Attualità

Geoff Dyer, turista della delusione

Pochi libri riescono come Sabbie bianche a raccontare l'esperienza del mondo attraverso il viaggio: tra spazi bianchi, banalità e malinconia.

di Francesco Guglieri

«Après quelques tours du monde, seule la banalité m’intéresse encore»: all’inizio di Sans soleil, il “film-saggio” di Chris Marker del 1982, l’anonima voce narrante legge queste parole da una lettera che l’amante cineoperatore, protagonista assente del film, le invia durante uno dei suoi viaggi. Il film è tutto così: la donna invisibile legge e commenta queste lettere – o era solo una, molto lunga? – mentre sullo schermo passano immagini del Giappone, Islanda, San Francisco, girate da Marker nel corso degli anni o tratte (citate) da film di altri registi. All’epoca, quando vidi Sans soleil la prima volta, quella frase («Dopo qualche giro del mondo, solo la banalità mi interessa ancora») mi colpì a tal punto che vinsi la mia abituale pigrizia e la ricopiai su di un quaderno. Per molto tempo quelle parole hanno continuato a tornarmi in mente, tormentandomi come un appello, un ordine a cui rispondere, una vocazione o almeno un programma a cui restare fedele.

Quando decido di iniziare il pezzo sul nuovo libro di Geoff Dyer, Sabbie bianche (pubblicato di recente da il Saggiatore), con la frase di Marker, vado su YouTube a controllare la precisione della citazione. In effetti è esatta, ma rimango colpito anche da altre cose che, al contrario, avevo completamente dimenticato: il film si apre con un esergo di Racine («La distanza tra i Paesi compensa in qualche modo l’eccessiva prossimità dei tempi»), e le parole che tanto mi avevano colpito non sono esattamente all’inizio, ma circa un minuto dopo, mentre scorrono le immagini dei viaggiatori notturni di un malinconico piroscafo giapponese, mezzo addormentati o annoiati dal tragitto, mentre l’alba li accoglie all’entrata di Tokyo: «Amava la fragilità di quei momenti sospesi, di quei ricordi che non sono serviti a nulla se non a lasciare dietro di sé, appunto, altri ricordi: “Dopo qualche giro del mondo…”» eccetera, eccetera.

Pochi autori contemporanei associo al piacere della lettura come Geoff Dyer. Per due motivi fondamentalmente. Il primo è l’esperienza quasi fisica dell’incontro ravvicinato con l’intelligenza. Il Saggiatore, che sta encomiabilmente pubblicando i suoi libri, dovrebbe, come iniziativa promozionale, abbinare a ogni volume una matita: Dyer è uno di quegli autori da leggere per forza “con la matita in mano”. Non c’è quasi pagina che non contenga un’idea, una riflessione, uno spunto, un’immagine da sottolineare, da appuntare, da ricopiare su un quaderno. Il secondo motivo è che Dyer è molto divertente. I suoi libri sono pieni di humor, di battute, di ironie degne di una raccolta di David Sedaris (è lo stesso Dyer, nelle ultime pagine di Sabbie bianche, a citare Sedaris quando dice che divertente non è l’opposto di serio. L’opposto di divertente è non-divertente. Una cosa può essere sia seria che divertente: una verità che vale appunto per i libri di Dyer).

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Andiamo con ordine. Cos’è Sabbie bianche? Ecco che ci siamo impantanati prima ancora di partire. Non saprei dire cos’è esattamente Sabbie bianche (traduzione di Katia Bagnoli): non è un romanzo, né una raccolta di racconti, non è nemmeno un diario di viaggio, o una collezione di articoli di viaggi. È tutto ciò, d’accordo, ma nessuna di queste cose, né presa singolarmente né insieme alle altre, lo mette a fuoco. (Del resto uno dei temi del libro è proprio la messa a fuoco: uno degli ultimi testi racconta di un piccolo ictus occorso a Dyer i primi giorni del suo soggiorno in California. Fortunatamente il malore non lascerà conseguenze permanenti: l’unico effetto è un annebbiamento della vista per alcuni giorni).

Sabbie bianche è il racconto di alcuni viaggi di Dyer: la Città Proibita a Pechino, la Polinesia, lo Utah, White Sands nel New Mexico e infine, soprattutto, la California: Los Angeles, le case di Adorno e di Thomas Mann all’ombra di Hollywood. Questi testi, scritti in tempi e occasioni diversi, sono cuciti insieme da una manciata di prose e immagini che, pur brevi e scarse, riescono a imprimere al libro una piccola, impercettibile ma decisiva deviazione.

«Siamo qui per annoiarci a morte e poi interrogarci su come sia possibile annoiarsi tanto». Ecco, se c’è un tema che tiene insieme il libro, almeno ai miei occhi (diciamo: dei diversi fili quello che mi interessa di più tirare), è quello della noia, del banale. Non c’è nulla di più interessante della noia. E Dyer è uno straordinario esploratore del vasto e multiforme Impero del Solito. Tutti i libri di viaggio contemporanei hanno come vero protagonista la noia. È come se il viaggio fosse passato dall’essere l’antidoto alla noia al suo opposto: l’esperienza estenuante del banale, la fine dell’esotico e il suo lutto. L’esposizione coatta alla delusione. E di certo non per la trita e falsa contrapposizione tra turisti e viaggiatori (una distinzione dettata solo dalla classe sociale, dalla presunzione di chi gode di certi privilegi. Quella del viaggiatore è una categoria del marketing posizionata poco sopra ai “ragazzi della Compagnia delle Indie”).

