Attualità

Addio popolo

Essere intellettuali in Italia: la questione greca, il marxismo, la tradizione. Un altro mondo è possibile?

di Cristiano de Majo

500 Karl Marx Statues Are Highlight Of Trier ExhibitionIo non lo so se ho cambiato idea da solo o per reazione al conformismo, ma da un po’ di tempo vivo con qualche sofferenza — o con liberazione, questo non l’ho ancora capito — una dissociazione dalla maggior parte delle persone che conosco, qualcosa che ha a che fare con l’essere di sinistra e anche con l’essere scrittori o giornalisti; direbbe qualcuno con l’essere intellettuali (parola che userei più a cuor leggero se non fosse così chiaramente connotata). Ogni volta che ci si orienta rispetto a un tema, a un avvenimento, finisco per trovarmi dalla parte opposta, o nel migliore dei casi da nessuna parte, rispetto a quelli che vanno fieri del loro essere di sinistra. Ho iniziato a maturare un’avversione per certe parole d’ordine, per certe prese di posizione. Cose recenti che mi vengono in mente: i riot di Milano contro l’Expo; tutti i discorsi su precariato e sindacati, il jobs act, la buona scuola; il «popolo greco», fresco fresco.

I social network hanno ovviamente avuto un grosso ruolo: ancora fino a pochi anni non ci era concesso il beneficio di sapere cosa pensassero di qualsiasi cosa, e magari contemporaneamente, le nostre cerchie di amici e conoscenti, il che ha aumentato il tasso di enfasi e di retorica da un lato e quello di insofferenza dall’altro. Ma mi sembra che un ruolo più grosso lo abbia avuto il compimento della lunghissima transizione post-bellica dell’Italia repubblicana. Le acque si sono mosse prima, almeno nel mio caso, ma con Renzi come Primo ministro e con il tramonto spengleriano di Berlusconi, si è affievolita l’idea della guerra santa da combattere, del fronte comune (contro i fascisti, contro la Democrazia cristiana e la partitocrazia, contro la corruzione, contro il populismo di destra, e via dicendo). L’assenza di un nemico chiaro e condiviso ha quindi reso meno doveroso stare tutti dalla stessa parte. La situazione è diventata molto più fluida, più incasinata, ma anche più matura, secondo me, perché meno manichea. Dove sia il giusto e dove lo sbagliato, chi siano i buoni e chi i cattivi, è diventato meno scontato.

Meno scontato per quasi tutti, tranne che per il mondo culturale italiano (specie quel pezzo del mondo culturale che ha Roma per epicentro). Da quelle parti persiste — e paradossalmente visto che idealmente dovrebbe essere il luogo per eccellenza del dubbio e del confronto — una forma di pensiero unico, che ti suggerisce cosa è da intellettuali pensare di qualsiasi argomento. Una volta ho detto a qualcuno: «Mi piace molto quando cambio idea su qualcosa». Ecco, da quelle parti le idee sono sempre le stesse. Il tavolo da lavoro vintage è il vecchio pensiero marxista di cinquant’anni fa: gli intellettuali dalla parte del popolo. Cosa significa di preciso non l’ho mai capito, ma ho capito che in ogni caso è meglio essere dalla parte del popolo che contro.  Ho anche capito, con imperdonabile ritardo, che nella tradizione italiana si diventa scrittori veri preferibilmente accompagnando i propri testi a un appassionato discorso pubblico lungo tutta una vita.

Un esempio contemporaneo di questa tradizione è l’intervista a tutto campo rilasciata al Manifesto in cui Nicola Lagioia ha nello stesso tempo dedicato la vittoria dello Strega al «popolo greco», ha raccolto l’invito rivolto agli scrittori da Goffredo Fofi a fare disobbedienza civile, e ha espresso il suo pubblico ringraziamento ad Alberto Asor Rosa, cioè l’incarnazione di un’idea abbastanza precisa di potere culturale di sinistra, nei fatti vicino al “popolo” da una solidissima cattedra all’università, e con tutta l’ironia del caso considerato che stiamo parlando di un professorone, il cui libro più importante  s’intitola Scrittori e popolo, che leggere oggi a cinquant’anni di distanza suona così:

Abbiamo invece appuntato l’attenzione su quel livello letterario, in cui l’esigenza di un rapporto con il popolo diventa scelta ideologica e comporta una nozione precisa e consapevole dei compiti assegnati allo scrittore nel quadro di un ceto dirigente nazionale.

o così:

Della critica letteraria come tale non c’importa nulla. Non abbiamo perciò nessuna intenzione di arricchirla di nuovi contenuti specifici e di nuovi valori settoriali. Ciò che c’importa è penetrare l’anima e le forme dell’arte borghese, perché ne risulti l’interna, profonda coerenza, e la contraddizione insanabile, la terribile difformità con quanto ci appartiene come militanti rivoluzionari della classe operaia.

