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La storia di Willy Monteiro non è un true crime ma un racconto corale

Intervista a Christian Raimo sul suo Willy. Una storia di ragazzi, libro che racconta l'omicidio di Willy Monteiro con un approccio diverso da quello sensazionalista al quale ci siamo abituati in questi anni.

di Gianluca Herold

All’apparenza, quella di Willy Monteiro Duarte è «una tragedia semplice che si può raccontare in poche righe: in una notte di fine estate, intorno alle 3:20, in una cittadina di provincia del Basso Lazio un ventenne viene ammazzato di botte da altri quattro suoi coetanei, che non conosceva e che non lo conoscevano. Un pestaggio senza ragione, forse una rissa finita male. I quattro assassini vengono riconosciuti e arrestati prima che sia giorno». Se davvero fosse così, se fosse tutto qui, Christian Raimo non avrebbe passato tre anni a cercare di dare un senso a quelle poche righe. Non avrebbe raccolto le voci di chi, da quelle poche righe, è stato segnato per sempre. Non avrebbe usato quelle voci come il coro di un rito collettivo che nel tempo ha assunto la forma di un reportage, di un podcast e poi di un libro, Willy. Una storia di ragazzi, edito da Rizzoli. E invece lo ha fatto.

Perché?
Questa storia ci è piovuta un po’ addosso, a me e ad Alessandro Coltré, perché quella sera, per un caso davvero oscuro, avremmo potuto essere testimoni dell’omicidio. Un paio d’ore prima Alessandro aveva mangiato a dieci metri in linea d’aria da dove è avvenuto, e quella sera ci sarei dovuto essere anche io, ma avevo avuto contatti con un positivo al Covid. Lì per lì questa cosa colpì entrambi. Una cosa che da un po’ di tempo faccio, in casi come questi, durante le esplosioni mediatiche di cronaca nera o di cronaca politica, è andare nei posti quando gli altri vanno via, perché stando lì più a lungo si capiscono delle cose. Non tanto in termini di ricostruzione (anche perché in questo caso non c’era giallo: omicidio, i colpevoli stanno a due metri, vengono arrestati dopo due minuti), ma delle ragioni e del senso paradigmatico che quel delitto ha. Quello di Willy è stato un caso esemplare, che raccontava qualcosa sul contesto sociale in cui è avvenuto. Se ne sono resi conto tutti i media, ma nessuno ha capito perché.

I media hanno provato fin da subito ad appiccicare etichette politiche o razziali all’omicidio, per poi virare verso un racconto più superficiale, già noto: provincia degradata, malamovida, disagio giovanile. Quando avete avuto la sensazione che queste narrazioni mediatiche fossero fuori strada?
Ho un trucco. Quando succede qualcosa del genere la mia prima domanda è: che lavoro facevano le persone coinvolte? Questa prospettiva marxista, di materialismo storico, apre a letture completamente diverse. Nel nostro caso gli assassini erano quattro, però due, i fratelli Bianchi, sono quelli che arrivano e trasformano una banale rissa neanche tanto accesa (uno spintone, forse uno schiaffo) in una tragedia. Cosa facevano di lavoro? Spacciavano, facevano recupero crediti. Quella sera sono in un Suv, con due ragazze appena conosciute, e alle tre di notte vengono chiamati dagli amici. Per quale ragione dovrebbero rivestirsi e andare a pestare a sangue Willy, che nemmeno conoscono? Perché il loro lavoro in un certo senso rientra nella gig economy, sono una sorta di rider della violenza, metaforicamente parlando. Pestare di botte la gente gli dà da mangiare, oltre che un ruolo sociale. Se non pestassero qualcuno a richiesta la loro credibilità ne risentirebbe, tipo cattiva recensione: “li abbiamo chiamati e non sono arrivati”, oppure “sono arrivati e non hanno fatto nulla”. Anche di notte devono garantire il servizio, il loro JustBeat. Se poi ti chiedi perché facevano questo lavoro, scopri che tre su quattro dei cosiddetti carnefici non avevano il diploma. Perché? Perché ad Artena non c’è una scuola superiore, nonostante faccia 15 mila abitanti. Ed ecco che attraverso una semplice domanda, che lavoro fanno, si riesce a fare ricerca non soltanto sui fatti, ma anche sulle ragioni dei fatti. Che poi secondo me è il senso del giornalismo.

Nel libro scrivete che «i momenti che precedono l’omicidio non contengono attimi di ferocia o qualche indizio su come sarebbe andata a finire». C’è invece questo «dimostrare di essere maschi, mentre in mezzo c’è una ragazza». Tutto nasce da un bacio mandato a una ragazza. Da un catcalling, diremmo.
È così, e questa è la seconda chiave, di cui sono debitore a Giulia Siviero: quella della mascolinità tossica. Questi due aspetti di contesto, gig economy e patriarcato, permettono di spiegare la cosa più inspiegabile. Ovvero non solo perché un ragazzino è morto in una sera di fine estate (domanda vertiginosa, che dovremmo fare a Dio), ma perché due ventenni coatti, violenti e mezzi spacciatori si uniscono ad altri due che stanno discutendo e in quaranta secondi diventano assassini di una persona che manco conoscono.

