Attualità

Gli inciuci di una volta

Con le elezioni arriva, immancabile, l'accusa di aver svenduto la storia della sinistra. Cronaca di un'indignazione vecchia quanto la politica.

di Francesco Cundari

Con questo articolo, Francesco Cundari, giornalista, direttore di Left Wing, inaugura il Diario elettorale settimanale che accompagnerà i lettori di Studio fino al voto del 4 marzo.

La prima volta in cui mi sono sentito dire che il partito non poteva chiederci di votare un democristiano simile, che così si svendeva la storia della sinistra e si consegnava l’Italia a Berlusconi, era il 1994 e il democristiano in questione non si chiamava Pier Ferdinando Casini, bensì Bartolo Ciccardini. Rispettabile uomo politico, più volte sottosegretario negli anni ottanta, che fino a quel momento non avevo mai sentito nominare. A dirmi così – forse anche perché, essendo io allora minorenne, non aveva bisogno di convincermi a votarlo lo stesso – era il segretario della sezione in cui mi ero appena iscritto. Il partito non si chiamava ancora Pd, ma quasi: Pds (certi acronimi non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano). E quando il segretario mi raccontava, per farmi capire il clima, che in quella sezione «aveva vinto il No», non si riferiva ovviamente al referendum costituzionale del 2016, ma al congresso che pochi anni prima aveva deciso di cambiare nome al Pci. Io ascoltavo il suo sfogo e annuivo energicamente, cercando di ricordare qualcosa dei giornali che avevo appena cominciato a leggere. Ma il fatto è che erano del tutto incomprensibili, pieni di nomi, cose e città che non mi dicevano nulla, e che spesso non potevo comunque citare perché non avrei saputo nemmeno come pronunciarli.

Di questo Ciccardini, per esempio, Repubblica aveva scritto che era stato l’organizzatore dell’«incontro di San Ginesio» tra Forlani e De Mita. E io, che non avevo ancora compiuto sedici anni, oltre ad avere qualche difficoltà nel collocare Forlani, ne avrei avute pure di più nel collocare l’accento (San Ginèsio o San Ginesìo?). Ragion per cui, nel dubbio, tacevo e annuivo. Per la cronaca, l’articolo in questione si intitolava «Ieri nemico, oggi alleato da votare, è la maledizione del maggioritario» e raccontava tra l’altro di come, «paradosso dei paradossi», la prima dichiarazione di voto Ciccardini l’avesse incassata proprio dalla «pasionaria del Manifesto» Rossana Rossanda. «Sì – aveva scritto lei – io voterò sgomenta l’ex giovane navigatore dc Ciccardini. O mangiare questa minestra o saltare quella finestra: nel mio caso la finestra è Berlusconi» (nel suo articolo Rossanda non esitava comunque a criticare questi «vertiginosi paracadutamenti», in base ai quali «più il candidato è imposto dall’alchimia spartitoria, più viene catapultato in zona di disciplina sicura»). E pensare che allora Ciccardini era l’eccezione, giacché, transitato dalla Dc in Alleanza democratica, era finito nella coalizione dei Progressisti.

Per arrivare alla regola, cioè a una vera alleanza degli ex pci con gli ex dc, avremmo dovuto aspettare le elezioni del 1996. E prima, inevitabilmente, che il nuovo segretario del Pds, Massimo D’Alema, appena insediato, nell’estate del 1994, cominciasse a tessere la prima delle sue celeberrime trame per spaccare la coalizione di centrodestra, che nel frattempo aveva stravinto le elezioni.

Di conseguenza, la seconda volta in cui mi sono sentito dire che il partito non poteva allearsi con un democristiano simile, che così si svendeva la storia della sinistra e si consegnava l’Italia a Berlusconi, di anni ne avevo diciassette (alle elezioni successive avrei votato per un pelo) e il democristiano in questione era Rocco Buttiglione, segretario del Partito popolare, con il quale D’Alema aveva intavolato l’unica cosa che faceva D’Alema secondo i giornali, quando non erano trame e non erano origami: un dialogo. A protestare, stavolta, era invece mio nonno, vecchio comunista di rito togliattiano, dunque non pregiudizialmente ostile a una certa duttilità, per dir così, nella tattica. Ma Buttiglione proprio non gli andava giù. «Non è un filosofo!», ricordo che urlava ogni volta che in tv qualche giornalista abbozzava un ritratto del segretario dei popolari. «È un te-o-lo-go!», scandiva con la schiuma alla bocca. Oggi so da Wikipedia che Buttiglione è stato allievo del filosofo Augusto Del Noce e ha anche insegnato filosofia della politica, ma allora Wikipedia non c’era, e se anche ci fosse stata immagino che mio nonno avrebbe concesso che al massimo, semmai, lo si poteva definire «professore di filosofia». Sta di fatto che alla fine Buttiglione andò per la sua strada, cioè con la destra, con somma soddisfazione di mio nonno («e pensare che al partito mi dicevano così bene di quel giovane D’Alema… farsi fregare da Buttiglione, uno che non è certo un filosofo!»).

