Attualità

Figli dell’account

I primi neonati postati su Facebook nel 2004 stanno per diventare adolescenti: come affrontare il nuovo problema dell'impronta digitale lasciata dai loro genitori?

di Arianna Giorgia Bonazzi

Come si sentirà Sofia, oggi seienne, quando, nel 2023, aprirà il suo profilo Facebook e, iniziando a seguire la mamma o il papà, troverà una sua vecchia foto da bambina? Che cosa dirà Emma, quando aprendo il suo Instagram, scoprirà di non essere la prima amministratrice della propria immagine, perché la mamma, la zia, la nonna tecnologica, stavano postando il suo viso da anni? Quando siamo stati piccoli, i nostri genitori ci hanno fatto al massimo il dispetto di metterci in un disgustoso calendario dalle immagini sgranate. Forse, tenevano una nostra foto in cornice nel loro ufficio, alla mercé del capo antipatico e della segretaria pettegola. Se erano nerd, ci avranno anche stampati su una tazza o su una maglietta, ma è certo che quei ricordi imbarazzanti, se già non sono finiti in cocci e brandelli, riposano sotto chiave nella  cantina umida, coi nostri stupidi quaderni di prima elementare.

Pochi di noi trentenni, travolti dalla rivoluzione digitale, hanno pensato che i primi ricordi dei nostri figli, sotto forma di video e immagini, o anche solo di status e tweet, potessero far parte di una loro futura memoria digitale, prima che di un nostro attuale bisogno di condividere gioie e frustrazioni di proprietà intellettuale esclusiva del neo-genitore. È abbastanza comprensibile: a noi, filmati su vecchi nastri e analogicamente fotografati solo in occasioni speciali, non è mai capitata l’evenienza di ereditare, a tradimento, uno sterminato archivio digitale universalmente accessibile di noi stessi.

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Facebook è nato nel febbraio del 2004, e solo oggi i primi neonati, le cui immagini sono state divulgate sul social, si avvicinano all’età utile per aprirsi un account, e ci fanno riflettere sulla nostra intrusione nella costruzione delle loro “identità digitali”. Ma che cosa sarà, poi, esattamente, l’identità digitale dei nostri figli? Amy Webb, Ceo di Webbmedia Group, che si è espressa diffusamente sul tema, e ha perfino scelto il nome della figlia in base alla disponibilità di account con quel nome, sostiene che sua figlia sarà per forza “una persona pubblica”. Perché, nell’era digitale, lo siamo tutti.

Sta diventando sempre più difficile sbarazzarsi di una cosa chiamata “impronta digitale”, anche per chi non ha ancora imparato a digitare, anzi, soprattutto per loro. Uno studio recente negli Stati Uniti ha rilevato che il 63% delle mamme di minori usa Facebook, e, di queste, il 97% posta foto dei figli, l’89% scrive status su di loro e il 46% pubblica video dei bambini. Il mese scorso, in Italia, la Polizia postale ha pubblicato sulla propria pagina Facebook un appello rivolto alle utenti coinvolte nella catena “tre foto per mostrare al mondo la gioia di essere mamma”, facendo loro presente i problemi, di sicurezza, ma anche etici, nella divulgazione di foto di minori in rete. Molte mamme hanno commentato piccate, sentendosi accusate di esibizionismo più che messe in guardia.

Con le immagini dei nostri neonati, siamo stati egoisti, leggeri e poco previdenti. Forse, l’abbiamo fatto perché la rivoluzione digitale ha colto impreparati i nostri timidi io analogici e narcisisti, e non abbiamo mai considerato la potenziale longevità e accessibilità delle informazioni che condividevamo. Poi, piano piano, con l’emergere del problema, le impostazioni della privacy di Facebook hanno cominciato a farsi più restrittive, e noi a cliccarci su con convinzione, per rendere visibili i nostri share ai soli amici, e ripulendo contemporaneamente la lista degli amici dagli intrusi.

Secondo Sarita Schoenebeck, che, alla University of Michigan, studia il rapporto delle madri con i social media, la precauzione di blindare il profilo, solo parzialmente valida adesso, potrebbe non esserlo più del tutto in futuro, a seconda del tipo di evoluzione che subirà Facebook per quando i nostri figli saranno adulti. Oggi, Facebook utilizza i nostri dati personali per vendere informazioni alle aziende che vogliono rintracciare il loro target di mercato, ma il modello di business potrebbe cambiare. Nello scenario più apocalittico possibile – leggo sul Guardian – il sistema di riconoscimento facciale di Facebook (non ancora attivo in Europa) in grado di scannerizzare le foto dai tag al fine di identificare persone, potrebbe rendere subito disponibile, a un tocco, tutta la “storia digitale” di un volto, se solo venisse commercializzata una app capace di confrontare la foto di un viso con la banca dati “facciale” di Facebook (tecnologia non legalizzata, ma già sviluppata per i Google Glass).

