Attualità

Di mostri e prime pagine

L'opinione pubblica e i grandi fatti di cronaca nera: Cogne, Avetrana, Brembate e gli altri luoghi simbolo di altrettanti misfatti. Un giro di pareri, spigolature e riflessioni su come i nostri media si occupano di vittime e colpevoli.

di Aa.Vv.

“Tema caldo” è una nuova rubrica che, con cadenza più o meno quindicinale, si propone di affrontare grandi argomenti di attualità con un taglio originale pescando dall’agenda politica, culturale, sportiva, internazionale del momento.“Tema caldo” vuole darvi  nuove domande a cui cercare nuove risposte, nuovi lati da cui leggere la realtà. Oggi abbiamo raccolto un giro di opinioni su un tema connesso a un fatto di cronaca che ha monopolizzato il dibattito pubblico nazionale, ricevendo una dose ipertrofica di spazio sui media: la svolta nelle indagini sull’uccisione di Yara Gambirasio, quindicenne della provincia di Bergamo scomparsa nel 2010. Spesso i titoli dei giornali dedicati a casi come questo sembrano atti a stimolare, più o meno volontariamente, i più bassi istinti dei lettori nei confronti dei colpevoli (o presunti tali). Esiste un problema di copertura giornalistica dei fatti di cronaca nera che coinvolgono emotivamente l’opinione pubblica? La colpa è tutta dei nostri media, oppure la cornice in cui li presentano, in fondo, è quella che preferiamo? Buona lettura. (Qui trovate la prima puntata, dedicata al D-Day)

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Guido Vitiello – Il circo senza trattino

Dire di un problema che è sempre esistito è il modo migliore per rendere soporifero perfino un commento di poche righe, ma vale la pena citare il vecchio dilemma del giurista Francesco Carnelutti (Le miserie del processo penale, 1957): «L’uomo, quando è sospettato di un delitto, è dato ad bestias, come si diceva una volta dei condannati offerti in pasto alle fiere. La belva, l’indomabile e insaziabile belva, è la folla. L’articolo della Costituzione, che si illude di garantire l’incolumità dell’imputato, è praticamente inconciliabile con quell’altro, che sancisce la libertà di stampa». Quando Carnelutti scriveva queste parole l’Italia viveva le ultime battute del caso Montesi, che è stato la prova generale di tutti i processi mediatici successivi, e dove non ci si andava certo più leggeri di oggi (un quotidiano sbatté in prima pagina il certificato ginecologico della sorella dell’uccisa). Questo non vuol dire che nulla sia cambiato, nei successivi sessant’anni.

La cosa che più mi inquieta, nell’Italia degli ultimi tempi, è la sempre più accentuata indistinzione degli ambiti: il campo politico sconfina nel campo giudiziario (l’abominio di un ministro che emette una sentenza), che a sua volta si lascia volentieri invadere e snaturare da quello mediatico. Cadono, l’una dopo l’altra, tutte le barriere tra i diversi codici di comportamento, i diversi contesti rituali e i diversi registri del discorso – pubblico e privato, istituzionale e confidenziale, giuridico e morale – e i media sono il luogo dove avviene questa spaventosa implosione. È vicino il giorno in cui sarà un anacronismo, una pia illusione retrospettiva parlare di «circo mediatico-giudiziario», perché il trattino sarà venuto meno, e il processo in senso stretto, con le sue pur vacillanti garanzie, non sarà che un segmento di un rituale più vasto, catartico, sacrificale, parareligioso e mediatico. Quando questo avverrà, non vorrei essere un imputato.

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Giovanni Fontana – Per dirla con Churchill

Leggere o assistere ai resoconti dei fatti di cronaca nera dà l’impressione che i media cerchino di includerci nella famiglia delle vittime. Siamo continuamente accostati a chi ha subito un crimine – attraverso le lacrime delle madri, i racconti d’infanzia e di vita quotidiana della vittima, la connessa stereotipizzazione positiva – tanto da sentirci, in prima persona, parte offesa. Questo meccanismo avviene per ragioni di mercato: la vicinanza ci rende appassionati e quindi potenziali lettori o spettatori.

