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Cosa ci piace dell’Argentina del rugby

È una specie di Cenerentola mal riuscita, combatte nel Championship coi denti e non sembra abbia intenzione di fermarsi, e potrebbe perfino cambiare il modo di giocare a rugby. Una guida all'Albiceleste rugbistica.

di Giulio D'Antona

Prendete una squadra che piange a ogni inno nazionale. Sinceramente, piange. Piangono tutti e chi non piange sta trattenendo il groppo, e chi non canta è perché le parole gli si sono bloccate a metà della gola, ma ci crede profondamente e giura che morirà con gloria se le circostanze dovessero richiederlo. Parliamo di rugby e la metafora della battaglia è meglio lasciarla dov’è: seppellita sotto diversi strati di retorica. Parliamo dell’Argentina, che è al suo terzo Championship e non ha ancora vinto nemmeno una partita, ma che piano piano mangia terreno, accorcia le distanze e non fa che alzare l’asticella del proprio orgoglio a ogni incontro, di pari passo con quella della pericolosità dei propri avversari.

Il Championship è il torneo del Sud del Mondo, quello che prima del 2012 si chiama Tri Nations e vedeva in campo Sudafrica, Australia e Nuova Zelanda. È il torneo della velocità e della precisione, della potenza esplosiva contrapposta alle strategie di trincea del rugby europeo, dove i metri si fanno per piccoli passi. Il Championship è la terra dei missili, della palla che vola lungo la linea di attacco nelle mani delle ali e finisce in area di meta nel giro di tre passaggi lunghi. Il gioco statico inesistente, le fasi di riorganizzazione — ruck e mischie chiuse — lasciate a fare da ripiego per gli errori, e quelle di potenza — maul e gioco di avanti — sfruttate solo per strappare gli ultimi centimetri prima di aprire verso le fasce. Differenze fisiche quasi azzerate, piloni che macinano erba, terze linee specializzate nei blitz subacquei e calciatori con l’istinto per la linea laterale più sviluppato di quello di un falco per le lepri.

L’Argentina ha debuttato nel Championship un paio di anni fa e la sensazione era già quella che non avesse nulla a che vedere con quel tipo di gioco ma che, contemporaneamente, fosse esattamente quello che mancava per completare il torneo.
Quella dei Pumas è la storia di una specie di Cenerentola al contrario, che mette tutto il cuore nel coronamento del miracolo ma che per un motivo o per l’altro non sembra destinata ad arrivarci nel prossimo futuro. È una storia che agli italiani piace. Un po’ per assonanza — i nomi che girano per la rosa albiceleste sono italiani quanto sono argentini quelli delle rose azzurre — un po’ per senso di condivisione: la furia del gioco, quel costante schiantarsi contro il muro della tecnica, quei tentativi ciechi e scomposti che si aprono in pochi momenti di vera, piena e consapevole lucidità, ma che per la maggior parte sono assalti all’arma bianca contro le cannoniere, che finiscono per rendere ancora più arcigni gli avversari e simpatico il manipolo di sparuti. Ma anche il fatto di essere condannati, più condannati degli italiani che un paio di valvole di sfogo nel Sei Nazioni le hanno, a misurarsi con squadre oggettivamente più tecnicamente avanzate, più preparate mentalmente e decisamente più strafottenti.

L’Argentina ha debuttato nel Championship un paio di anni fa e la sensazione era già quella che non avesse nulla a che vedere con quel tipo di gioco ma che, contemporaneamente, fosse esattamente quello che mancava per completare il torneo.

Quindi, l’Argentina si commuove ogni volta che calca un campo del Championship, come se fosse la prima volta, come se ogni partita fosse potenzialmente quella del riscatto. Pronti a fare la storia, «fateci vivere con onore, o juremos con gloria morir».

Il gioco dei Pumas è fatto di fasi avanzanti lentamente. Quasi tutti i giocatori militano nel campionato argentino o nei campionati europei, e sicuramente tutti hanno qualche nonno inglese, francese o italiano. Sono abituati a vedere il campo dall’altezza dell’erba, a scavare nei raggruppamenti e uscirne con la palla in mano e un sacco di pazienza per reimpostare la linea e un sacco di tempo per tritare campo. Metro per metro, lasciando perdere le volate artistiche alla Bryan Habana o le sgroppate chilometriche alla Israel Folau. L’Argentina è fatta di Albacete e Postiglioni, gente con il baricentro basso e un sacco di voglia di andare a contatto. In completo e manifesto disaccordo con il gioco imposto da Nuova Zelanda, Sudafrica e Australia. Nelle prime tre partite del Championship 2014, delle due squadre in campo una dirigeva col tempo tarato sull’allegro mentre l’altra cercava di non perdere il ritmo. Una giocava di testa, l’altra di pancia. L’Argentina costruiva le risposte sulle reazioni momentanee, mentre Sudafrica e Nuova Zelanda pensavano a gettare delle fondamenta mai completate, ma abbastanza solide per portare a casa l’incontro.

