Attualità

Mister d’Africa

Sconosciuti in casa, avventurieri in trasferta: identikit degli allenatori bianchi del continente nero, chi sono e quali fortune hanno trovato.

di Lorenzo Simoncelli

Gli allenatori bianchi vengono in Africa solo per i soldi“. La dichiarazione è di Stephen Keshi, 50enne, c.t. nigeriano della Nigeria, che forse deve ancora digerire la sostituzione, tra l’altro disastrosa, con il tedesco Otto Pfisfer, dopo aver portato a sorpresa ai Mondiali 2006 il Togo di Adebayor e compagni. Nella provocazione dell’attuale tecnico delle “Super Eagles” c’è però un grosso fondo di verità. Non esiste competizione calcistica al mondo così piena di allenatori stranieri. In questa edizione di Coppa d’Africa, che si sta disputando in Sudafrica, ci sono 7 c.t. locali, 8 europei e l’uruguayano Ferrin, che allena l’Angola e che con un solo punto in tre partite ha già salutato il torneo. Analizzando le ultime dieci nazionali che hanno vinto la massima manifestazione continentale, 5 sono state guidate da tecnici europei e 5 da africani. Guardando alla schiera di allenatori francesi, i più di discutibile fama, che si sono alternati e che tutt’ora si passano i testimoni delle varie nazionali africane, è possibile affermare che l’era post-coloniale in ambito calcistico è ancora da raggiungere. L’idioma in comune è sicuramente un trait d’union, ma il resto è tutto da spiegare. Di seguito faremo un identikit con qualche curiosità di chi sono e da dove vengono gli 8 commissari tecnici europei che siedono su alcune delle nazionali di calcio africane qualificatesi alla 29° edizione dell’AFCON (Coppa delle Nazioni Africane).

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Il gruppo A è l’unico che non ha alcun commissario tecnico europeo e scherzo del destino vuole che fino agli ultimissimi minuti la qualificazione ai quarti di finale sia stata apertissima. Oltre al sudafricano Gordon Igesund, l’ha spuntata Lucio Antunes, in questi giorni coach di Capo Verde, ma nella vita controllore del traffico aereo. Il gruppo B, invece, insieme al D è quello con più europei in panchina, 3 su 4. Il primo è Patrice Carteron, da Saint-Brieuc, tranquillo paesino della Bretagna, a Bamako, capitale del Mali. Dalle ostriche alla guerra civile, un bel salto, ma cosa non si fa per allenare. Anche perchè dati i suoi trascorsi in panchina non è che potesse pretendere più di tanto. Appese le scarpette al chiodo nel 2007, dopo una modesta carriera da difensore tra Premier League, sponda Sunderland e Ligue 1 (Olympique Lyonnais e Saint-Etienne), inizia la sua carriera manageriale nell’AS Cannes, poi passa al Dijon FCO nel 2009, dove in tre stagioni colleziona una promozione dalla Ligue 2 e una successiva retrocessione, motivo per cui viene esonerato. Nel 2012, la Federcalcio maliana lo chiama a prendere le redini della nazionale delle aquile con il duplice obiettivo di qualificarsi all’edizione della Coppa d’Africa in corso e al Mondiale brasiliano 2014. Impresa agevole la prima, dato che Keita e compagni hanno pescato il non insuperabile Botswana. Tutta da giocare la seconda, ma con buone probabilità di esito. Queste le sue parole a France Football nel giorno dell’investitura: “La mia inesperienza non è un handicap, la motivazione è più importante di anni di esperienza, se i miei giocatori aderiranno al mio progetto“. Di certo non ha aderito il 23enne Sambou Yatabarè, che non essendo stato preso in considerazione nelle prime due gare ha deciso di abbandonare Carteron e compagni. Anche il resto della compagine non sembra aver chiari gli schemi di gioco dell’allenatore bretone. Nella prima gara del girone contro il Niger è uscito con i 3 punti grazie al capitano Seydou Keita e a un errore del portiere avversario. Nella seconda gara, la decisiva con il Ghana, che Carteron ha definito la “Germania d’Africa”, ha detto di non aver riconosciuto i suoi. Da notare che solo 12 mesi fa, il suo collega e compaesano Alain Giresse vinse 2-0 contro le Black Stars regalando al Mali il terzo posto nella Coppa d’Africa giocata in Gabon e Guina Equatoriale. Tuttavia, grazie all’ultimo pareggio con la Repubblica Democratica del Congo, è riuscito a strappare un biglietto per i quarti di finale, dove lo attendono i Bafana Bafana padroni di casa. Come per ogni condannato ci sono delle attenuanti. In primis, come lui stesso ha affermato deve gestire una situazione non facile all’interno dello spogliatoio con i giocatori piuttosto inquieti per la guerra che sta flagellando il Paese. Inoltre, va apprezzato che, al contrario dei suoi colleghi europei, ha deciso di vivere in pianta stabile in Mali, “per conoscere meglio la realtà locale“. Coraggioso!

