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Wilco

I Am Trying to Break Your Heart: A Film About Wilco. Un documentario racconta come nascono i capolavori della band

di Francesco Pacifico

Yankee Hotel Foxtrot è uno dei grandi dischi degli anni Zero, uno dei pochi di cui si riesce a pensare “è un capolavoro, è un disco unico, mai sentito prima” in un’epoca di retromania – nonostante sia esso stesso un disco del tutto fondato sulla tradizione del rock e del country americano. Esce nella primavera del 2002, dieci anni fa, dopo varie traversie produttive e amministrative e si avvantaggia dell’incontro fra l’improvvisa maturità compositiva del leader Jeff Tweedy, maestro di Americana, e il missaggio del Phil Spector di quel periodo, Jim O’Rourke, che all’epoca sta perfezionando la sua idea di ciò che un produttore snob può dare al rock FM, rovesciando il discorso del lo-fi di fine anni novanta in un suono spaziale e ronzante che viene dalla musica d’avanguardia su cui si è formato al conservatorio. I miscugli psichedelici di Beach Boys, Beatles, Byrds e Stones che hanno fornito la sostanza dei tre album precedenti degli Wilco vengono destrutturati da O’Rourke gettando una luce nuovissima sui ragionamenti tradizionali del gruppo.

Prima di vedere il documentario sulla realizzazione di questo disco – I Am Trying to Break Your Heart: A Film About Wilco – non sapevo che questa evoluzione filosofica e sonora della band si era raggiunta per un esplicito colpo di mano del leader Tweedy nei confronti di un membro della band, il polistrumentista Jay Bennett, responsabile dell’orda di organi tremolanti che aveva dominato nel disco precedente, Summerteeth.

La cosa migliore di questo documentario è che racconta con molta calma la produzione complicata del disco, riuscendo a trattare questioni spinose con naturalezza. La più citata è il passaggio da un’etichetta a un’altra, perché la prima, la Reprise, non aveva capito la grandezza del disco e aveva fatto mettere il muso alla band. Ma il vero miracolo narrativo è il racconto di come Tweedy impone alla band il cambio di rotta sonora. Il cambio è immortalato in un passaggio in cui la band è in studio – a mille dollari la giornata – e sta provando “Jesus, Etc.”

La scena è preceduta da una scena che per chi sa la storia è inquietante: al minuto 44:08, il missatore ideologico O’Rourke, protagonista della svolta, vera causa materiale della svolta, è seduto in silenzio su un divano e fuma una sigaretta. Accanto a lui, in poltrona, Tweedy parla dei cambiamenti che l’ascolto di O’Rourke gli ha ispirato: “Il missaggio dovrebbe essere l’ultimo stadio dell’ispirazione”. Le orecchie nuove di O’Rourke gli hanno permesso di capire dove doveva andare il suono del disco. Scena successiva, la scena madre: Jay Bennett ha una Gibson SG a tracolla, la band ha appena provato Jesus, Etc e Tweedy dice: “Credo che ci abbiamo provato, a farla potente, tipo con due chitarre”.

Jay Bennett: “Puoi pompare un po’ gli alti della tua, tipo?” e poi: “A me è parsa ottima”.

A questo punto Tweedy guarda per terra con la faccia da stranito forte, un po’ di sudore sotto gli occhi, si vede che non è d’accordo e che è contrariato e sta per prendere una decisione autarchica.

Bennett: “Davvero, mi è parsa ottima”.

Tweedy: “No, senti, possiamo provare di nuovo con due chitarre se ci sembra troppo debole. È solo che io penso che abbiamo provato con le due… Credo che la cosa delle due chitarre sia… be’… potrebbe essere obsoleta, capito?”

C’è un silenzio breve imbarazzato. Bennett si tiene la mano sinistra sulla spalla destra, i due non si guardano.

Bennett: “Ah… non so se ho capito bene, ma ci provo”. Ride, si leva la chitarra, va a una delle tastiere.

Tweedy: “Be’?”

Bennett: “A me è parsa stupenda, tutto qui”. E poi: “It just felt fucking rocking, you know? That’s all”.

Tweedy guarda per terra. Sta facendo una specie di colpo di stato. Deglutisce.

Poi iniziano a provare una versione di “Jesus, Etc.” che già fa intravedere quella definitiva: meno rockeggiante, più aerea.

Nella scena dopo si parla dei problemi con le etichette. Poi vediamo un concerto in cui provano i pezzi nuovi. Dopo l’ultimo pezzo, Tweedy è euforico e urla al pubblico “Show some gratitude!” Poi c’è un fermo immagine di Bennett triste che saluta la gente abbandonando il palco. Dev’essere l’ultimo live con Bennett in formazione, non so, dà quest’idea.

Scena dopo: il regista dice: “Ok, parliamo di Jay”.

Tweedy: “Ok. Probabilmente non avrò molto da dire”.

Quel che succede da qui in poi è un tristissimo resoconto delle opinioni dei vari membri del gruppo: quelli che rimangono dicono che Bennett ormai non poteva più continuare, non seguiva più le idee di Tweedy. Bennett racconta molto scosso che gli altri per salvare il posto dicevano sì a Tweedy mentre lui, Bennett, non ci stava. Si vede che il rapporto è compromesso, e si vede che sono tutti feriti dall’esperienza.

Di solito il rock propone litigi fra stelle viziate e molto tossiche che fanno dei pissing contest e si pestano i piedi a vicenda. Wilco non è una band come le altre, è piena di intenzione e di idee, per cui nel suo caso, e nel caso delle paturnie creative del leader prepotente Jeff Tweedy, lo scontro ha un merito, è dominato dalla preoccupazione compositiva. Nel suo documentario, Sam Jones è riuscito a catturare il momento preciso in cui un uomo con una visione musicale ha smesso di parlare, ha abbassato lo sguardo e ha detto: si fa come dico io, e a lasciato intendere: perché io capisco i suoni e voi no. Bennett ha perso il suo posto in una delle più grandi band contemporanee americane, ed è finito a suonare per conto suo, peraltro morendo sfortunatamente nel 2009 a quarantasei anni, nel sonno, per overdose da antidolorifici.

Mi ha sconvolto sapere come uno dei miei dischi preferiti abbia trovato la propria misura grazie a un colpo di stato che ha complicato la vita di un uomo. Bennett aveva detto con orgoglio e soddisfazione che “Jesus, Etc.” era fucking rocking con due chitarre, ma Tweedy aveva intuito grazie a O’Rourke – l’omino silenzioso e diabolico inquadrato per un attimo seduto composto su un divano – che all’inizio del nuovo secolo si doveva rockeggiare in un altro modo.

La questione, in ultima analisi, è questa: avrei preferito salvare Bennett e non scoprire il sound spaziale di Yankee Hotel Foxtrot? E rovesciando il discorso: esistono dischi che non sono diventati belli come Yankee Hotel Foxtrot perché il leader della band ha deciso di non calpestare il polistrumentista in nome della propria visione?