libro Bolaño parla di letteratura, di America Latina, di se stesso, di politica, di amore.

bolano_girona91_1280Le righe che trattano di politica, o di sogni politici, sono una delle parti più interessanti: Bolaño combatté si, brevemente, contro Pinochet, ma non fu mai uno scrittore come si dice “politicizzato”, rimase anzi molto in silenzio sui temi, imitando forse non consciamente l’esempio di Borges, che dovette anche subire accuse per questo suo distacco. La critica di Bolaño è alla destra, è anche alla sinistra, è sempre al potere: è una critica umana, ovvero una presa di posizione che antepone l’unicità dell’umanità e della vita pura all’esercizio sempre misero del potere. È una critica snobista? Sicuramente per alcuni potrebbe esserlo. Per altri potrà essere vigliacca. Di sicuro è una posizione ancora oggi rara, ed è espressa perfettamente a pagina 44, dove scrive: «E mi viene in mente questo perché in larga misura tutto quello che ho scritto è una lettera d’amore o d’addio alla mia generazione, alla generazione di noi che siamo nati negli anni Cinquanta e che a un certo punto abbiamo scelto l’esercizio della milizia, nel nostro caso sarebbe più corretto dire della militanza, e abbiamo consegnato quel poco che avevamo, che era molto, perché era la nostra gioventù, a una causa che credevamo la più generosa del mondo e che in un certo senso lo era, mentre in realtà non lo era. Inutile dire che abbiamo combattuto strenuamente, ma che avevamo capi corrotti, leader codardi, apparati di propaganda che erano peggio di lebbrosari, e che combattevamo nel nome di partiti che se avessero vinto ci avrebbero mandati immediatamente ai lavori forzati, combattevamo e mettevamo tutta la nostra generosità al servizio di un ideale morto più di cinquant’anni prima, e alcuni di noi lo sapevano, non potevamo non saperlo se avevamo letto Trockij o eravamo trockisti, eppure combattevamo ugualmente, perché eravamo stupidi e generosi, come lo sono i giovani, che danno tutto e non chiedono nulla in cambio, e adesso che di questi giovani non resta più niente, quelli che non sono morti in Bolivia sono morti in Argentina o in Perù, e quelli che sono sopravvissuti sono andati a morire in Cile o in Messico, e quelli che non sono stati ammazzati lì sono stati ammazzati più tardi in Nicaragua, in Colombia, nel Salvador. Tutta l’America latina è disseminata delle ossa di questi giovani dimenticati».

Poco più avanti, per chi comunque volesse ottundersi a collocare Bolaño a destra oppure a sinistra (e anche per chi si diverte a equiparare destra e sinistra, e per chi fosse interessato all’origine della quasi ossessione dello scrittore per il male, e per chi fosse interessato alle cose scritte bene, e basta): «In Cile la sinistra ha commesso crimini verbali, crimini morali, e probabilmente ha ucciso delle persone. Ma non ha mai infilato topi vivi nella vagina di una ragazza. Non ha avuto il tempo di creare il suo male, non ha avuto il tempo di creare i suoi campi di lavoro forzato. È possibile che se ne avesse avuto il tempo l’avrebbe fatto? Certo che è possibile. Nulla, nella storia del nostro secolo, lascia supporre una storia parallela più ottimistica. Ma la verità è che i campi di concentramento in Cile non sono stati opera della sinistra, né le fucilazioni, né le torture, né i desaparecidos, né la repressione. Tutto questo l’ha fatto la destra». Questa parte è parte di un commovente e intimo discorso sull’esilio, sul suo ritorno in Cile. Che cos’è l’esilio, per Bolaño? «Andare in esilio non è scomparire ma rimpiccolire, ridursi lentamente o a velocità vertiginosa fino a raggiungere la vera statura dell’essere». E che cos’è la patria, invece, lo spiega nella sua ultima intervista, un’intervista rilasciata a Mónica Maristain per l’edizione messicana di Playboy. Alla domanda «Cos’è la patria per lei?» Roberto Bolaño risponde: «Mi spiace di doverti dare una risposta sentimentale. La mia unica patria sono i miei due figli: Lautaro e Alexandra. E forse, ma in secondo piano, alcuni istanti, alcune strade, alcuni volti o scene o libri che sono dentro di me e che un giorno dimenticherò, che è la cosa migliore che si possa fare con la patria».

