Attualità

Cosa succederà l’anno prossimo in Medio Oriente

Le elezioni in Egitto e Israele, i negoziati con l'Iran e la guerra all'Isis (dove la Turchia forse cambierà idea): il 2015 sarà un anno molto intenso per il Medio Oriente. Ecco quali Paesi tenere d'occhio e perché.

di Anna Momigliano

Le elezioni in Israele (dove più che elezioni saranno un referendum su Netanyahu) e in Egitto (dove non è chiaro se saranno veramente elezioni, o soltanto un’imitazione); i negoziati sul nucleare iraniano che andranno avanti, e che per la prima volta sembrano portare da qualche parte; l’Isis che comincia a diventare un problema anche per la Turchia, ovvero uno dei pochi Paesi che finora sembrava avere chiuso un occhio, se non entrambi, davanti al gruppo terrorista; e infine la Palestina che marcia sempre più determinata nel suo percorso diplomatico per essere avere riconosciuta la sua indipendenza: il 2015 sarà un anno molto intenso per il Medio Oriente. Per questo abbiamo messo a punto un breve prontuario che spiega quali Paesi tenere d’occhio e perché.

Israele: un referendum su Netanyahu

È anno di elezioni, anticipate: si vota a marzo, a seguito di una decisione del premier Netanyahu che ha “licenziato” i ministri centristi che si erano rifiutati di firmare una controversa proposta di legge che, secondo loro, avrebbe posto l’identità ebraica di Israele davanti alla sua natura democratica. Alcuni analisti politici sostengono che in realtà la proposta di legge fosse esattamente un pretesto per sciogliere il governo: Netanyahu, messo a disagio dagli alleati moderati, vorrebbe andare ad elezioni nella speranza di ottenere i numeri in parlamento per fare un governo di estrema destra. In ogni caso, stando a quello che si è visto finora, più che un’elezione sembra destinata ad essere un referendum sullo stesso Netanyahu – e sulla trasformazione che sotto la sua lunga leadership ha cambiato la società israeliana. Il partito laburista e il partito di centro Hatnuà (“il movimento”) hanno annunciato la formazione di un blocco unico in chiave “anti-Bibi”. Nel frattempo alcuni fuoriusciti del Likud, il partito dell’attuale premier, hanno formato un nuovo partito, che probabilmente formerà una lista unica con un altro partito di centro, Yesh Atid (“c’è un futuro”). Se dovesse vincere il “blocco anti-Bibi”, capitanato dal laburista Isaac Herzog, c’è da aspettarsi una linea leggermente più disponibile sulla ripresa dei negoziati coi palestinesi – ma non un cambiamento di rotta radicale – e forse – ma resta tutto da verificare – un leggero miglioramento dei rapporti con gli altri Paesi del Medio Oriente . Al contrario un cambio di guardia interno potrebbe portare, forse, ad un’inversione di marcia sul trattamento delle minoranze etniche dentro i confini di Israele.

Palestina: l’Anp punta tutto sulla diplomazia

L’Autorità nazionale palestinese sembra determinata a puntare tutto sul piano diplomatico. L’obiettivo è ottenere, in modo sempre più netto, il riconoscimento internazionale della loro indipendenza, dato lo stallo coi negoziati. L’Anp – che di fatto controlla solo la Cisgiordania, ma ha ammesso nel governo di unità nazionale Hamas, il gruppo radicale che controlla Gaza – sta facendo di tutto per tenersi fuori, almeno in via ufficiale, dalle violenze, nonostante il rapporto controverso con Hamas, che nella lotta armata è immersa fino al collo. La filosofia è quella già delineata dall’ex premier Salam Fayaad: riporre poche speranze nei negoziati con Israele (non vanno da nessuna parte), e mettere da parte la resistenza (non funziona, e non piace all’Occidente) e mettere gli israeliani davanti al fatto compiuto: una Palestina indipendente, per quanto soltanto su carta, ed economicamente sostenibile. Anche qui, non c’è da aspettarsi miracoli, ma sviluppi molto interessanti.

Turchia: prenderà parte alla lotta contro l’ISIS?

