Attualità
Whiplash (e il Festival di Sanremo)
Un bel film che esce domani nei cinema e avrà ai prossimi Oscar il ruolo di "cosa stramba e di qualità" che gli Elio e le Storie Tese hanno avuto nella nota kermesse musicale. Da vedere.
Non so per quale motivo ma nell’ultimo periodo, quando mi metto davanti al foglio bianco e comincio a ordinare le idee sull’articolo che sto per scrivere, mi viene sfortunatamente in mente quasi sempre un paragone o un parallelismo con il Festival di Sanremo. Soprattutto adesso che siamo in clima caldo pre-Oscar 2015. Due settimane fa, quando abbiamo decretato il terribile momento di stanca del biopic, vi ho spiegato come quella sicurezza che ci regala la notte degli Oscar sia simile alla liturgia con cui ogni anno ci deprimiamo di fronte al Festivàl della canzone italiana. Spettacoli immutevoli, capaci di regalarci con il loro immobilismo una sorta di serenità (o amarezza) interiore. Certo, ogni anno ci sono delle piccole differenze, sia per quanto riguarda la struttura dello spettacolo in sé, sia per quanto riguarda la sua percezione da parte del pubblico, ma anche questi piccoli scarti fanno parte di quello schema. Da qualche anno a questa parte c’è un altro elemento che rende simili gli Oscar e Sanremo: la presenza in gara dell’outcast, di quello strano.
1996. Sul palco dell’Ariston salgono gli Elio e le Storie Tese. Ne scendono da vincitori morali, soprattutto facendo capire che non di soli Amedei Minghi e Marie Nazionali vive il Festival. Ci vuole qualcosa in più, un gruppo o un personaggio che porti una ventata di aria fresca. Risulta ormai necessario – anche per dare un po’ di credibilità a una manifestazione che ormai mostra apertamente la corda – che ci sia qualcuno che possa vincere senza vergogna il Premio della Critica, o qualcun altro a cui chiedere l’annuale dose di “locura”. 1997, Pitura Freska. 1998: Piccola Orchestra Avion Travel. 1999: Daniele Silvestri. 2000: Subsonica. Da Elio in avanti è stato un fiorire di Bluvertigo, Timoria, Sergio Cammariere, Neffa, Afterhours e via dicendo. Lo stesso processo è avvenuto anche per quanto riguarda gli Oscar. Da un po’ di anni a questa parte, al fianco dei film per cui Meryl Streep vincerà un Oscar, a quelli noiosi e lunghi diretti da Spielberg o a quelli per cui “è tanto bello e ho pianto tanto”, c’è la quota locura.
A Carlo Conti toccherà presentare alle amiche di mia mamma questo strano cantante rap, “tale Nesli”. Noi invece ci siamo stupiti di trovare nelle otto pellicole candidate alla statuetta come Miglior Film, Whiplash del giovane Damien Chazelle.
1996: Ragione e Sentimento di Ang Lee. 1997: Fargo dei fratelli Coen. 1998: The Full Monty di Peter Cattaneo. 1998: La Sottile Linea Rossa di Terence Malick. 1999: American Beauty di Sam Mendes. 2000: Traffic di Steven Soderbergh. E poi ancora titoli come Lost in Translation, Sideways, Little Miss Sunshine e tanti altri “piccoli film indipendenti”. Vediamo quest’anno qual è la situazione. A Carlo Conti toccherà il difficile compito di spiegare alle amiche di mia mamma chi è questo strano cantante rap, “tale Nesli”. Noi invece ci siamo stupiti di trovare nelle otto pellicole candidate alla statuetta come Miglior Film, Whiplash del giovane Damien Chazelle. Vi torna il discorso?
Vediamo di cosa parla Whiplash. Si tratta, come già il primo lavoro di Chazelle, di un film musicale, jazz. Qui si racconta il rapporto tra un giovane aspirante batterista iscritto al Conservatorio di New York, interpretato da Miles Teller, e il suo professore/direttore d’orchestra, il roccioso J.K. Simmons. Il primo è disposto a tutto pur di eccellere, pur di diventare il prossimo Buddy Rich. Per lui non c’è nulla di più importante di riuscire a diventare immortale grazie alla propria passione, la musica. Il secondo invece è il Terrore di tutti gli studenti. Un perfido dittatore – muscoloso e di nero vestito – che non vede l’ora di vessare in lungo e in largo chiunque gli si pari davanti. Perché lo fa? Perché è pazzo, ovviamente. Ma non solo: lo fa perché, come dice in una sequenza, per lui non ci sono nella lingua inglese due parole più dannose di “buon lavoro”. Chi si accontenta, chi non vuole varcare i propri limiti per diventare Leggenda, non è degno di stare nella sua classe. Il talento e la passione del primo andranno a scontrarsi con la cattiveria del secondo, dando vita a un’appassionante guerra combattuta con bacchette da batterista, sedie lanciate da una parte all’altra dell’aula e velenosissime battute di sceneggiatura.