Ma è anche vero che prima, grazie al famoso dialogo, e anche a una trama niente male ordita assieme al segretario della Lega Umberto Bossi (i giornali lo battezzarono il «patto delle sardine», giacché in casa Bossi, dove i tre congiurati si riunirono, solo quello c’era da mangiare), il governo Berlusconi durò qualche mese appena, sfiduciato da Lega, Pds e Ppi. E sostituito da un governo tecnico sostenuto da quella stessa singolare maggioranza, ma soprattutto guidato da Lamberto Dini, già ministro del Tesoro con Berlusconi e uomo-simbolo della sua politica economica. Al momento di votargli la fiducia, nel 1995, sono in molti a chiedersi se un partito di sinistra possa sostenere un simile esecutivo, se questo non significhi svendere propria la tradizione e consegnarsi ai democristiani. Fausto Bertinotti, leader di Rifondazione comunista, è sicuro che no, non si può. «Baciare il rospo?», si domanda il Manifesto in prima pagina. A causa sua – cioè del rospo – Rifondazione subirà la sua prima scissione e il governo Dini potrà infine partire. Va anche detto che le forze del nascente centrosinistra il rospo, dopo averlo baciato appassionatamente per oltre un anno, non esiteranno a sposarlo davanti agli elettori e a mettere su assieme a lui una larga coalizione per le politiche del 1996. Con il suo Rinnovamento italiano, infatti, Lamberto Dini sarà a tutti gli effetti partner dell’Ulivo di Romano Prodi, e suo ministro degli Esteri per l’intera legislatura.

La quarta volta in cui ho sentito qualcuno accusare i dirigenti della sinistra di essersi consegnati ai democristiani e di avere resuscitato Berlusconi è stato nel 1997, con la nascita della Bicamerale D’Alema. La quinta nell’autunno del 1998, con la nascita del governo D’Alema, grazie ai voti di Cossiga, dopo la caduta di Prodi. La sesta nel 2001, quando a guidare la coalizione di centrosinistra sarà Francesco Rutelli. Le volte dalla settima alla settantasettesima, alla media di una ogni due settimane, hanno costellato tutta la legislatura 2001-2006, quella del Cavaliere al governo e dei girotondi in piazza, di Nanni Moretti che grida (rivolto a Fassino e Rutelli, ma con il cuore a D’Alema): «Con questo tipo di dirigenti non vinceremo mai!», e di Sergio Cofferati che per un momento sembra volerne raccogliere il testimone, salvo poi candidarsi a sindaco di Bologna.

Nel frattempo, la lunga e faticosissima gestazione del Partito democratico, avviata nel 2003 dall’accordo tra Prodi e D’Alema su quella che i giornali battezzano subito affettuosamente «fusione fredda» Ds-Margherita, sarà scandita passo dopo passo dall’accusa – sempre rivolta a D’Alema – di avere consegnato il partito ai democristiani, svendendo la storia della sinistra e resuscitando Berlusconi.

Con tutto il rispetto per i militanti di Bologna che alle prossime elezioni troveranno sulla scheda il nome di Pier Ferdinando Casini, e per tutti gli indignati editorialisti legittimamente convinti che i dirigenti della sinistra si siano ormai consegnati ai democristiani, devo dire che oggi, alle soglie dei quarant’anni, non riesco ad avvertire questo problema come un’autentica emergenza. Forse perché ho perso il conto delle volte in cui ne ho sentito parlare. O forse perché l’ultima volta che ho sentito muovere al Pd questa accusa, a formularla era D’Alema.

Nella foto: Silvio Berlusconi e Massimo D’Alema a Porta a Porta, nel 2001 (Getty Images)