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Tutto il mondo è Segrate

Il ritorno delle company town, le città costruite ad hoc per ospitare aziende, nate nel Diciannovesimo secolo e riportate in auge da Facebook, Apple e Google.

di Manuel Orazi

È scattato il grande ritorno delle company town, quelle città destinate ai soli dipendenti di una grande azienda che si diffusero a macchia d’olio fra Usa e Gran Bretagna alla fine del Diciannovesimo secolo per poi moltiplicarsi un po’ dappertutto nei cent’anni successivi. Mai come ora i colossi di internet, divenuti tali grazie alla rete immateriale, si stanno cimentando in un’attività tanto materiale e concreta come l’architettura. In molti, come Manuel Peruzzo e Michele Masneri sul Foglio, hanno già scritto dei progetti di Bjarke Ingels Google a Mountain View, di Frank O. Gehry e OMA per Facebook a Menlo Park, di Norman Foster per Apple a Cupertino, anche perché si sono rivolti ad architetti di fama internazionale.

Però stavolta non è soltanto una trovata di marketing o una gara fra concorrenti, come nel caso delle industrie del vino che fanno ridisegnare le proprie cantine a una firma riconoscibile, magari con una galleria d’arte annessa per incrementare l’enoturismo, vedi la recentissima Château La Coste Art Gallery di Renzo Piano ad Aix-en-Provence. Stavolta è diverso, nei costosissimi sobborghi meridionali di San Francisco, dove hanno sede gli uffici dei tre colossi e di mille altre startup. Non si tratta solo di gentrificazione. Si tratta piuttosto di una vera e propria emergenza abitativa per i dipendenti di questi gruppi che continuano ad assumere tecnici da ogni parte del mondo nonostante i decreti trumpiani. Solo Google infatti ne ha assunti 45 mila nel 2015, riuscendo però ad acquistare o realizzare nello stesso anno solo cinquemila alloggi. Si tratta di un problema annoso che, sommato a quello del traffico che cresce più degli affitti e alla difficoltà di realizzare in tempi brevi alternative come metropolitane e treni, ha spinto i tre gruppi a una soluzione drastica.

Apple's New Headquarters Near Completion

Acquistare i terreni circostanti e dare vita a delle residenze stabili per i dipendenti e a quelle temporanee per le legioni di consulenti, oltre all’incremento dei servizi necessari (scuole, ospedali, ristorazione). Sono oltre duemila le company town solo negli Stati Uniti, a cominciare da Pullman, sobborgo a sud di Chicago che nel 1884 prese il nome dal famoso imprenditore delle corriere: chi nasceva lì – lamentavano gli operai dell’epoca – si formava in una scuola Pullman, lavorava poi alla Pullman, veniva curato in un ospedale Pullman, e infine seppellito in un cimitero Pullman. Un microcosmo vagamente profetico di 1984 di Orwell, visto che il signor Pullman, che ovviamente deteneva la proprietà di tutte le aree e degli edifici, pretendeva di decidere anche quali libri potesse acquistare la biblioteca e quali spettacoli potesse mettere in cartellone il teatro. I saloon e le riunioni cittadine erano vietate, potevano essere fatte ispezioni in ogni appartamento in ogni momento e non c’era un sindaco perché c’era solo Pullman. Come nel caso delle altre grandi company town americane – quali Hershey in Pennsylvania (cioccolato), Steinway Village a New York (pianoforti), Roebling in New Jersey (cordami), Alcoa in Tennessee (acciaio), o quelle fondate da Henry Ford (Alberta in Michigan, Fordlandia nell’Amazzonia brasiliana, dove si produceva gomma naturale per i pneumatici)  – erano tutte espressione di un capitalismo paternalista che, fornendo una casa e alcuni servizi, teneva sotto controllo la manodopera, riuscendo anche a evitare gli scioperi e a contenerne l’altrimenti naturale mobilità: chiedere a Francis Ford Coppola, nato nel 1939 presso l’Henry Ford Hospital, figlio di un flautista della banda aziendale della casa automobilistica di Detroit.

Paradossalmente però le dure condizioni pretese da Pullman sfociarono nel primo grande sciopero della storia americana: avvenne, con molti morti e feriti, nel 1894. Quando George Pullman morì, tre anni dopo, la sua bara fu sepolta sotto molti strati di cemento e acciaio, per evitare vendette postume dei lavoratori. Il paternalismo infatti entrava direttamente nelle case, toccando, attraverso i regolamenti edilizi la vita più intima delle persone: altro che la biopolitica paventata da Michel Foucault un secolo dopo! In alcune company town inglesi come Port Sunlight o Bournville era addirittura vietato fumare in casa, mentre si consigliava di dormire con la bocca chiusa e altre cose del genere.

Cycling Routes And Directions Added To Google Maps

Anche per questo, si sviluppò un movimento diverso ma animato da un comune sentimento di critica e sfiducia verso la città: il Garden city movement è nato su ispirazione del libro di Ebenezer Howard, Garden Cities of To-morrow, pubblicato a Londra nel 1902 con molti diagrammi e schemi, preferibilmente circolari (che poi il cerchio è la forma utopica per eccellenza). Howard e i suoi seguaci, molti dei quali urbanisti e paesaggisti, davano importanza alla proprietà pubblica dei terreni e alla vita in comune, oltre che alla natura. Ben presto furono realizzate città-giardino – in Inghilterra a Letchworth (1903), negli Usa a Forest Hills Gardens e in Germania a Hellerau (entrambe nel 1909) – spesso per mano di architetti, urbanisti e paesaggisti notevolissimi come Raymond Unwin, Frederick Law Olmsted, Heinrich Tessenow ed Hermann Muthesius. Pochi sanno che il sobborgo di Marghera nasce come città giardino, mentre i casi delle company town italiane sono più o meno noti, da Crespi d’Adda a Tor Viscosa, specie il caso un po’ più speciale dell’Ivrea olivettiana, talmente ricca di architettura d’autore che è stata candidata ufficialmente a Patrimonio mondiale dell’Unesco. Come però ha notato Manfredo Tafuri in un mitico corso veneziano del 1972, «anzitutto va notato, che fra le realizzazioni urbanistiche degli industriali e le utopie di palingenesi sociale, dopo le company town e la città-giardino, esiste una significativa coincidenza. Entrambe, infatti, tendono ad organizzazioni spaziali autosufficienti e antiurbane con edilizia a bassa densità, ricche di verde e servizi, e integrazione di residenza e lavoro».

Quello che va in scena a San Francisco potrebbe dunque essere un revival del capitalismo paternalista di due secoli fa, ma ricco di verde come in una città giardino, senza sapere, però, che l’archetipo postmoderno di company town lo avevamo prodotto noi in Italia quarant’anni or sono, fra Lambrate e Segrate, con laghetti, cigni e antenne: Milano Due.

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