Whiplash è girato in maniera spettacolare: Chazelle tenta di raccontare per immagini utilizzando la struttura della musica jazz, soprattutto quella dei pezzi cardini del film.
In un’annata particolarmente piatta per gli Academy Awards, in cui tutti i film sembrano essere il Manifesto di una categoria “Acchiappa Oscar”, Whiplash è – come già detto – il film outsider, la novità. Al fianco del film sui problemi razziali, oltre a quello sul Genio e la sua Sregolatezza o il Genio e la sua Malattia, dopo quello autoreferenziale sul divismo hollywoodiano, c’è lui: il film piccolo, girato dallo sconosciuto, capace di regalare la parte della vita al caratterista che è sempre stato bravo anche se in pochi si ricordavano il nome, ambientato nel mondo alto e culturale del jazz. Sì, non c’è che dire, Whiplash ha tutte queste caratteristiche. Ma ad un secondo sguardo ci si accorge che nella struttura richiama molto da vicino la pellicola sportiva/musicale americana della metà degli anni Ottanta. Qualche titolo: Flashdance e Karate Kid. La sfida del giovane apprendista per emergere, anche contro tutto e tutti. La classica battaglia più grande di noi, che alla fine però si vince e che ci fa uscire dal cinema sempre e comunque sorridenti e ispirati. Che il giorno dopo ci si vada a iscrivere a un corso di danza, di karate o di batteria la cosa non cambia, no?
Ma c’è però in questi film una differenza sostanziale. Per prima cosa Whiplash è girato in maniera spettacolare. Non fraintendete: anche Karate Kid e Flashdance sono film più o meno inattaccabili dal punto di vista della messa in scena. Ma se in questi ultimi due casi il tutto era piegato ad esaltare la narrazione, qui Chazelle tenta di raccontare per immagini utilizzando la struttura della musica jazz, soprattutto quella dei pezzi cardini del film, quindi la titletrack “Whiplash” di Hank Levy e la bellissima “Caravan” di Juan Tizol. Per cui preparatevi ad assistere ad un tripudio di stacchi a tempo sincopatissimi, che faranno la felicità di tutti gli appassionati di Buddy Rich. Ma oltre a questo, particolarmente evidente nell’incipit e nel bellissimo finale, c’è tutta quell’aria da film indipendente americano che ormai abbiamo imparato a conoscere a memoria. Ma non si tratta di una differenza solo stilistica.
Anche in Whiplash si parla di talento, ma la cosa interessante è come l’accento sia posto principalmente sul lavoro, sulla fatica, sugli sforzi che una persona può fare per arrivare dove vuole.
Quello che Whiplash racconta, ed in questo mi sembra stia la vera novità, è la storia di un’autoaffermazione. Siamo sempre stati abituati a incontrare nel cinema americano personaggi “nati per”. Abbiamo avuto sfilze di predestinati, di quelli che hanno ricevuto a sorpresa la visita de la Natura in fregola di fare doni. Personaggi che, anche se poveri e obbligati a fare i bidelli, erano in grado di risolvere le equazioni difficilissime che professori sbadati lasciavano irrisolte sulle lavagne. Pazzi con svariati vizi capaci di vedere le carte da gioco. Drogati dal capolavoro facile. Musicisti nati con la musica nel sangue. Certo, anche in Whiplash si parla di talento, ma la cosa interessante è come l’accento sia posto principalmente sul lavoro, sulla fatica, sugli sforzi che una persona può fare per arrivare dove vuole. La perfezione non è un concetto totalmente astratto che si può raggiungere solo grazie a un fattore indefinibile e quasi magico, ma un traguardo che si può passare con il lavoro e la fatica.
Concludiamo spendendo due parole sul cast: Miles Teller – che fra poco vedremo nella parte di Reed Richards in quel disastro annunciato che sarà i Fantastici 4 – è decisamente bravo e convincente nella parte dello studente adolescente disposto a sacrificare la sua vita sentimentale per un assolo fatto bene. Suo padre è un irriconoscibile Paul Reiser, che forse qualcuno ricorda come caratterista spalla comica di Eddie Murphy in Un Poliziotto a Beverly Hills o perfido traditore in Aliens – Scontro Finale. Ma la parte del leone la fa inevitabilmente J. K. Simmons. L’attore di Detroit, classe 1955, è in giro da 30 anni, da quando fece una piccola parte nel film per la TV Il Braccio Violento della Legge 3. Da allora ha lavorato sodo, ha dato tutto quello che poteva, passando per pellicole come Un Colpo da Campione (ironia della sorta, un film in cui il coach Albert Brooks scopre un talentuoso ma problematico giocatore di baseball con la faccia di Brendan Fraser) fino ad arrivare a piccole parti di lusso come quella in Spider Man di Raimi, in cui era un Jonah J. Jameson identico a quello dei fumetti, o alla parte del padre nel film Juno. Qui sa di giocarsi la parte della vita. E non ne sbaglia una.