Finora la Turchia ha mantenuto una posizione ambivalente davanti allo Stato islamico, detto anche ISIS, l’organizzazione terrorista che di fatto controlla un territorio tra Siria ed Iraq, dove ha decretato la nascita del “califfato” (spiegavamo qui cos’è). Infatti, quando si è formata la coalizione internazionale anti-ISIS, la Turchia s’è rifiutata di offrire le proprie basi al contingente americano. In breve, Ankara è scettica davanti agli sforzi internazionali contro l’Isis e qualcuno arriva ad accusarla di aiutare indirettamente, se non altro “chiudendo un occhio”, l’organizzazione estremista. Le ragioni sono molteplici: dal punto di vista turco, combattere l’ISIS significa, indirettamente, dare una mano ai curdi, nemici giurati della Turchia (anche se i Peshmerga, le milizie curde irachene filo-americane impegnate nel fronte anti-ISIS, hanno ormai rotto con il PKK, il gruppo armato attivo nel Kurdistan turco). Inoltre, sempre dal punto di vista turco, combattere l’Isis significa anche prolungare la permanenza di Assad, il dittatore siriano anch’egli nemico giurato della Turchia.
Dunque, si diceva, finora la Turchia ha mantenuto un basso profilo sul dossier ISIS. Il problema è che adesso l’ISIS rischia di diventare un problema per la stessa Turchia. Infatti pare che il gruppo estremista abbia costruito alcune basi all’interno del confine turco, fatto però che il governo di Ankara non conferma. Se l’ISIS si dovesse confermare anche un problema interno, la Turchia potrebbe decidere di unirsi alla lotta contro di esso – e sarebbe in grado di farlo con molta più efficacia di altri paesi.

Iran: potrebbe essere la volta buona per i negoziati sul nucleare

Dovrebbero proseguire fino al giugno del 2015 i negoziati con l’Iran sul dossier nucleare. La Repubblica islamica di Teheran ha iniziato un programma nucleare circa dodici anni fa – l’Iran da un lato sostiene che sia un programma pacifico, dall’altro i paesi occidentali, che con Teheran hanno rapporti difficili da quando gli ayatollah hanno preso il potere nel 1979, hanno ragioni per credere che in parallelo esista anche un programma ad uso bellico, che violerebbe gli accordi internazionali. Infatti il Trattato di Non Proliferazione riconosce soltanto Cina, Francia, Usa, Russia e Regno Unito, che sono anche i 5 membri permanenti del Consiglio di sicurezza Onu, come “aventi diritto” (in realtà la questione è più complicata) alla bomba atomica. Dunque Teheran dovrebbe fornire prove che non sta realizzando una testata nucleare. Dal canto suo l’Iran si è sempre rifiutato di garantire pieno accesso agli osservatori internazionali, ufficialmente per questioni di sovranità nazionale. In pratica si tratta di trovare una soluzione di compromesso che da un lato fornisca garanzie alla comunità nazionale della natura pacifica del programma iraniano e dall’altro consenta a Teheran di salvare la faccia, o meglio l’orgoglio nazionale. Sono anni che i negoziati vanno avanti, a più riprese, senza risultati pratici. Ma pare che nel 2014 il clima sia migliorato, forse a cause della complessa situazione mediorientale (leggi: ISIS) che spinge alcuni paesi occidentali a vedere l’Iran come una fonte di stabilità. La formula attuale del negoziato è quella del cosiddetto “5+1”: a negoziare con Teheran sono i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza (Cina, Francia, Usa, Russia e Regno Unito) più la Germania, che è tra i primi partner commerciali dell’Iran. Era stato chiesto anche all’Italia, altro importante partner commerciale di Teheran, di partecipare alle prime fasi del negoziato nel 2003, quando si formò il “gruppo di contatto europeo”. Ma l’allora governo Berlusconi rifiutò.

Egitto: elezioni in clima di Restaurazione

È anno di elezioni, anche se non è chiaro quanto si svolgeranno in modo democratico, né se si svolgeranno, punto. Se c’è un Paese del Medio Oriente dove la “restaurazione” post-primavere arabe sembra riuscita, questo è l’Egitto. In pratica, il Paese nordafricano è tornato nell’era Mubarak: l’attuale presidente, l’ex Capo di Stato Maggiore Abdel Fattah el-Sisi, è stato eletto in elezioni formalmente democratiche nell’estate 2014, che però s’erano svolte dopo un golpe da parte delle Forze Armate, che avevano deposto il presidente Mohammed Morsi un anno prima e messo fuorilegge il suo partito, i Fratelli Musulmani, una formazione islamista. Dal canto suo, lo stesso Morsi era stato eletto in elezioni democratiche ma una volta salito al potere s’era comportato come un despota. Tutto questo per dire che in Egitto c’è una democrazia formale, ma tira un clima dove l’opposizione – e non solo quella islamista – viene repressa con la forza. Contemporaneamente i Fratelli Musulmani e altri gruppi radicali godono di un discreto sostegno popolare, e la rabbia sta covando. In questo contesto, dove l’aria si taglia col coltello, dovrebbero svolgersi le elezioni parlamentari a maggio. In caso di disordini, le elezioni potrebbero essere cancellate.

 

Tutte le immagini sono scattate da John Moore, “A trip through the hearth of central Iran”, 2014, Getty Images