Attualità

Un giro contro le “stramaledette eccellenze” d’Italia

Intervista assolata a Fabio Genovesi su Tutti primi sul traguardo del mio cuore, libro-reportage sulla corsa ciclistica e il nostro Paese visto da vicino.

di Michele Boroni

«Ciao Fabio, come stai? Dove ci vediamo oggi per l’intervista da fare per Studio?» «Bene! Si, si, va benissimo….» «…Eh… allora, dove ci vediamo? Scegli tu un bar dove ti è più comodo.» «Ma hai visto che bella giornata… e che temperatura…« «Sì, si sta proprio bene. Scegline uno che ha i tavolini all’aperto.» «Hai visto poi come è tornato calmo il mare?» «È finita la libecciata, sì, menomale..» «Eh, infatti… senti… ma che ne diresti di venirmi a trovare sul pontile, io sono già qui a pescare…Ti torna?»

Questo è Fabio Genovesi. Un tentativo di persona – come ama autodefinirsi nelle sue note biografiche – che, nonostante il successo letterario (anche a livello internazionale, Esche Vive è stato tradotto in nove paesi, compresi gli Usa), continua a vivere anche d’inverno nel paese fantasma di Forte dei Marmi e a coltivare la passione per la pesca, film dell’orrore di serie Z e per il ciclismo. Proprio per quest’ultimo interesse, il Corriere della Sera ha chiesto a Fabio di seguire il Giro d’Italia per fare un reportage quotidiano della gara ciclistica, ma anche per fornire un suo punto di vista dell’Italia osservata al Giro.
Un giornalista o uno scrittore smaliziato, fedele all’adagio “minimo sforzo, massimo risultato”, avrebbe preso i ventiquattro articoli, ci avrebbe aggiunto la prefazione di qualche altro amico scrittore e avrebbe confezionato un libro di potenziale successo. Invece Genovesi, che è un onesto masochista, l’ha riscritto praticamente daccapo, trasformandolo in una sorta di romanzo on the road dove si rincorre il Giro d’Italia.

Ora son qui con l’autore, sul pontile di Forte dei Marmi, in un paradossale pomeriggio di novembre con un sole a 23 gradi, in attesa che abbocchi qualche orata. E intanto mi faccio raccontare questo suo Tutti primi sul traguardo del mio cuore (Libellule Mondadori, pag. 169, 10€) uscito pochi giorni fa.

«A me piace scrivere e ho la fortuna di fare lo scrittore, ma non credo che chi scrive per lavoro abbia più dignità di qualsiasi altro mestiere. Come per gli altri, l’obiettivo dello scrittore è raggiungere un risultato e farlo al meglio. La verità è che avevo ancora un sacco di roba da raccontare che non era stata messa sugli articoli del giornale e che secondo me era un peccato non condividere. Quindi ho sospeso la scrittura dell’altro romanzo e ho passato l’estate a riscrivere tutto».

 

Partiamo dal titolo. I tuoi libri sono sempre caratterizzati da gran bei titoli ad effetto (Versilia Rock City che rimandava subito ai Kiss e all’hard rock anni ’70-80, Esche Vive esemplare nella sua sintesi, per non parlare di Morte dei Marmi). Questo Tutti primi sul traguardo del mio cuore è invece un titolo romantico che un po’ spiazza. Poi lo leggi e ti rendi conto che è il libro ad essere profondamente romantico, un atto d’amore al ciclismo, all’Italia, alla vita e alle storie meravigliose che inventa.

Ti ringrazio che mi dici questo, e voglio ricollegarmi alla risposta precedente. L’esperienza del Giro d’Italia è stata davvero travolgente, appassionante e romantica, come lo sono le storie d’amore. Il Giro è sempre stata la mia passione fin da ragazzino, e il rischio era davvero come quando ti piace “da lontano” una persona, poi la incontri e ti delude. Invece nel caso del Giro ho scoperto di aver ragione nel desiderare questa cosa: mi sono innamorato dei posti, delle persone, degli aneddoti. Quindi, sì, questo libro è un atto d’amore verso il ciclismo e perciò il titolo ci stava. La frase è di Alfonso Gatto, un poeta appassionato di ciclismo (ma non sapeva andare in bici) che seguì tre Giri d’Italia alla fine degli anni 40 per l’Unità. Alla fine di una tappa particolarmente faticosa per i corridori era impossibile fare una classifica assoluta e quindi scrisse «Tutti primi al traguardo del mio cuore» (io l’ho cambiato in sul perché mi piaceva di più). Mi rendo conto che è un titolo profondamente démodé, però c’è dentro amore, pathos ed esagerazione, e tutto questo è il ciclismo.

Ecco, quella dello scrittore che racconta sul giornale degli eventi sportivi (e non solo sportivi), era una figura quasi pre-televisiva, è successo nel passato con Curzio Malaparte, Buzzati, Pratolini, Campanile, poi però è andata un po’ scemando. Negli States invece la tradizione è continuata e in giornali come New York Times oppure riviste come Vanity Fair o il New Yorker. Secondo te cosa riesce a dare uno scrittore – o almeno, cosa pensi di dare tu – al racconto di un evento?