E ancora sul potere e letteratura: «Cosa avrebbe detto a Salvador Allende se l’avesse conosciuto?» «Poco o niente. Chi detiene il potere (anche per poco tempo) non sa nulla di letteratura, gli interessa solo il potere. E io posso essere il buffone dei miei lettori, se mi va, ma mai dei potenti». E sul paradiso: «Com’è il paradiso?» «Come Venezia, spero, un posto pieno di italiane e italiani. Un posto che si consuma e si logora e sa che nulla perdura, nemmeno il paradiso, e che questo in fin dei conti non importa». E sui cuscini: «Quali cose, di tutto quel che le hanno detto i lettori sui suoi libri, l’hanno commossa?» «Mi commuovono i lettori puri, quelli che hanno ancora il coraggio di leggere il Dizionario filosofico di Voltaire, che è una delle opere più moderne e amene che conosco. Mi commuovono i giovani di ferro che leggono Cortazar e Parra, proprio come li lessi io e come cerco di continuare a leggerli. Mi commuovono i giovani che si addormentano con un libro sotto la testa. Un libro è il miglior cuscino che ci sia». E sulla vita: «Confessa che ha vissuto?» «Sono ancora vivo, continuo a leggere, continuo a scrivere e a vedere film e, come disse Arturo Prat all’equipaggio suicida dell’Esmeralda, finché avrò vita, questa bandiera sventolerà».

Chiamate telefoniche

È un libro di racconti piuttosto breve (272 pagine nell’edizione Adelphi – Piccola Biblioteca), fatto di quattordici racconti a loro volta divisi in tre sezioni: Chiamate telefoniche, I Detective, Vita di Anne Moore. Bolaño ha pubblicato soltanto due raccolte di racconti in vita: una è questa, l’altra è Puttane assassine, introvabile in Italia (almeno per me, che ho ripiegato sull’edizione spagnola). La prima parte di Chiamate telefoniche parla di letteratura, la seconda parte parla di persone, ossia ritratti, oppure di politica, e la terza parte parla di donne, di sesso e di amore. Sono tutti racconti belli, se “belli” vuol dire qualcosa (ma non posso mettermi qui a parlare di tutti e quattordici i racconti, no?), ma gli ultimi quattro, quelli dedicati alle donne o al sesso o all’amore, sono i miei preferiti, e soprattutto i primi due di questi quattro. Nel primo, “Compagni di cella”, il narratore (forse l’Arturo Belano alter-ego di Roberto Bolaño e protagonista di I detective selvaggi) parla della sua storia con Sofia. È una relazione raccontata con toni scarni, con colori smunti, una relazione che si interrompe perché Sofia, come ubbidendo a degli ordini in silenzio, se ne va dal narratore, scopa con altri, scivola verso la pazzia, verso la depressione o un’oscurità inquietante. “Clara” parla di Clara, un fugace amore adolescenziale del narratore, che si perde nei bivi della vita, come capita a tutti. E parla del ritrovare gli amori adolescenziali anni, lustri, decenni dopo, ritrovarli tristi, cambiati, svuotati, ingrassati, depressi, allucinati, drogati. È profondamente umano e irrimediabilmente cinico, o crudele.

Quando la vidi faticai a riconoscerla. Era ingrassata e il suo volto, nonostante il trucco, mostrava i segni, più che degli anni, delle frustrazioni, cosa che mi sorprese perché io in fondo non avevo mai creduto che Clara aspirasse a qualcosa. E se non aspiri a niente, di cosa puoi essere frustrato? Anche il suo sorriso aveva subìto un cambiamento: prima era caloroso e un po’ ebete, in fin dei conti il sorriso di una signorina di una città di provincia, mentre adesso era un sorriso meschino, un sorriso pungente nel quale era facile leggere il risentimento, la rabbia, l’invidia. Ci baciammo sulle guance come due imbecilli e poi ci sedemmo e per un po’ non sapemmo cosa dire. Fui io a rompere il silenzio. Le chiesi di suo figlio, mi disse che era all’asilo e poi lei mi chiese del mio. Sta bene, dissi. Entrambi ci rendemmo conto che se non facevamo qualcosa quello sarebbe stato un incontro di una tristezza insopportabile. Come mi trovi? disse Clara. Suonò come se mi chiedesse di prenderla a schiaffi. Come sempre, risposi automaticamente. Ricordo che bevemmo un caffè e dopo facemmo una passeggiata lungo un viale di platani che conduceva direttamente alla stazione. Il mio treno sarebbe partito di lì a poco. Ma ci salutammo all’entrata della stazione e non la rividi mai più.

