Attualità

Che senso hanno gli zoo?

Nacquero come semplici mostre di animali, ma oggi gli zoo hanno una funzione molto diversa. Un viaggio dentro quello di Berlino, il più grande d'Europa.

di Davide Coppo

Di che segno sei? In sei casi su dodici, a una domanda così comune rispondiamo con il nome di un animale: ariete, toro, cancro, leone, scorpione, pesci. In due ulteriori casi rispondiamo con due creature fantastiche, dai tratti più animali che umani: il sagittario, metà uomo e metà cavallo, e il capricorno, la fusione tra una capra e un pesce. Guardati intorno: quante rappresentazioni di animali ci sono intorno a te, in casa tua, nella stanza in cui ti trovi, nei libri che hai letto, sulla tua pelle? Quanti di questi animali hai visto davvero?

Entrare in contatto con un animale è difficile. Siamo una specie solitaria, e il mondo che abbiamo costruito nei millenni – le città, i campi coltivati, le infrastrutture – li ha allontanati da noi, modificando o distruggendo il loro habitat. La loro esistenza, tuttavia, ci affascina. Ci elettrizza, forse. Perché guardiamo gli animali? è il titolo di una raccolta di brevi saggi di John Berger, in cui il critico d’arte prova, in varie forme, a rispondere alla domanda. Scrive: «Con le loro vite parallele, gli animali offrono all’uomo una compagnia diversa da quella che può essergli offerta da un altro essere umano. Diversa, perché è una compagnia offerta alla solitudine dell’uomo come specie». Il capriccio di circondarci di nuovo di animali, dopo averli esiliati e sterminati, è ciò che ha portato alla nascita degli zoo.

Il più antico, in Europa e nel mondo, è quello di Vienna, aperto nel 1752. Come tutti gli zoo di un tempo, era una semplice e crudele mostra di animali in gabbia. Oggi, a quasi tre secoli di distanza, hanno ancora senso gli zoo? Me lo sono chiesto di recente, entrando una mattina d’estate allo Zoo di Berlino, con la mente a mollo in un sentimento agrodolce: curiosità esotica, da un lato, sensi di colpa dall’altro. Ho scelto Berlino, che comprende il famoso parco biologico di Charlottensburg e il più esteso e meno celebre Tierpark di Berlino est, per diversi motivi: perché è famoso; perché è il più grande del mondo; e perché fa registrare più di 5 milioni di utili netti all’anno (per quanto riguarda lo Zoo; Tierpark, invece, beneficia ancora di fondi pubblici), impiegando circa 500 persone e accogliendo ogni anno più di quattro milioni e cinquecentomila visitatori, quasi il triplo degli Uffizi. È naturale, quindi, che alla domanda precedente se ne aggiungano molte altre: come funziona uno zoo oggi? Come è cambiata la sua funzione? Che benefici ne trae il mondo animale?

Entrare in contatto con un animale è difficile. Siamo una specie solitaria, il mondo che abbiamo costruito li ha allontanati, distruggendo il loro habitatVicino alle famiglie con i bambini molto piccoli da trainare nei carrelli, alle coppie adolescenti – molte – e agli anziani solitari e ai fotografi con i grandi teleobiettivi, c’è la figura alta e bionda di Philine Hachmeier, la responsabile della comunicazione dello zoo, la persona a cui, pochi giorni prima, avevo inviato per iscritto tutte le precedenti domande. Philine vive in degli appartamenti dentro lo zoo. La notte, dice, si sentono soprattutto i rumori degli uccelli, degli struzzi, dei leoni. Quando esce di casa, alle prime luci dell’alba, riesce a volte a vedere i grandi felini giocare. Capita che li guardi di nascosto mentre si dondolano sulle altalene. Passiamo a fianco a una delle aree rinnovate più recentemente, la voliera da cui ci guarda un cacatua nero a testa in giù. Philine dice che è stata ampliata, compresa di una zona indoor oltre a quella tradizionale all’aperto, e la vegetazione è stata adeguata agli habitat naturali dei volatili presenti. «Prima era troppo pulita», aggiunge, dando alla frase un’inflessione positiva. «E la natura non è pulita».

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Alcuni babbuini amadriadi, originari dell’Africa orientale, a Tiergarden, Charlottensburg