Il fatto è che il viaggio ha a che fare soprattutto con la delusione, categoria secolare per eccellenza. «Impossibile – nemmeno concepibile – che un musulmano, nel fare l’obbligatorio pellegrinaggio di una volta nella vita alla Mecca, possa restare deluso. Ecco la sostanziale differenza fra il pellegrinaggio religioso e il pellegrinaggio laico: il secondo ha sempre in sé la potenzialità di deludere. (…) Quando non sarò più capace di restare deluso l’avventura sarà finita: tanto vale essere morti». Quando il punto di vista è quello planetario, siamo tutti pendolari.

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Il passaggio più bello della letteratura del Diciannovesimo secolo è uno spazio bianco. Quello, lo diceva già Proust, tra il quinto e il sesto capitolo dell’Educazione sentimentale di Flaubert: «Viaggiò. Conobbe la malinconia dei piroscafi, i freddi risvegli sotto le tende, lo smarrimento dei paesaggi e delle rovine, l’amarezza delle amicizie troncate». In Tristi tropici Lévi-Strauss si domanda se non è arrivato già troppo tardi in quello sperduto villaggio amazzonico, se non ha già perso l’occasione di conoscerne la versione autentica. Teme di avere davanti agli occhi non i selvaggi originali, nella loro piena selvaggità a km zero, selvaggi before it was cool, ma selvaggi già corrotti dall’incontro con l’occidentale, le “rovine” dei selvaggi: ciò che resta nel presente di un passato già da sempre perduto. I libri di viaggio, oggi, hanno preso in carico l’oggetto prediletto della letteratura del Diciannovesimo secolo e dell’antropologia del Ventesimo: la malinconia, lo strappo insanabile tra desiderio e realtà.

Mi chiedo se la fortuna contemporanea (o almeno la mia preferenza) della non-fiction non sia un modo di segnare questa malinconia dell’esperienza. In Sabbie bianche si trova una delle più belle definizioni in cui sia incappato di un certo tipo di letteratura, di un tipo di scrittura che abita il confine tra fiction e non-fiction. «Anche in questo libro si mescolano fiction e non-fiction. In che cosa consiste la differenza? Beh, la fiction ti consente di inventare o alterare i fatti. Mia moglie, per esempio, si chiama Rebecca, mentre in queste pagine la moglie del narratore si chiama Jessica. Tutto qua, in effetti. Tu ti attribuisci il ruolo di narratore e cambi qualche nome. Però Jessica compare anche nelle parti ispirate a eventi reali. Il succo della questione è che il libro non vuole essere letto pensando a quanto si discosti da una presunta linea di demarcazione – una linea che separa certe forme letterarie e le aspettative che generano – perché si suppone che si regga in piedi da solo. Considerato da questo punto di vista, Sabbie bianche è sia il disegno al centro del tappeto sia uno spazio vuoto sulla cartina». Tutto qua, in effetti.

Alla fine di Sabbie bianche, proprio nell’ultima pagina, c’è la descrizione e l’immagine di una statua egizia. Due figure riproducono, eternate nella pietra, antiche come piramidi e sfingi, riproducono, dicevo, un gesto di intimità e naturalezza che Dyer e la bella ragazza che gli fa da guida nella Città Proibita compiono all’inizio del libro. In quelle pagine iniziali, quando Dyer ci racconta il suo viaggio in Cina, non solo non dubitiamo nemmeno per un attimo che quel gesto, quell’improvvisa intimità, non sia avvenuta veramente, ma ai nostri occhi diventa l’emblema stesso della realtà, dell’esperienza, della fluidità inafferrabile della vita, dei corpi vivi, caldi, naturali, che si incrociano e si toccano. È un’immagine che sembra dirci null’altro che “non voglio dire nulla, tranquilli, io sono la vita vera”. Poi arriviamo alla fine del libro, quei corpi li rivediamo freddi e immobili nella pietra egizia, e capiamo che il gesto a inizio del libro era inventato, o forse no ma è come se lo fosse stato e comunque non importa perché tanto adesso è tutto pietra, è tutto scrittura, qualcosa, cioè, che è l’esatto opposto dell’esperienza. Alla fine la scrittura schiaccia tutto sul presente, tutto è recente come uno squillo di sveglia. Tutto è contemporaneo quando è sulla pagina: e alla fine «la distanza tra i Paesi compensa in qualche modo l’eccessiva prossimità dei tempi».

Immagini Getty Images dal Trinity Site, il luogo – diventato meta turistica – dove fu preparata e testata la prima bomba atomica nei pressi di White Sands, New Mexico.