Attualità

Due o tre cose da sapere su Occupy Central e Hong Kong

Il passato coloniale, l'eccezionalismo della penisola, il rapporto con la Cina, il "chief executive" e il sistema elettorale. Un po' di materiale per comprendere le proteste in corso nella metropoli asiatica.

di Davide Piacenza

Il nome ufficiale di Hong Kong, “Regione amministrativa speciale di Hong Kong della Repubblica popolare cinese”, chiarisce che il suo è un territorio dove vige un ordinamento diverso da quello della Cina continentale. Nel 1984 la dichiarazione congiunta sino-britannica pose fine a un secolo e mezzo di dominio inglese cedendo, a partire dal 1 luglio 1997, il controllo della penisola a Pechino sotto la formula “uno Stato, due sistemi”. Riassunta per sommi capi, questa sovrastruttura politica ha permesso a Hong Kong di mantenere una forma economica capitalista, di tenersi un sistema giudiziario ispirato ai principi della Common Law e di avere formalmente un’organizzazione multipartitica. Il potere esecutivo è esercitato a livello locale dal “chief executive” (l’attuale, Leung Chun-ying, è in carica dal luglio 2012), un funzionario che fa le veci del governo centrale cinese e nomina l’equivalente dei ministri – i cui nomi devono essere avallati da Pechino – e i giudici, oltre ad avere l’ultima parola sulle proposte passate in Consiglio legislativo.

La legge elettorale attuale prevede che il capo del governo sia eletto da un collegio elettorale (la cui maggioranza dei membri, a sua volta, è espressa da un ristretto circolo di gruppi di interesse e associazioni professionali) fedele al governo centrale: queste e altre storture della forma di governo di Hong Kong sono valse alla penisola la categorizzazione dell’Intelligence Unit dell’Economist di «flawed democracy», «democrazia difettosa». Il Partito comunista cinese, memore di vecchie promesse, ha però optato per modificarla, seppure non in una maniera che ha soddisfatto tutti. Andiamo con ordine, però.

Cosa è successo

In quell’accordo tra Regno Unito e Cina, quest’ultima si impegnò anche ad adoperarsi in modo che, vent’anni dopo il “cambio di proprietà” di Hong Kong, nel 2017, i suoi sette milioni di cittadini avrebbero potuto eleggere direttamente il capo del loro governo (intenzione che, peraltro, confermò nel 2007). Negli ultimi mesi, tuttavia, il PCC ha dato segnali che vanno in senso contrario rispetto all’implementazione di un ordine democratico simil-occidentale. Prima, a luglio e nemmeno una settimana dopo la tradizionale veglia alla luce delle candele con cui a Hong Kong si ricordano i fatti di Tiananmen, il Consiglio di Stato cinese ha diffuso un documento ufficiale in cui ribadiva la sua giurisdizione esclusiva sul territorio della metropoli; «l’alto grado di autonomia goduto da Hong Kong è soggetto all’autorizzazione del governo centrale», vi si leggeva, tra le altre cose. Quindi, ad agosto, il Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del Popolo – l’organo più simile a un parlamento che si trova sul suolo della Cina – ha deciso che dal 2017 i cittadini della penisola avrebbero sì potuto scegliere direttamente il chief executive, ma fra una rosa di nomi pre-approvata da una commissione speciale filocinese. In sostanza, rispetto alla situazione attuale non cambierebbe poi molto.

I primi a protestare, mercoledì scorso, sono stati gli studenti, che si sono ritrovati nei luoghi simbolo del potere economico e politico di Hong Kong: i quartieri Central e Admiralty, dove sorgono i palazzi governativi, e Mong Kok.

La rivoluzione degli ombrelli

Occupy Central with Love and Peace è un movimento di disobbedienza dai toni pacifici fondato da un professore di giurisprudenza dell’Università di Hong Kong, Benny Tai Yiu-ting, nel gennaio del 2013. Il fine di Occupy Central è dare a Hong Kong ciò che gli è stato promesso: il suffragio universale senza cavilli e sotterfugi. Il 1 luglio scorso, nella tradizionale marcia per l’anniversario del ritorno di Hong Kong alla Cina, il movimento si è trovato a sfilare per le strade con centomila persone (e questo prima dei segnali di cambio di rotta di Pechino).

La protesta di questi giorni era originariamente in programma per il 1° ottobre, che in Cina è Festa nazionale perché ricorda la fondazione della Repubblica popolare nel 1949, ma è stata di fatto anticipata dal raduno spontaneo degli studenti, a cui Yiu-ting e il resto del direttivo hanno scelto di accodarsi, occupando il cortile degli uffici del quartier generale del governo cittadino. La svolta è arrivata domenica, quando la polizia di Hong Kong ha reagito con la forza, sparando gas lacrimogeni sulla folla. Il logo della protesta che i social media hanno contribuito a legare a questi eventi, un ombrello, rappresenta proprio lo strumento usato da quelli di Occupy Central per resistere agli spray delle forze dell’ordine. Questo approccio duro ha richiamato nelle strade altre migliaia di cittadini comuni, espandendo il bacino della protesta (Hong Kong va fiera del suo eccezionalismo rispetto al resto della Cina, ed è probabile che le immagini della polizia nelle strade abbiano fatto scattare campanelli d’allarme nella coscienza dei locali).