Prima del Ninfeo, su Internazionale era stato pubblicato un intervento letto al Festival Internazionale di Letterature, in cui, ragionando sulla letteratura, Lagioia scriveva molto condivisibilmente come un Piperno qualsiasi: «Fate indossare alla letteratura un’armatura, mettetele in mano una spada, datele il compito di combattere i mali del mondo e la vedrete affondare appesantita dalle buone intenzioni con cui l’avete ingenuamente bardata».  Contraddizioni? No, soltanto universi paralleli. Ma di esempi se ne potrebbero fare parecchi altri, anche meno clamorosi, che partono appunto dagli status più accesi dei nostri amici rivoluzionari da foto profilo e arrivano alle “disobbedienze” annunciate con enfasi da esponenti della cultura italiana. La lunghissima egemonia comunista ha lasciato alle persone di cultura (da intendere nel senso più ampio possibile) queste tremende eredità: il dovere di avere un’idea su tutto (e un’idea che abbia tutte le carte in regola per essere considerata di sinistra); la possibilità di camminare su un doppio binario: quello dell’idealità e quello dei comportamenti; il discredito delle posizioni scomode; il conformismo soffocante; l’importanza relativa del testo.

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Il problema dall’altra parte è che giudicare un discorso che inneggia al «popolo greco» , «contro l’Europa dei burocrati e delle banche» come retorico, anche perché maschera un’ipocrisia di fondo — cosa comporta esattamente essere «dalla parte del popolo greco»? — ti trasforma automaticamente, almeno agli occhi del sostenitore della causa, in un cinico. E con qualche ragione, perché il cinismo (insieme al sarcasmo) è effettivamente l’arma che viene normalmente sfoderata per criticare questo tipo di atteggiamenti. Nonostante sia da verificare anche il grado di cinismo di una persona che pensa sia utile per il «popolo greco» buttare tutto all’aria, senza preoccuparsi molto delle conseguenze per il «popolo greco» stesso — le banche chiuse e i frigoriferi vuoti, un futuro quanto mai incerto, lo status quo di altri sacrificato in nome della propria ebbrezza per una nebulosa e confortevole rivoluzione di là da venire, senza considerare poi tutto il discorso sulla responsabilità che il suddetto “popolo” ha nella crisi — il vaccino contro tutto questo è la postura con sorrisetto e sopracciglio alzato. Con questa postura il cinico fa notare l’incoerenza o la doppia morale dell’impegnato, sempre pronto a sventolare bandiere ideali anche quando la sua condotta si è dimostrata molto più pragmatica che ideale. Ma il cinismo e il sarcasmo, anche se funzionano, sono la mossa della disperazione.

Se non è possibile usare i libri di Houellebecq, che, in nome della teoria degli universi paralleli, piacciono tantissimo anche ai retorici impegnati, tutto quello che da un ventennio a questa parte si è radunato intorno a Giuliano Ferrara e al Foglio e poi alla sue filiazioni culturali (IL magazine di Rocca per esempio) ha condotto una battaglia accesissima contro questo conformismo. Ma il punto è sempre lo stesso: il sarcasmo e il cinismo. Nella mia personalissima esperienza: i cinici sarcastici quasi sempre sono meno integrati dei retorici impegnati, quasi sempre  rischiano per quello che dicono più dei retorici impegnati. E questo è il principale motivo per cui spesso simpatizzo per loro. Ma l’inseguimento tra topi e gatti, questo principio di azione e reazione, che è poi la ricostruzione dell’ennesimo schema bipolare, finisce per essere sfiancante. Possiamo leggere un pezzo di Vitiello, divertirci anche, trovare la nostra vendetta silenziosa, identificarci in una forma di insofferenza. Poi? Poi niente, perché il cinismo e il sarcasmo fanno l’operazione semmai utile di smontare, ma senza rimontare. E quindi si finisce in fondo per legittimare il modello dell’intellettuale impegnato come unico possibile, l’unico in cui credere. Altri mondi all’orizzonte non se ne vedono. Anche se in realtà c’è un mondo per fortuna sempre più vivo di pensieri de-programmati e di riviste lontane dal popolo.

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Insomma, se la transizione politica post-novecentesca sembra arrivata alla sua tarda mattinata, la transizione culturale si trova ancora alle prime ore dell’alba.

Un vero segno di maturità culturale sarebbe avere tra i nostri migliori scrittori l’equivalente di un Tom Wolfe e di una Joan Didion. Intellettuali che hanno tranquillamente dichiarato di avere votato repubblicano (e che finiscono pure nell’armamentario dello scrittore di sinistra italiano, ma possono essere apprezzati qui solo perché non sono italiani). Non stanno dalla parte del popolo, forse hanno idee moderatamente conservatrici, o soltanto strane e scorrette come Hunter Thompson, perché gli artisti e i creativi in teoria sarebbero più squilibrati che giusti e magari credono più negli Ufo che in Karl Marx.

Un segno di maturità culturale sarebbe poter dire: ho sperato che in Grecia vincessero i Sì perché l’idea che vincessero i No mi preoccupava, mi faceva pensare all’instabilità del mio stipendio e al futuro dei miei figli. Ma l’intellettuale italiano, come si sa, non tiene famiglia, o se anche la tiene, sa che strategicamente è preferibile non diventare oggetto di un anatema di Fofi, tipo: “Sei un lacché della borghesia”, o di uno di Asor Rosa, tipo: “Sei uno storyteller del potere”.  Intellettuali come persone normali, con preoccupazioni, interessi, responsabilità famigliari, dubbi, che determinano i loro pensieri, invece di intellettuali che stanno dalla parte del popolo simulando la strana condizione di non avere preoccupazioni personali, interessi, responsabilità famigliari, dubbi. Intellettuali che rispondono: non lo so.

Sarebbe la rivoluzione.

Fotografie di Hannelore Foerster per Getty Images.