Il gaucho insostenibile

È la terza raccolta di racconti, uscita postuma nel 2003, e un libro decisamente non indispensabile. I racconti qui sono pochi, soltanto cinque (più due brevi saggi), e quello che dà il nome alla raccolta è il più lungo di tutti. Il primo, invece, è lungo appena tre pagine, e parla di un americano, Jim, fermo su un marciapiede di Città del Messico a guardare un mangiafuoco. E basta. “Il gaucho insostenibile” (il racconto) sembra attingere molto a Cortazar (al Cortazar di Bestiario) ma senza la stessa forza visionaria e fantastica. Il gaucho è un avvocato porteño che lascia Buenos Aires per trasferirsi nella pampa, e nella pampa inizia a trasformarsi in un gaucho o nella parodia di un gaucho, dell’immagine tradizionale di gaucho. C’è anche un racconto, “Il poliziotto dei topi”, ambientato in un mondo di topi, topi parlanti, anche topi assassini, topi superstiziosi, topi che non dovrebbero uccidere altri topi – è questa la credenza – eppure lo fanno: anche qui gli echi di Cortazar sono molti, e sono affiancati da quelli di Sabato, del Sabato di Sopra eroi e tombe. Il gaucho insostenibile (che si chiude con due saggi, uno sulla malattia e la letteratura, scritto da un Bolaño conscio della morte vicinissima) fu pubblicato postumo ma su esplicita volontà dello scrittore: due settimane prima di morire, dopo essersi sentito molto male, sputando o vomitando sangue, stampò una copia del futuro libro, si fece accompagnare a Barcellona rifiutando di andare in ospedale e la consegnò al suo editore. Era il 29 giugno. Dopo poche ore venne portato all’ospedale davvero, e acconsentì, come se la consegna di quell’ultimo libro fosse l’ultimo sacrificio da sostenere per la propria vita, o per un’idea, e lì morì.

BolanoFotoArchivoVMMalattia e libertà – Scrivere sulla malattia, soprattutto se si è gravemente malati, può essere un supplizio. Scrivere sulla malattia se, oltre a essere gravemente malati, si è anche ipocondriaci, è un atto di masochismo o di disperazione. Ma può essere un atto liberatorio. Esercitare, per qualche minuto, la tirannia della malattia, come quelle vecchiette che si incontrano nelle sale d’attesa degli ambulatori e che si mettono a raccontare la parte clinica o medica o farmacologica della loro vita, invece di raccontare la parte politica della loro vita o la parte sessuale o la parte lavorativa, è una tentazione, una tentazione diabolica, ma pur sempre una tentazione. Vecchiette che si direbbero al di là del bene e del male, e che hanno tutta l’aria di conoscere Nietzsche, e non solo Nietzsche ma anche Kant e Hegel e Schelling, per non parlare di Ortega y Gasset, del quale paiono, più che sorelle, confidenti. In realtà, più che confidenti, paiono cloni di Ortega y Gasset. Al punto che a volte mi viene da pensare (nei limiti della mia disperazione) che nelle sale d’attesa degli ambulatori risieda il paradiso di Ortega y Gasset, o l’inferno, dipende dagli occhi e soprattutto dalla sensibilità di chi guarda e ascolta. Un paradiso dove Ortega y Gasset. Mille volte duplicato, vive le nostre vite e le sue circostanze. Ma non allontaniamoci troppo dalla libertà: in realtà stavo pensando, piuttosto, a una specie di liberazione. Scrivere male, parlare male, dissertare di fenomeni tettonici nel bel mezzo di una cena di rettili, quant’è liberatorio e quanto me lo merito, espormi alla compassione altrui e poi insultare a destra e sinistra, sputare mentre parlo, svenire indiscriminatamente, trasformarmi nell’incubo dei miei amici più disinteressati, mungere una vacca e poi gettarle in faccia il latte, come dice Nicanor Parra in un verso magnifico e anche misterioso.