L’Australia, nella quarta partita del torneo, ha rappresentato un’eccezione. Non tanto per merito Wallabie, quanto per demerito argentino. I Pumas, vuoi per la stanchezza imposta dai ritmi del torneo, vuoi per una minore concentrazione mutuata dagli scarsi successi, sono stati decisamente meno aggressivi e hanno mancato l’obbiettivo forse più semplice, visti i precedenti.

Se da una parte il gioco delle squadrone è intriso della sicurezza e della boria della superiorità, dall’altra quello della Cenerentola-a-metà è un misto di nozioni grezze e schiarite miracolose, che finiscono sempre per far pendere il punteggio più di quanto si potrebbe immaginare. Così il Sudafrica che qualche settimana fa ha debuttato contro i Pumas sotto la pioggia, drammaticamente esausto dall’impossibilità di amministrare il pallone e fintamente stupito della determinazione degli avversari, è una squadra che ormai abbiamo imparato a riconoscere e che si riflette nello sguardo confuso di Neozelandesi e Australiani. Se l’andata — finita 13 a 6 per gli Springbocks — è volata via sotto gli errori dei primi minuti, il ritorno ha rischiato di trasformarsi in una data storica per il rugby argentino, con quel 31 a 33 che ha scosso le gradinate di Salta e ha fatto vibrare le finestre a Pretoria. E questo perché i sudafricani, estensione dei colleghi Oceanici, non si sono ancora dimostrati propensi a prendere sul serio gli ultimi arrivati e così hanno fatto i Kiwis del terzo incontro, che sono comunque All Blacks, solo costretti alla fatica. L’entrata dell’Argentina nel Championship dovrebbe — e sta incominciando a — insegnare ai grandi che non si può credere che esista solo un modo di fare, su cui rimanere incagliati ignorando gli outsider con la scusa di «imporre il gioco al resto del mondo». Altrimenti il resto del mondo finisce per fare come sa. Non sarà bello da vedere, magari, ma quello che conta è arrivare alla fine.

Quando nel 2007 i Pumas sono calati sul mondiale come una mandria in corsa aperta nelle pampas, portando via Scozia, Sudafrica e Francia, tutti se lo aspettavano.

Quando nel 2007 i Pumas sono calati sul mondiale come una mandria in corsa aperta nelle pampas, portando via Scozia, Sudafrica e Francia, tutti se lo aspettavano. A dettare la linea era Felipe Contepomi e nessuno avrebbe messo in dubbio l’abilità dell’Argentina di prendersi quello che le spettava. Poi è venuto il 2011, i quarti persi contro gli All Blacks, e quindi il Championship. Allora è diventato difficile tenere insieme l’entusiasmo e tradurlo in un cambio di abitudini. Al netto di un’evoluzione costante, la percezione è rientrata nei ranghi di clamore che sono di solito dedicati a chi dagli stracci passa alle scarpette di cristallo, ma sembra che ancora non meriti la mano del principe.

L’Argentina, però, ci piace perché fa quello che le pare. Si è trovata ribaltata in una bolla di agonismo esasperato, individualismo plastico e machismo da avanspettacolo, e ha continuato a giocare come la compagine semi-professionistica di sette anni fa. Certo, qualche sforzo di adeguamento c’è stato e i tentativi di spostare il pallino sul gioco aperto sono evidenti, ma finché resisterà una mischia tanto potente da costringere gli avversari ad arretrare di due metri a ogni ingaggio, è altrettanto lampante che il rugby argentino si gioca su un altro campo rispetto a quello del resto dell’emisfero australe e che, prima o poi, lascerà una traccia nella tecnica delle altre del Championship. Il giorno in cui gli argentini riusciranno a utilizzare la prepotenza di mischia per creare una piattaforma di rilancio per i trequarti in grado di fare arrivare il pallone lustro e pulito fino all’ala, probabilmente cominceranno anche a tenere le redini delle partite senza scivolare sotto i colpi dell’esperienza.