Siamo perciò abituati a togliere e aggiungere informazioni quando leggiamo la cronaca nera. Aggiungiamo informazioni perché il resoconto sembra sempre diretto a una cerchia ristretta di familiari che conoscono i personaggi, le potenziali accuse e i capitoli precedenti. Un nuovo lettore arrivato deve fare un’opera di ricostruzione per capire chi è la ragazza di cui si accenna solo il nome, oppure il soprannome. «Mary, il cugino confessa» è un titolo inventato ma del tutto verosimile. Ma sappiamo anche di dover togliere informazioni, perché l’obiettivo del filtro mediatico scandalistico non è l’informazione ma la creazione del caso, la formazione di lettori che si nutrano delle puntate successive. È il gesto di “sollevare il lenzuolo bianco” che copre i morti in pubblico: il racconto di particolari scabrosi o perversi che sono informativamente irrilevanti.

Naturalmente il presunto colpevole è invece completamente privato della proiezione empatica garantita ai familiari delle vittime, cioè tutti noi. Prima di tutto nella negazione dell’immedesimazione più spontanea: quella della persona ingiustamente accusata («domani potrebbe capitare a voi», ripeté diverse volte Enzo Tortora); ma anche nel venir meno del diritto alla privacy attraverso la pubblicazione di fatti personali non pertinenti alle indagini.

Siamo così tutti dei Gambirasio, Kercher, Poggi, Onofri, Scazzi, e perciò in diritto di essere indignati. L’inclusione nella grande famiglia delle vittime ha anche l’effetto di legittimare nel pubblico quei pensieri istintivi, vendicativi e barbarici che siamo abituati a concedere soltanto a una persona in preda al dolore («sta soffrendo, non è in grado di ragionare»). Tuttavia, se i media hanno la colpa di non educarci, noi abbiamo la colpa di non essere educati, ed è difficile stabilire quale sia la causa e quale l’effetto: la condanna dei media non può assolvere l’opinione pubblica. Come spesso accade, la migliore formulazione del concetto è di Winston Churchill: «l’umore e l’atteggiamento del pubblico su come trattare il crimine e i criminali è uno dei più infallibili test della civiltà di un Paese».

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Anna Momigliano – Sentirsi migliore di chi si sente migliore

A volte mi domando che cosa sia peggio: il voyeurismo degli indignati, oppure il meta-voyeurismo di chi s’indigna dell’indignazione a buon mercato. Visto che di regola non leggo le pagine di nera sui quotidiani (nessuno snobismo, la giornata è fatta di 24 ore e ognuno ha le sue priorità), la duplice notizia di questi giorni (mi riferisco all’individuazione del “presunto colpevole”, espressione orrenda, di Yara e alla strage di Motta Visconti) l’ho seguita, mio malgrado, sui social network. Il mio feed s’è intasato di link a Repubblica e il Giornale che promettevano nomi e cognomi di orchi, dettagli sulla routine di padri assassini, eccetera.

Gli amici di Facebook, bizzarro amalgama di lontani parenti, conoscenti di vecchia data e para-colleghi che hanno fatto della scrittura, nelle sue molteplici forme, una fonte di reddito, erano equamente distribuiti tra chi teneva a esternare il raccapriccio scagliandosi contro gli assassini di bambini, o presunti tali – brutti bastardi, vi meritate la pena di morte – e chi invece s’indignava davanti al cinismo con cui i giornali capitalizzavano su fatti di sangue e alla faciloneria di chi ci cascava – questi non hanno ritegno, sbatti il mostro in prima pagina.