Credo ci siano grandi giornalisti che riescono a trasmettere perfettamente il senso delle cose. Dal mio punto di vista la principale differenza tra giornalista e scrittore credo sia l’assenza della volontà di informare. Il giornalista deve riportare i fatti, ma in questa epoca le notizie viaggiano così velocemente che spesso non ha più importanza metterle sul giornale. Le informazioni e i dati sono facilmente e rapidamente accessibili da tutti e quindi, nell’epoca di Internet e delle televisioni all news, l’unico rischio è finire dentro questo flusso di informazioni e affogare, perché succedono così tante cose che è come non ne succedesse nessuna. Allora forse la cosa interessante è trovare qualche piccolo particolare, qualche scorcio di realtà che la renda universale. In questo caso il compito dello scrittore, secondo me, è far vedere a chi legge ciò che lui sta guardando: quindi una prospettiva particolare, in cui metto dentro anche le cose della mia vita personale, non perché siano particolarmente interessanti, ma sono mie come del lettore, e quindi universali. Allora per il Giro d’Italia più che raccontare l’impresa del ciclista, per chi non è appassionato della disciplina sportiva, può incuriosire di più il racconto degli oltre 8000 km di viaggio, i mille imprevisti che ti capitano, le mutande che mi sono dovuto portare dietro, il passare in pochi giorni da fare il bagno in mare ad affrontare una tormenta di neve. In questa epoca tutto è anche altro, e allora l’impresa è trovare quel altro che rende interessante il tutto.

Secondo te in questo mercato editoriale un po’ malconcio (libri e giornali) l’idea di una rivista dove non si danno informazioni ma costituita solo da punti di vista di scrittori sarebbe una forzatura o potrebbe essere un esperimento interessante?

Sì, utopistica ma interessante. Conoscendo un po’ di scrittori italiani però il grande rischio è che scrivano solo di se stessi. A un certo punto lo scrittore pensa che anche la sua vita sia importante da raccontare. Invece non è vero. È interessante il punto di vista, diciamo, umano, quello dell’esperienza. Temo che magari si finirebbe a raccontare se stessi, come in una seduta dallo psicologo. Però l’idea è affascinante, magari non coinvolgendo solo gli scrittori ma anche le persone che non lo fanno di professione.

Nel libro si parla di ciclismo ma sopratutto dell’Italia. Più di una volta nel libro fai riferimento a quelle che tu chiami le “stramaledette eccellenze” come quando parli delle langhe o del parmigiano. Perché ce l’hai tanto con i cosiddetti presidi gastronomici?

L’impressione è che ci siamo trasformati in una nazione basata essenzialmente sul mangiar e sul bere bene. Questa fissazione ci sta rovinando. Quando vedo persone che potrebbero fare tante cose interessanti e invece fanno le cene con le etichette nascoste per indovinare il vino, e che si riempiono la bocca con mille termini sofisticati, il finocchietto selvatico della valle taldetali, il gusto di tannino, mi irrito anche perché spesso sono lontani migliaia di chilometri dalla natura e dalla campagna. Ormai il vanto italiano è solo tortellini, formaggi e vini. Li sappiamo fare molto bene, ed è una cosa buona, ma non possiamo limitarci solo a questo.
A ogni tappa del Giro c’era la solita sfilata del piatto del posto, del vino tipico, del presidio gastronomico di qualche specialità di insaccato. Siamo diventati una nazione di gastromaniaci e la valorizzazione di un territorio è solamente legata alla produzione di cibo o vino. Mi spaventa vedere ragazzi ventenni assaggiatori di olio o degustatori di primizie, è una cosa che mi annichilisce. E non c’è cosa più lontana dal ciclismo e dal Giro d’Italia.

Tempo fa proprio su Studio scrissi un pezzo sul ritorno del fenomeno della bici. In Italia nel 2012, per la prima volta, il numero di bici vendute ha superato quello delle auto. E c’è un gran fermento, anche modaiolo, intorno alle bici. Però mi viene da pensare che questo fenomeno e il ciclismo che tu descrivi siano mondi lontanissimi. Vero?

Assolutamente sì. Ora la bicicletta è legata al mondo del benessere, della salute, del verde, del cardio-fitness… Il ciclismo, al contrario, è anti-salutare perché è la consunzione fisica in nome di un’impresa completamente inutile. Le grandi storie del ciclismo sono nate da un’assenza totale di consapevolezza della salute.
Il vero ciclismo è sciagurato e fatto di storie tipo quella di Bartali che si allenava con uno zaino pieno di mattoni, così in gara la salita sembrava meno dura. E poi per andare bene in bicicletta non bisogna avere un fisico “giusto”: il busto deve essere rachitico e le gambe grosse e potenti, quindi per definizione l’obiettivo del ciclismo non è la salute fisica, ma l’impiego di tutte le energie in vista di un unico effetto che è tutto risolto sulla bicicletta. Non ha a che fare con la vita di tutti i giorni e con il benessere quotidiano.

A un certo punto tu dici che «Vincere non c’entra quasi niente con arrivare primi». Mi spieghi meglio questo concetto?

Sì, questa è una delle poche cose in cui credo profondamente. Vincere è importante e arrivare primi è contingente. Il problema è che vincere è più difficile: ci hanno insegnato che vincere significa battere gli altri, invece secondo me vincere è una questione più interna, significa essere profondamente soddisfatto di ciò che hai fatto. Arrivare primi invece è sempre confrontarsi con altri: delle volte arrivare primi è impossibile, altre volte è troppo facile, e non può bastare. In una gara di ciclismo a volte possono vincere anche sette-otto corridori. L’arrivare primi dipende dalla matematica, vincere invece ha a che fare con il dormire bene la notte.

La chiacchierata è durata a lungo, si è parlato del mitico autista Enzo, di assessori sosia di Elvis Presley (ma volendo anche di Little Tony), di doping e di molto altre cose contenute nel libro, ma di orate e branzini neanche l’ombra, stavolta. Però il pontile è stato un luogo perfetto per conversare con lo sguardo rivolto all’orizzonte e cullati dal clima mite di questo pazzo novembre.

 

Immagine: il Giro d’Italia attraversa Napoli, 4 maggio 2013 (Bryn Lennon / Getty Images)