Arrivo alla hippo house, il recinto per gli ippopotami, casualmente in tempo per il pranzo, il loro. Sul prato che circonda il lago entra un uomo magro e brizzolato, con l’uniforme verde e kaki dello zoo. Tiene in mano un grande secchio pieno di pane, erba e frutta. Intorno alla scena iniziano a radunarsi i visitatori. L’uomo chiama a voce alta gli ippopotami: Kathy, Ede, Max, Nicole. Lentamente, gli si avvicinano. La più grande del gruppo è Kathy, ha 41 anni. È più lunga di tre metri, alta circa un metro e mezzo. L’uomo, Uwe Fritzmann, è minuscolo in confronto a loro. Mi trovo a pensare a quanto siano “strani” gli animali, in assenza di una parola migliore. Ma cosa significa strani? Lontani dalla quotidianità umana, eppure anche lontani dalla loro immagine fotografica. Vederli dal vivo spalanca i sensi su un abisso di straniamento, inquietudine, mortalità, caso, fatalità. Uwe accarezza Kathy sul muso, lei spalanca una bocca rosa, molle, colossale. Le zanne si allungano quasi per mezzo metro. Uwe infila erba, frutta e pane nella bocca dell’animale. Un’ulteriore carezza sul muso, e Kathy serra la mascella, pacifica. Dopo la nutrizione accompagno Uwe all’interno del recinto, negli spazi in cui i visitatori non sono ammessi, dove gli animali possono avere privacy, dormire o mangiare senza essere visti. Mi spiega che Ede, il maschio principale che ha oggi 21 anni, arrivò a Berlino 3 anni fa. Kathy, la femmina, ne aveva allora 38. Ride, e dice che che ci furono «un po’ di problemi» durante i primi tentativi di accoppiamento. Poi spiega che Ede si chiama così perché era “sponsorizzato” dalla Mercedes. Ogni animale, qui, può essere adottato da un brand: il marchio ne guadagna in visibilità, e in cambio si occupa del sostentamento economico dell’esemplare scelto. Compare nel frattempo un altro piccolo ippopotamo, alto circa 50 centimetri. «È Maria», dice Uwe. Non un cucciolo, ma un ippopotamo pigmeo, una specie che fu scoperta solo nel XIX secolo. Sono sfuggenti, molto rari. Ne esistono, in natura, meno di tremila. Tutto quello che sappiamo di loro si deve agli zoo. Maria, 33 anni, è a pochi centimetri da me. Vorrei accarezzarla, Uwe dice: «Stai attento». Maria apre la bocca. Le zanne, appuntite e curve come uno jambiya, sono poco più corte del mio avambraccio.

Lo Zoo impiega circa 500 persone e accoglie ogni anno più di quattro milioni e cinquecentomila visitatori, quasi il triplo degli UffiziQuello degli ippopotami pigmei è uno degli esempi della trasformazione affrontata dagli zoo negli ultimi anni. La conservazione ex situ si serve degli zoo per far riprodurre esemplari di specie a rischio estinzione o già estinte in natura, per introdurle di nuovo nei loro territori qualora si verifichino le condizioni adatte. Programmi come lo European Endangered Species Programme (Eep) monitorano il mantenimento della diversità genetica tra gli appartenenti alle diverse specie, allo scopo di evitare l’endogamia. Quelle che decine di anni fa erano gabbie si sono trasformate in enclosures, progettate e realizzate da studi di architettura, biologi e zoologi insieme. Lo zoo di Berlino ha da poco approvato un piano di sviluppo che si estende per i prossimi 25 anni. Lo studio che ha firmato il progetto si chiama Dan Pearlman, ed è specializzato nell’architettura dei giardini zoologici. Kieran Stanley, il fondatore, mi spiega al telefono che costruire uno zoo rappresenta un livello molto complesso di architettura. «Stai disegnando per gli animali, che hanno particolari bisogni di spazio; stai costruendo per i visitatori, che hanno bisogni molto diversi; e ovviamente devi tenere conto dei servizi. E devi dare una risposta unica per tutto questo». Gli elefanti tra poco saranno spostati in un luogo nuovo, un’intera area dello zoo verrà riadattata a loro, uno spazio molto più grande di quello attuale. «La difficoltà di progettare strutture per gli elefanti», spiega Stanley, «è che ogni cosa deve saper resistere a una pressione di tonnellate». La realizzazione di una nuova architettura richiede tempo e precisione: con gli architetti lavorano zoologi, biologi, curatori. «Abbiamo bisogno di competenze non solo sul comportamento degli animali, ma anche su argomenti come le piante. Quali sono quelle del loro habitat? Quali quelle da evitare?». L’elefante asiatico che sto guardando si chiama Victor, ha 23 anni, è nato in Israele. Rimango in bilico tra la familiarità del gesto con cui si gratta una zampa con l’altra, e dall’altro lato il linguaggio sconosciuto con cui arrotola la proboscide, stacca i rami dall’albero, si ricopre di sabbia la schiena. Flirta con la compagna, Pang Pha, sempre con la proboscide le tocca la schiena, sembra tenerezza, ma lo sembra a me, con in mano questo dizionario unico, umano.