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Sempre nel gruppo B allena Gernot Rohr, 59enne tedesco, che nel settembre 2012 ha deciso di accettare l’incarico della federcalcio del Niger. Impresa disperata, ancor prima di cominciare la Coppa. Il capo di Stato, Mahamadou Issofou, per finanziare la spedizione in Sudafrica ha dovuto introdurre all’ultimo momento una tassa sulla corrente elettrica per reperire i 3 milioni di euro necessari per pagare volo e alloggio per la squadra. Così era avvenuto anche nella passata edizione: in quell’occasione era stata introdotto un balzello con il quale veniva prelevato qualche decimo di millesimo di euro per ogni chiamata sui cellulari. Calcolando che il Niger ha un Pil pro capite di 755 dollari l’anno ed è uno dei Paesi più poveri del pianeta, e calcolando anche gli scarsi esiti sportivi, forse per la prossima edizione converrebbe valutare la partecipazione piuttosto che affamare ulteriormente una popolazione già allo strenuo. Premesso questo, il tecnico tedesco, che nel suo palmares può vantare una finale dell’allora Coppa Uefa con il Bordeaux, persa nel 1996 contro il Bayern Monaco, ha raggiunto il suo obiettivo ottenendo quel punto, grazie al pareggio contro la Repubblica Democratica del Congo, che ha permesso ai Menas, appellativo della squadra che deriva dal nome in lingua Hausa della gazzella dama, simbolo della nazionale, di migliorare lo score dell’edizione precedente dove aveva totalizzato zero punti in tre gare.

A concludere la pletora di allenatori europei del Gruppo B, c’è Claude Le Roy, vero e proprio antesignano dei commissari tecnici del Vecchio Continente in terra africana. La sua prima apparizione in Coppa d’Africa risale, infatti, al lontano 1986, quando riuscì a raggiungere la finale con i Leoni indomabili del Camerun, persa sfortunatamente ai rigori contro l’Egitto. Due anni più tardi, sempre con il Camerun, arrivò di nuovo in finale, e questa volta la vinse battendo per uno a zero la Nigeria. Da allora si è alternato sulle panchine di Senegal, ancora Camerun, Congo, Ghana e Repubblica Democratica del Congo, di cui è l’attuale c.t., stabilendo così il record di sette partecipazioni alla Coppa. Un esperto, insomma, non solo su come gestire i giovani talenti africani, riuscendo a riportare in nazionale gli auto-esiliati Mbokani e Mulumbu, entrambi autori di ottime prestazioni durante questa edizione, ma anche sulle difficili relazioni con le federazioni locali. L’ultima tegola per il 64enne allenatore transalpino è arrivata a poche ore dall’inizio ufficiale della competizione, quando quasi la metà dei suoi giocatori sono stati fermati all’aereoporto di Johannesburg per alcune irregolarità nei passaporti. Tutt’oggi le esatte dinamiche dell’accaduto sono un enigma, fatto sta che le immediate dimissioni di Le Roy sono rientrate in poche ore e ha potuto guidare i Leopardi, due volte campioni d’Africa, ad ottime performance contro Ghana e Niger. Purtroppo non è bastato all’esperto tecnico transalpino che pareggiando anche l’ultima gara contro il Mali, per la prima volta nella sua carriera non accede alle fasi finali della competizione.

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Nel Gruppo C, c’è lo Zambia di Hervé Renard, allievo di Le Roy ed eroe indiscusso dell’edizione precedente. Alla sua seconda esperienza sulla panchina dei Chipolopolo (proiettili di rame, soprannome della squadra, dato che il Paese è uno dei primi esportatori al mondo di rame) ha raggiunto un’improbabile finale contro la super favorita Costa d’Avorio e l’ha battuta ai rigori, regalando al Paese il primo trofeo continentale. Una vera impresa, resa ulteriormente più suggestiva dal fatto che, nel 1993, a pochi chilometri da Libreville, capitale del Gabon, dove si è giocata la finale dell’AFCON 2012, 18 giocatori della nazionale zambese morirono in un incidente aereo. Fino a quel momento il suo cursus honorum manageriale non si poteva certo definire brillante e questa edizione della Coppa d’Africa lo sta riportando, forse, a quelli che erano i suoi standard. Il terzo pareggio in tre partite, con due soli gol all’attivo, di cui uno su rigore del portiere-santone Mweene, lo rimandano con volo diretto a Lusaka. Erano 21 anni che i campioni in carica non uscivano dalla competizione già alla fase a gruppi.