Le ultime ore

La giornata di lunedì è passata senza particolari scontri, grazie all’approccio più “morbido” della polizia locale e a un’inusuale disciplina della gente in piazza, che non ha cercato ulteriori scontri. La folla chiede le dimissioni del chief executive Leung Chun-ying, che da parte sua ieri ha detto che «il movimento Occupy potrebbe durare a lungo», rifiutando però di concedere legittimità alla protesta: «i candidati al ruolo di chief executive devono essere proposti da un comitato», perché, sostiene Leung, è importante seguire i dettami della Legge fondamentale (il documento para-costituzionale redatto in occasione del ritorno di Hong Kong alla Cina, nel 1997). Ieri in serata, ribadendo la prospettiva di Pechino, che giudica illegali le proteste, ha rifiutato di incontrare i delegati del movimento Occupy.

Martedì un rappresentante della polizia ha dichiarato in conferenza stampa che gli uomini in divisa non «avrebbero in nessun caso sparato un colpo», nonostante domenica siano stati visti arrivare nei luoghi della protesta imbracciando armi, secondo alcuni caricate a proiettili di gomma.

Per le strade teatro della protesta, mai così piene nonostante l’ondata di precipitazioni di ieri, il clima è molto più rilassato rispetto agli scontri di domenica, e nella notte tra lunedì e martedì poliziotti e manifestanti hanno riposato a poca distanza gli uni dagli altri. Qualcuno ha anche trovato il tempo per barbecue improvvisati, e in generale gli occupanti hanno potuto assestarsi sulle loro posizioni e riorganizzare gli spazi conquistati.

Agli studenti si sono da giorni unite organizzazioni dei lavoratori, insegnanti, rappresentanti delle fazioni politiche filodemocratiche e anticinesi e diversi membri delle professioni (tra cui si segnalano anche due centinaia di dipendenti di Coca-Cola). Gli organizzatori – tra cui Joshua Wong, leader appena diciassettenne di Scholarism, un’organizzazione studentesca tra le protagoniste delle cronache di queste ore, rilasciato dopo aver passato il fine settimana in carcere – sostengono che oggi, il Guoqing Jie (Festa nazionale cinese), sarà il giorno più partecipato dall’inizio dell’occupazione. In una conferenza stampa Agnes Chow, un’altra portavoce di Scholarism, poco fa ha inoltre dichiarato che se il chief executive Chun-ying non darà le dimissioni entro domani a mezzanotte gli studenti sono pronti a occupare l’interno degli edifici governativi. La disobbedienza, insomma, continua.

E la Cina?

Tra le altre cose, il proconsole di Hong Kong ha invitato i suoi concittadini a non credere alle voci che danno l’Esercito di liberazione popolare, ovvero le forze armate cinesi, in procinto di scendere a sud in caso la situazione diventasse ingestibile. Sul sito del quotidiano filogovernativo cinese Global Times un articolo (in seguito rapidamente cancellato) fino a poche ore fa tuttavia suggeriva che «il supporto delle forze armate potrebbe riportare rapidamente alla stabilità» a Hong Kong. Un documento ufficiale del dipartimento della propaganda, ottenuto da China Digital Times, ordina alle testate nazionali di «mettere in ordine le informazioni sugli attacchi violenti degli studenti di Hong Kong al governo e su Occupy Central».

Su Weibo, il più utilizzato social network cinese, mentre scriviamo i riferimenti alla protesta della metropoli del sud sono filtrati e censurati. Tutto questo accade perché, come spesso si torna a rammentare in occasioni del genere, gli apparatchik di Pechino hanno un occhio di riguardo per la stabilità delle zone periferiche dell’enormità che amministrano.  Come imperatori in bilico, si sentono costantemente minacciati da ogni accenno di sgretolamento dell’unità politica, credono che qualunque segno di ribellione sia una minaccia per la sopravvivenza dello Stato intero, temono notoriamente di fare la fine dei sovietici.

Il sessantenne Leung Chun-ying si trova al momento tra due fuochi, dato che anche i vertici cinesi stanno pensando di costringerlo a dimettersi per placare, o perlomeno attenuare, la rivolta.

Un drone sorvola le zone “calde” della manifestazione.

Le conseguenze di Occupy

Difficile dire che cosa otterranno i manifestanti, ora come ora. La Cina si è rifiutata di fare qualunque tipo di concessione, finora, ma di sicuro Occupy Central ha già raggiunto un primo importante obiettivo, dando filo da torcere al governo pro-Pechino e attirando su di sé le attenzioni mediatiche di tutto il mondo. Va anche detto che l’opinione pubblica di Hong Kong non è così solidamente contraria alla proposta di riforma avanzata da Pechino per il 2017, nonostante ciò che si legge in queste ore. Come riportato da Vox, un sondaggio di metà settembre mostrava che soltanto il 48% degli intervistati avrebbe preferito rifiutare il diktat del Politburo cinese, mentre il 39% sarebbe stato disposto a mandare giù la pillola e godere, in ogni caso, dello status atipico di regione a statuto speciale che tanta fortuna economica ha portato alla città (l’anno scorso il 5,2% del valore totale dei commerci mondiali è passato per Hong Kong, così come il 60% degli investimenti esteri cinesi).

L’imponente settore bancario di Hong Kong e, più in generale, il mondo della finanza sono i primi settori a sperare in una conclusione rapida delle occupazioni. Una serie di sigle corporate ha anche avviato “Protect Central”, una sorta di risposta business first alle manifestazioni di questi giorni. I risultati di Occupy Central dipenderanno in buona parte dal modo in cui il movimento comunicherà ciò per cui si batte.
 

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