La prima categoria era costituita soprattutto da parenti e conoscenti, magari non più giovanissimi, la seconda da para-colleghi con un grado d’istruzione medio-alto e maturati dopo la caduta della Prima Repubblica. Tra i primi, m’è parso di intuire la necessità di apparire umani, più normali e morali rispetto ai mostri. Tra i secondi invece ho visto, o creduto di vedere, l’esigenza di apparire migliore dei primi, più razionali, democratici e garantisti del popolo bue. I primi puntavano il dito contro i mostri, i secondi contro i primi. Forse mi sto sbagliando. O forse, come spesso accade, sto proiettando sui miei amici di Facebook la parte peggiore di me. Però mi chiedo se i primi non stessero tentando d’esorcizzare il mostro che è dentro ognuno di noi (espressione banale e abusata, ma non per questo meno vera), e se i secondo invece non stessero cercando d’esorcizzare il voyeur che è dentro tutti. Quanto a me, non so bene che cosa sto cercando di esorcizzare mentre scrivo queste righe.

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Francesco Costa – Raccontare la cronaca e l’importanza dei “ditini alzati”

La grande attenzione dei media per i casi di cronaca nera non è un male in sé. È meglio dirla subito, questa cosa, perché al conformismo di chi per mestiere si occupa di cronaca nera (ci arriviamo) si è unito da tempo un conformismo speculare di fastidio altezzoso verso qualunque tentativo di raccontare la cronaca nera, anzi: proprio verso l’esistenza di qualcosa che possa aspirare allo stesso tempo a definirsi giornalismo e occuparsi di cronaca nera.

Ogni anno soltanto in Italia vengono uccise diverse centinaia di persone, ma solo alcune di queste ricevono particolari attenzioni dai media. Il motivo è – banalmente – che sono delle grandi storie. Pensate soltanto alla storia delle indagini su Yara Gambirasio, che sembra uscita da un’intera stagione di CSI, oppure all’enormità della vicenda familiare di Avetrana. Sono più importanti della deflazione nell’eurozona? No. Devono piacere a tutti? No. Ma sono storie letterarie, intricate, torbide, misteriose, oggetto di indagini complicatissime: nessuno avrebbe vergogna di seguirle dentro un libro giallo o una serie tv con Matthew McConaughey. Scriverne e leggerne non è peccato mortale.

Eppure leggerle sui giornali fa venire la nausea. Secondo me innanzitutto per via del conformismo (eccoci) nel loro racconto. Salvo pochissime eccezioni, infatti, l’inviato del più letto e autorevole quotidiano del paese, quello della Vita in diretta, quello di Telelombardia e quello del giornalino locale utilizzano esattamente lo stesso linguaggio, lo stesso tono artefatto, gli stessi luoghi comuni, la stessa inesorabile furia colpevolista, la stessa pigra riproduzione della voce delle procure: parlano dello stesso “vaglio degli inquirenti”, raccontano le stesse “indagini a 360 gradi”, usano le stesse sciatte figure retoriche e gli stessi maldestri tentativi di travestirsi da grandi narratori. Questo appiattimento verso il basso trasforma il racconto di un fatto di cronaca eccezionale in un rito prevedibile che crea quel rifiuto tout court della cronaca nera di cui dicevamo all’inizio: una reazione superficiale e istintiva a un sentimento comprensibile.

È un peccato che non esista su questo una vera discussione pubblica. In altri paesi, le scelte delle grandi testate sono oggetto di analisi da parte di altre grandi testate; i giornalisti discutono criticamente il lavoro di altri giornalisti; l’errore di un grande giornale diventa una notizia da raccontare per tutti gli altri. In Italia il solo provare a fare discorsi come questo attira istantaneamente l’accusa di “voler insegnare il mestiere agli altri” o quella, ancora più sciocca, di andare in giro col famigerato “ditino alzato”. Eppure sono i giornalisti stessi a ricordare spesso – a proposito di chiunque non sia un giornalista – quanto quel “ditino” sia prezioso alle nostre società: quanto una discussione pubblica produca assunzioni di responsabilità e scelte più chiare. Non è scritto da nessuna parte che la stampa debba essere immune da questo salutare processo.

 

Immagine a cura di Jacopo Marcolini