Quello del Championship è un rugby che si gioca sul campo aperto. Vale a dire che impone di portare il pallone dove lo riceve chi può correre e farlo girare. È una questione di incastri e raddoppi, di centri che si inseriscono all’improvviso, senza che generalmente la palla vada a terra. L’Argentina non ha ancora il fiato per resistere a ottanta minuti di pieno regime — e questo è quello che la frega sulla distanza — ma ha sicuramente la mentalità per plasmare le partite a proprio vantaggio, i giocatori per portarsi sempre in zona punti e la faccia tosta di continuare a martellare sulla linea come se fosse sempre il 2007, quando la squadra era fatta da studenti universitari, medici e un carpentiere industriale. Quello che non fanno le mete lo fanno i calci piazzati, recita un vecchio adagio. In questo caso c’è da lavorare su entrambi i fronti, ma senza cedere all’ansia di diventare come gli altri. Inventandosi qualcosa che sia una via di mezzo e che piloti il ritmo delle partite e dei tornei a venire. Nessuno dice che sarà un compito facile o che succederà a breve, ma è sicuramente una via migliore che quella di imparare a correre come Julian Savea.

Montero, Amorosino, Tuculet e Cubelli fanno parte di quell’ondata di giocatori che potrebbero modulare il gioco sulle onde medie, garantendo agli avanti il giusto apporto di velocità e esplosività

La spina dorsale della squadra resta in un pacchetto di mischia convinto e rodato che a sua volta poggia su una prima linea di rocce come il capitano Creevy e Chaparro, su mostri sacri come Leguizamon e su terze assetate di palloni come Albacete e Alemanno. Il pacchetto argentino è indubbiamente il responsabile di tutti i risultati positivi portati a casa fin ora e per un po’ di tempo è stato il motore del rapporto di odio/amore con la nazionale italiana, ora sfociato in una sorta di sindrome di Stoccolma punteggiata di invidia. Poi c’è Tomas Cubelli che da mediano relativamente giovane ha la testa da ammaestratore di elefanti e le mani da artigiano, e soprattuto, a mo’ di arma segreta, quel Manuel Montero uscito dal cilindro, capace di ricalcare le falcate animalesche delle ali australi. Montero, Amorosino, Tuculet e Cubelli — che ultimamente sembra abbia cominciato ad amare le sortite nel traffico à la neozelandese — fanno parte di quell’ondata di giocatori che potrebbero modulare il gioco sulle onde medie, garantendo agli avanti il giusto apporto di velocità e esplosività. Impegnare, logorare e bucare, si diceva una volta dalle parti di Gloucester. L’Argentina conosce la lezione e vorrebbe insegnarla a chi ha impiegato diversi anni a spostarsi in direzione diametralmente opposta.

Non basta la determinazione a scongiurare gli errori della poca pratica, però, e da questo punto di vista di strada da fare ce n’è ancora. Sembra che l’Argentina non si stanchi mai di attaccare, anche se buona parte degli schemi hanno l’aria di essere improvvisati a seconda di come tira il vento e la forza motrice di ogni azione sembra essere esclusivamente la volontà di cominciare ad segnare tacche sulla cintura. Capita che si passino venti minuti di possesso ininterrotto a sudare, accatastare zolla dopo zolla, tenere il pallone, andare a recuperarlo in mezzo a una selva di gambe incrociate, di bocche mordenti e di mani in evidente irregolarità per poi perderlo per una distrazione, un passaggio fuori misura o la voglia di coprire col corpo i metri che non riescono a fare le gambe. Allora resta solo da pregare di non avere davanti un avversario abbastanza pronto da approfittarne, cosa che nel Championship è più impossibile che rara — vedi alla voce Habana che schiaccia un pallone impazzito dopo aver corso per metà del campo da solo. Ogni distrazione sono punti contro e ogni punto contro è un passo che allontana Cenerentola dal palazzo.

Per dirla tutta, l’Argentina ci piace perché è maledetta come noi. Anzi, di più: è così tanto chiaramente destinata a grandi cose che sembra impossibile che non siano ancora successe. Forse è solo perché le squadre con cui si misura sono sempre prepotentemente superiori, o forse perché, davvero, non ha ancora avuto abbastanza fortuna da scavalcare il limiti tecnici e guadagnarci in fiducia. Entra in ogni nuova stagione di corsa ed esce camminando, si ricompone e ci riprova. È passata in pochissimo tempo dal non avere una squadra professionistica, ai vertici della lega internazionale. Dal fondo del ranking all’Olimpo, con quell’aria umile e defilata di chi pensa di non meritare niente, ma che, ora che ha coronato la prima parte del sogno, ha il dovere morale di dimostrare di essere all’altezza. Non glielo lasceranno fare troppo facilmente ma avremo qualcuno da supportare dall’altra parte del Globo. E questa è la cosa che ci piace di più.
 

Tutte le immagini sono della partita Australia-Argentina del 13 settembre scorso. (Bradley Kanaris, Cameron Spencer, Chris Hyde/Getty Images).