Il Ceo di Google crede che cambiare nome sia più semplice di far rimuovere dei contenuti imbarazzanti dai motori di ricerca

Sono certa che molte mamme si siano fermate in territori meno fantascientifici, e abbiano limitato lo spamming di pargoli più per coltivare un’immagine di sé che per una reale analisi della questione. Al massimo, temono per il presente dei loro figli (vedi alla voce pedo-pornografia online), ma nessuna pensa al futuro: tanto per spararne una grossa, alla loro ammissione all’università. Secondo il sito Career Builder, un quinto dei datori di lavoro dichiara di usare i social per cercare informazioni sui canditati a una posizione lavorativa, e oltre la metà di questi ammettono di essere condizionati dall’aspetto digitale” del candidato. Persino i tutor delle università americane googlano i candidati, anche se non ci sono dati sulla diffusione di questa pratica. Senza scomodare le statistiche, chi di noi non ha mai cercato su Facebook la babysitter ventunenne per il proprio bambino, per giudicarla dalle foto e dalla musica che ascolta? E chi non ha mai rimosso una propria foto poco lusinghiera, per paura che venisse giudicata da un contatto di lavoro importante, che ci aveva appena chiesto l’amicizia?

Alice Marwick, assistente di Cultura Digitale alla Fordham Università di New York, dice che il profilo social seguirà i nostri figli dappertutto e potrà essere usato in futuro per decidere se concedere a uno studente una casa in affitto, se ammetterlo a un progetto di studio universitario, perfino se concedergli un mutuo. Fermandoci ancora prima, i preadolescenti, man mano che crescono, sono semplicemente scontenti di come utilizziamo la loro immagine, e preoccupati di quello che potremmo dire sul loro conto online. Uno studio appena uscito in America dice che i ragazzini tra i 10 e i 17 anni sono tre volte più preoccupati riguardo alle condivisioni importune dei genitori, di quanto lo siano i genitori stessi.

I ragazzi intervistati raccontano che molti dei loro amici seguono i genitori sui social, visualizzando in tempo reale foto non necessariamente ridicole, ma, che, considerando le paranoie dell’età puberale, li mettono in imbarazzo. Gli stessi ragazzi, in gita allo zoo, quando un adulto punta contro di loro un telefono, si coprono il volto per non comparire nell’album fotografico della gita, sulla pagina Facebook della loro scuola. Una ragazzina di Manhattan che amava cantare, e le cui performance erano state caricate su You Tube dalla madre, si è vista prendere in giro da tutta la classe, che un giorno, dal nulla, le ha intonato una delle canzoni dei suoi video, per poi scoppiarle a ridere in faccia. Un ragazzo, a distanza di anni, ancora si lamenta con i genitori per avere scritto dei banali status sulla sua inappetenza, che, riemersi dal web, l’avrebbero condizionato nelle relazioni coi coetanei. Il Ceo di Google, Eric Schmidt, crede che, in certi casi, cambiare nome sia più semplice di far rimuovere dei contenuti imbarazzanti da tutti i motori di ricerca del web, per sfuggire alla “vergogna online” e poter ricominciare da zero.

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Le ricerche sulle applicazioni più diffuse tra i ragazzini suggeriscono la tendenza a un ritorno all’anonimato, attraverso app a cancellazione quasi istantanea (come Snapchat, Secret, Whisper), che non lasciano traccia di  atteggiamenti impulsivi. Eppure, è così bello che, in qualsiasi momento,  la tua amica che lavora in California possa apprendere che tuo figlio ha imparato a andare sullo skate, e tu possa vedere da cosa si è vestita in maschera la sua terzogenita. É così utile e confortante, a volte, confrontarsi con gli amici lontani sull’inappetenza dei figli. I confini del delicato intrico tra profilo pubblico degli adulti e universo privato dei loro bambini non sono stati ancora tracciati: è in atto tutto un processo di definizione del compromesso tra il diritto dei genitori di postare la propria storia, e il diritto dei figli di controllare la loro futura vita digitale.

Ci sono ipotesi molto meno pessimiste di quelle citate, sulla biografia digitale che stiamo scrivendo per conto dei nostri figli: la stessa Schoenebeck sostiene che, tra dieci anni, nessun adolescente si sentirà strano per il fatto di avere delle foto da neonato su Facebook, e che i vecchi post dei genitori non faranno altro che rafforzare il tipo di relazione che già li lega ai figli nella vita reale: perciò, gli adolescenti si sentiranno infastiditi dai post, se hanno un cattivo rapporto coi propri genitori, mentre si sentiranno amati attraverso i post dei genitori, se nutrono stima per loro.

E noi, alla luce di dati e teorie, e in preda al nostro desiderio pazzo di comunicare, e alla nostra paura di svendere pezzi di vita altrui, cosa dobbiamo fare? Se diventassimo tutti meno frivoli, come certi utenti sentimental-engagé, scriveremmo solo status tipo: «Oggi Riccardino, 4 anni, mi ha spiegato tutto il non-senso del Bataclan. E ha anche detto che per essere una famiglia basta l’amore». L’ammissione ad Harvard sarebbe chiavi in mano. Ma se siamo solo dei sani utenti medi, e ricordiamo ancora l’imbarazzo della mamma che mostra il Vhs della nostra recita, possiamo accontentarci di frenare un poco il nostro attuale bisogno di attenzione, mantenendo il più linda possibile la giovane immagine pubblica di nostro figlio, come fosse il lenzuolo intonso del corredo che ci preparò una nonna ignara di tutto questo.

Nella foto in evidenza, una stampante Canon presentata a Las Vegas al Ces 2016 (Alex Wong/Getty Images); nel testo, un partecipante al Chaos Communication Congress di Amburgo (Patrick Lux/Getty Images); il primo smart spoon, presentato sempre al Ces 2016 (Ethan Miller/Getty Images)