Il mattino dopo mi sposto a Tierpark, “l’altro” zoo di Berlino, che dagli anni Novanta opera sotto lo stesso tetto di proprietà. È il più grande del mondo, anche senza il cugino di Charlottensburg: se questo misura 35 ettari, Tierpark da solo arriva a 160, ovvero un milione e seicentomila metri quadrati. Tierpark è un vero e proprio parco. Cammino in silenzio tra gli alberi e gli uccelli, in una dimensione contemplativa, misteriosa, ma forse è soltanto il mattino presto, la pioggia leggera, il freddo anche se è agosto. C’è un piccolo cimitero che appartiene alla famiglia Von Treskow. Cerco su internet, mi sembra di capire che siano i vecchi “proprietari” del villaggio di Friedrichsfelde, diventato un quartiere di Berlino solo nel 1920. Lo zoo, poi, incorporò il cimitero, lo recintò, e lo mantenne in vita al suo interno, silenzioso e nascosto, come un’enclave, un neo, una Ceuta, un Lesotho. Mi raggiunge, guidando un caddy da golf, Florian Sicks, il biologo del parco. È giovane, sui trent’anni. Ci dirigiamo sibilando verso la zona dedicata ai felini, la più grande al mondo, che verrà ulteriormente espansa tra pochi mesi. Chiedo a Florian qual è la frequenza delle nascite e delle morti degli animali. Lui sembra sorpreso. Dice: «Ogni giorno». Ripeto la domanda, devo essermi spiegato male. Florian dice: «Sì. È la vita».

I biologi del parco sono due, ma soltanto Florian è a Berlino in questo momento. Il suo collega si trova attualmente in Mongolia, per seguire l’inserimento in natura di alcuni cavalli di Przewalski, una sottospecie di cavallo che si estinse, allo stato selvatico, negli anni Sessanta. Dal momento che qualche centinaio di esemplari sopravvivevano in alcuni zoo europei e nordamericani, iniziò un’operazione di breeding che portò, nel 1992, alla reintroduzione in natura dei primi 16 cavalli. Oggi sono quasi 200, compresa Barca, una giumenta nata e cresciuta allo zoo di Berlino. Mi racconta tutto questo come risposta alla mia domanda, che è più o meno: cosa si può rispondere alle critiche agli zoo come sistema? «Puoi salvare solo ciò che conosci», conclude.

Chiedo a Florian qual è la frequenza delle nascite e delle morti degli animali. Lui sembra sorpreso. Dice: «Ogni giorno». Ripeto la domanda. Florian dice: «Sì. È la vita»Sono un ospite difficile: faccio fermare il caddy a Florian in continuazione, lo costringo ad aspettarmi per minuti mentre guardo le tigri – la cat house di Tierpark è stata la prima ad abbattere qualsiasi tipo di barriera – che si inarcano sulla schiena con gli stessi movimenti scemi e languidi di un gatto di casa; i rinoceronti indiani, con la corazza ancestrale; i pipistrelli della frutta avvolti nelle ali trasparenti; i ruggiti degli altri felini che attivano all’istante brividi millenari. La mano di un orango che riposa, il palmo rivolto verso l’alto, le dita socchiuse, attiva cortocircuiti di significati per un gesto già visto in centinaia di rappresentazioni umane, che in quei contesti suggerisce un’intemperante sensualità, e qui, oggi, soltanto lo spaventoso vortice dell’evoluzione.

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Una tigre di Sumatra nella “cat house” di Tierpark

Ancora in Perché guardiamo gli animali? John Berger scrive: «Quando sono intenti a esaminare un uomo, gli occhi di un animale sono vigili e diffidenti. Quel medesimo animale può benissimo guardare allo stesso modo un’altra specie. Non riserva uno sguardo speciale all’uomo. Ma nessun’altra specie, a eccezione dell’uomo, riconoscerà come familiare lo sguardo dell’animale. Gli altri animali sono tenuti a distanza da quello sguardo. L’uomo diventa consapevole di sé stesso nel ricambiarlo». Dal punto di vista del biologo, tuttavia, Florian dà una versione differente: «Guardare negli occhi un animale per capire cosa sta pensando o provando non serve a niente. La cosa più importante da controllare è lo sleeping behaviour. Se un animale sta male, ad esempio, dorme troppo».

Negli anni a venire, seguendo il piano di rinnovamento, alcuni animali verranno trasferiti dallo Zoo a Tierpark, dove c’è più spazio. Una delle principali novità sarà l’arrivo di due panda, frutto di un accordo tra Cina e Germania. La voce di Kieran Stanley suona eccitata mentre mi dice che «è una sfida, deve essere tutto pronto per il prossimo anno. Abbiamo pensato a due grandi aree all’aperto, una per il maschio e una per la femmina, devono essere tenuti separati. Stiamo progettando molte zone dotate di ombra, molto bamboo, ovviamente, e molta acqua corrente. Metteremo anche una macchina per creare della nebbia».

C’è una frase di Andreas Knieriem, il direttore dello zoo dal 2014, responsabile dell’onda nuova di ammodernamento e costruzioni che investirà Berlino nei prossimi 25 anni, che ho sottolineato sul quaderno in cui ho scritto i miei appunti durante i due giorni da visitatore. È la frase che può rispondere a tutte le domande con cui sono arrivato. Dice: «Anni fa gli zoo prendevano dalla natura, oggi restituiscono. Sono una copia di backup del mondo animale».

 

Dal numero 28 di Studio. Fotografie di Piotr Niepsuj