La vera sorpresa, in tutti i sensi, è Paul Put, allenatore belga del Burkina Faso. La sua storia calcistica e non sembra essere sempre appesa ad un filo. Prima di iniziare la sua “carriera” da allenatore di squadre africane, allena in patria il Lokeren e il Lierse. Durante la sua avventura su quest’ultima panchina viene accusato e condannato dalla Federcalcio belga per aver combinato alcune partite sotto la regia di un businessman cinese. Scontati tre anni di squalifica torna alla ribalta sulla panchina del Gambia, fallendo la qualificazione alla scorsa edizione della Coppa d’Africa. Esonerato nel 2011, pochi mesi dopo viene chiamato dal Burkina Faso con il compito di guidare gli Stalloni a Sudafrica 2013. Si qualifica grazie ad un gol di Alain Traorè nei minuti di recupero contro la Repubblica Centro Africana. Inserito nel gruppo C, con i campioni in carica dello Zambia e con la Nigeria non sembra avere alcuna chance, eppure, sempre nei minuti di recupero e sempre grazie a Traorè, trova un insperato pareggio contro le blasonate Super Eagles nigeriane. Ma l’assurdo si raggiunge nel match successivo contro la matricola Etiopia. In dieci per una imbarazzante espulsione del portiere Soulama, che raccoglie volontariamente la palla fuori dall’area, in vantaggio di un gol grazie al solito Traorè e con l’Etiopia in superiorità numerica, nel giro di un quarto d’ora spinge i suoi ad una sontuosa vittoria per 4-0 che gli concede le prime pagine dei giornali e il primo posto assoluto nel girone. Completa l’opera pareggiando la gara decisiva contro i campioni in carica dello Zambia, passando il girone addirittura come primo. Adesso al varco due ulteriori sfide: battere il Togo di Adebayor e provarci senza il talismano Tourè infortunatosi contro lo Zambia.

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Nell’ultimo gruppo, il D, considerato il più difficile, ci sono i due estremi: Sabri Lamouchi e Vahid Halilodzic. Per il primo una carriera da giocatore di tutto rispetto, di cui la gran parte nel campionato Italiano, Parma, Inter e Genoa, che probabilmente lo sta facilitando nella sua prima esperienza manageriale. Otto partite tra Coppa d’Africa e qualificazioni mondiali, nessuna sconfitta e sempre in gol. Certo avere in squadra i vari Drogba, Tourè, Kalou aiuta, ma come dimostrato negli anni passati dagli Elefanti ivoriani grandi doti individuali non sono sinonimo di vittoria. Così due parole di commiato vanno spese per il franco-bosniaco Vahid Halilodzic, che allena fino ad oggi le Volpi del deserto algerine. Grande favorita, essendo seconda nel ranking della CAF (la Federcalcio africana), la squadra nordafricana è stata la prima ad essere eliminata dal torneo, con due sconfitte e zero gol all’attivo. Una debacle totale per l’esperto commissario tecnico, che da quando siede sulla panchina algerina aveva perso una sola gara su dieci giocate. Quasi uno scherzo del destino per l’unico vero titolato commissario tecnico europeo con un palmares degno di nota. Vince la Champions League africana con il Raja di Casablanca nel 1997, porta il Lille dalla seconda categoria francese al terzo posto in Ligue 1 e nel 2004 vince una Coppa di Francia con il Paris St. Germain, che non era certo l’attuale di Ancelotti. Tutto ciò non è bastato a “Vaha”, come lo chiamano gli amici intimi e adesso la sua permanenza sulla panchina algerina è in serio pericolo.

Infine, Didier Six, altro francese, altro tecnico che non ha vissuto una vigilia di Coppa d’Africa proprio tranquilla. Il suo Togo, che allena dal novembre 2011, è semi-dipendente nel bene e nel male da un certo Emmanuel Adebayor. Potenzialmente un fenomeno in campo, non per niente ha vestito le maglie di Arsenal, Manchester City e oggi Tottenham, ma decisamente fumantino fuori dal terreno di gioco. La settimana antecedente la partenza per il ritiro sudafricano ha cambiato decisione se partecipare o meno alla Coppa d’Africa come una trottola. Sì, no, alla fine sì e il tutto per una questione legata a dei premi partita non ancora pagati dalla federcalcio togolese. E’ dovuto intervenire il presidente della Repubblica, Gnassingbe, per convincerlo definitivamente a far parte della spedizione. Inoltre gli Sparvieri, come ha dichiaro lo stesso Six, si devono ancora scrollare di dosso la tragica esperienza vissuta nel 2010, quando il pullman che trasportava la squadra in Angola per giocare la Coppa d’Africa, è stato vittima di un attentato in cui hanno perso la vita il capo ufficio stampa e un membro dello staff tecnico, oltre all’autista del mezzo. Così l’allenatore transalpino alla sua prima esperienza da commissario tecnico, ha dovuto apprendere in fretta dal suo connazionale Le Roy come gestire le tensioni tra giocatori e federazione. I risultati non sembrano dargli torto, dato che nel cosiddetto girone della morte, ha ottenuto la prima e storica qualificazione ai quarti di Coppa d’Africa, eliminando le più titolate Algeria e Tunisia e perdendo immeritatamente contro la super favorita Costa d’Avorio.