I media invece hanno riempito quell’apparente vuoto di senso nel movente con «morbosità e moralismo, una pietà astratta o un interesse da consumo compulsivo di casi di cronaca». Cosa ci dice questo sul giornalismo in Italia oggi?
Tantissimo, e ancora non tutto. La faccenda è più complessa, perché in questi casi c’è sempre un cortocircuito tra racconto giornalistico e racconto giudiziario. Le trasmissioni tv influenzano l’attività di giudici e pm, e a loro volta giudici e pm influenzano le trasmissioni. Un giorno in pretura, per esempio, raccontava il processo di primo grado dei fratelli Bianchi, e a un certo punto a chi come me aveva seguito tutto dall’inizio era evidente questa cosa: le espressioni e le ricostruzioni venute fuori dalla trasmissione erano riprese, introiettate e date per scontate dai pm e dal racconto giudiziario, così come il racconto giudiziario a sua volta legittimava quel racconto giornalistico morboso. Queste due manipolazioni opposte non solo si condizionano, ma si legittimano a vicenda.

Nel vostro libro ricorre spesso la parola “massacro”, che però è una parola che di solito si usa quando il delitto coinvolge più vittime e quando è particolarmente efferato. In questo caso invece si tratta di un omicidio singolo, e nemmeno così sanguinolento. Perché avete scelto di usare proprio questa parola?
Ora che ci penso, abbiamo sbagliato. Dobbiamo correggere tutto il libro [ride, nda]. In effetti è un po’ una forzatura, però lieve. Perché la dinamica dell’omicidio in realtà è stata feroce: un pestaggio molto, molto violento. Un ragazzino che è stato trattato come un pallone da calcio. Tutti per fortuna hanno un’immagine iconica di Willy, un po’ angelicata, ma le foto del suo corpo massacrato, che non sono mai diventate pubbliche, sono più terribili di quelle di Cucchi o Aldrovandi. Questa violenza sul corpo dovevamo farla venire fuori con le parole.

Anche i media se non sbaglio lo hanno raccontato così, come un massacro.
Sì, però il problema dei media è che non prendono sul serio la violenza, ce la mostrano ma senza farci vedere gli effetti sui corpi. Della guerra o della violenza sulle donne non vengono mostrati cadaveri, arti lacerati etc. Questo secondo me provoca un tipo di anestesia che può portare a guardare ai casi di cronaca nera con uno sguardo un po’ più morboso e un po’ meno lacerato, e in ultima analisi a pensare di poter massacrare una persona. Se io vedo solo i muscoli dei fratelli Bianchi, quale può essere la mia reazione? Volerli ammazzare di botte. Ciò significa che ho introiettato a mia volta quell’anestesia nei confronti dei corpi.

Credi che la sovraesposizione al genere crime abbia un peso in tutto questo?
Lo stile crime ha fatto dei danni inimmaginabili. Lo vedevo già negli anni ’90, quando la letteratura italiana si riempiva di noir. In alcuni casi chi fa crime è davvero bravo, e può farlo funzionare assieme a un discorso politico o sociale, ma in tutti gli altri diventa una chiave standard che invece di aprire porte le chiude. E quindi i fratelli Bianchi diventano i personaggi di un romanzo criminale prima ancora di sapere il loro nome o di distinguerli uno dall’altro. Questo storytelling nero dominante, quasi sempre identico, non ci porta a capire nulla delle ragioni per cui in certi contesti le persone diventano così violente da arrivare ad ammazzare altre persone.

Sugli scaffali delle librerie da una parte c’è il racconto crime, dall’altro c’è anche la letteratura con la L maiuscola, il cosiddetto non-fiction novel, da Truman Capote a Emmanuel Carrère. Voi però avete deciso di non seguire né l’una né l’altra strada.
Noi abbiamo seguito le voci dei parenti ma soprattutto degli amici di Willy, dei giovani, insomma. Il titolo del libro è Willy. Una storia di ragazzi. Quel “di” ha un doppio significato, perché è una storia “sui ragazzi” e “dei ragazzi”, su quello che loro hanno da dire. Volevamo dare voce a una generazione che non ha voce. Per questo i virgolettati sono così poco lavorati, per preservare la modalità in cui ci sono state raccontate le cose, perché sono incredibilmente interessanti così. Perché di fatto oggi quale racconto pubblico, politico, giornalistico, giudiziario o culturale prova ad ascoltare i giovani? C’è una quantità incredibile di esperti sul mondo giovanile, ma pochissime voci giovanili.

Qual è stato il modello?
Il metodo storico è l’arma da fine mondo, come dice Vanessa Roghi. Ci sono molti modi di affrontare una storia, dal giornalismo alla psicoanalisi, la sociologia, la letteratura, però secondo me bisogna andare fare come ha fatto Ivan Jablonka in Laëtitia, prendendo sul serio le fonti. Il metodo storico chiaramente arriva per ultimo, ma poi dà delle chiavi di lettura per avere un impatto politico nel senso più alto del termine, arrivare a far star meglio le persone all’interno delle comunità. Cambiare, attraverso il racconto dei luoghi, quei luoghi stessi. Come giornalisti e scrittori vorremmo dare degli strumenti di conoscenza da condividere, non solo una bella storia che vale giusto il tempo e il gusto di leggerla. La nostra più grande speranza è che questo libro cambi la storia di come è stato raccontato Willy, ma anche quella dei paesi della Valle del Sacco. È un’ambizione un po’ alta, però senza non avremmo speso tre anni per raccontarla.