Attualità

Basta con i geni “problematici”

The Imitation Game e La Teoria del Tutto sono solo gli ultimi esempi di un filone narrativo banale e senza idee che Hollywood (e l'Academy) sembra adorare. Sarebbe invece ora di smetterla.

di Federico Bernocchi

Gli Oscar. O se preferite, gli Academy Awards. È tutta una questione di ritualità, di certezze, di sicurezze. Si può mantenere un atteggiamento entusiasta, fare l’appassionato senza se e senza ma. Si può fare quello “sono dei premi commerciali! Vuoi mettere con i Golden Globes?”. Ma poi si finisce per accettare a braccia aperte la calda e inevitabile gioia che ci regala ogni anno la visione de la Notte degli Oscar. Mi piacerebbe poter scrivere che è un po’ come Sanremo, ma non è vero. Per ben due motivi. Il primo: passo tutto l’anno a dire che non guardo Sanremo, poi effettivamente non lo guardo. Il secondo: la serata  più brutta degli Oscar, anche la famigerata edizione del 2011, quella presentata da James Franco e Anne Hathaway, è più divertente e bella di tutte le edizioni di Sanremo messe insieme.

Il 15 gennaio c’è stata la cerimonia di annunciazione delle nomination. Già, perché forse non tutti sanno che esiste una vera e propria cerimonia in cui vengono svelate le candidature. Funziona così: c’è una conferenza stampa in cui dei personaggi dello spettacolo, elegantissimi e bellissimi, leggono tutti i candidati. Fino all’anno scorso venivano lette solo le categorie principali, mentre quelle considerate “minori” venivano comunicate tramite cartella stampa. Quest’anno invece, per la prima volta sono state snocciolate tutte le 23 categorie. Ci sono voluti ben due turni. Nel primo abbiamo potuto vedere J. J. Abrams in compagnia di Alfonso Cuaron, mentre nel secondo ci siamo annoiati con Chris Pine e la presidentessa dell’Academy Cheryl Boone Isaacs. Sì, perché parliamo di uno spettacolo noioso, ma impossibile da non guardare. Se non l’avete mai visto, dateci uno sguardo. E provate ad immaginare la versione italiana.

La notizia riportata dalla stragrande maggioranza delle agenzie di stampa, dopo l’annuncio delle nominations, è stata questa: “nove possibili statuette per Grand Budapest Hotel e Birdman!”. Sfortunatamente viviamo in un mondo con pochissima fantasia. Il titolo che avrebbe dovuto campeggiare su tutte le testate internazionali sarebbe dovuto essere questo: “The Imitation Game e La Teoria del Tutto INCREDIBILMENTE candidati come Migliori Film”. Li avete visti? Parliamo di due pellicole biografiche, entrambe già distribuite anche in Italia – a differenza del già citato Birdman, e della vera sorpresa dell’anno, Whiplash – che raccontano rispettivamente la storia di Alan Turing e di Stephen Hawking. Ovvero, riassumendo nel peggiore dei modi possibili, due storie di geni problematici. Non mi guardate così male! Guardate che è proprio in questo modo che i produttori sono stati convinti ad investire in questi progetti. Proprio perché s’è scelto di porre l’accento sulla parola “problematici”. Non pensavate mica di andare a vedere un film sulla crittografia o sugli universi paralleli, no?

Più o meno dal Ray di Taylor Hackford in avanti, Hollywood sta collezionando le figurine dell’album “Genio & Sregolatezza”, realizzando filmetti agiografici il più delle volte senza un briciolo di personalità.

The Imitation Game e La Teoria del Tutto rappresentano, volutamente esagerando, il più grande difetto del cinema statunitense. Sono la persistenza di una tendenza ormai più che decennale che affligge il Cinema. Più o meno dal Ray di Taylor Hackford in avanti (non a caso, pluricandidato nel 2004), Hollywood sta collezionando le figurine dell’album “Genio & Sregolatezza”, realizzando filmetti agiografici il più delle volte senza un briciolo di personalità. Il trucco è questo: per raccontarci la loro Grandiosità si pone l’accento sulle loro debolezze. Li si mostra fragili, fallibili, inadeguati per amplificare la magnificenza delle loro Opere. Lo spettatore medio sa che, esempio a caso, Johnny Cash ha scritto delle grandi canzoni ma non sa che le ha scritte nonostante i suoi problemi con la droga e con l’alcool e nonostante un difficile rapporto con il padre. La parola chiave delle trame di Walk The Line – Quando L’Amore Brucia L’Anima, La Vie En Rose, Pollock, Basquiat, Rush, Control, Frida, Il Discorso del Re e molti altri ancora è  una sola: “nonostante”.

Alan Turing è ad oggi ricordato come una delle più grandi menti matematiche della Storia e uno degli uomini chiave per la risoluzione del secondo conflitto mondiale, nonostante il governo inglese l’abbia vessato fino al suicidio. Stephen Hawking è l’uomo che ha rivoluzionato tutti gli studi sulla fisica e sull’astrofisica, nonostante i problemi con la moglie. Chiaramente stiamo semplificando, ma neanche più di tanto; l’orientamento sessuale di Turing e la malattia di Hawking sono i veri punti cruciali delle pellicole in questione. Sono questi i temi che articolano il racconto, non certo le loro scoperte. Anzi, prendiamo in esame il vero difetto dei biopic di questo genere: il momento della Creazione. Se si decide di raccontare la storia di un genio noto al mondo per la sua scoperta, per i suoi quadri, per le sue canzoni, non si può fare a meno di mostrare il Lampo di Genio, l’eureka!, ovvero quel preciso momento in cui è arrivata l’ispirazione. E questo momento è sempre e comunque legato al “nonostante”. Prendiamo la sequenza di The Imitation Game in cui Turing capisce come sconfiggere Enigma, il codice segreto usato dai nazisti. Il matematico parla distrattamente al bar con una centralinista che, frivola come poche, racconta di alcuni messaggi che si scambiano due innamorati. Proprio lui, che non può avere un normale rapporto d’amore, risolve tutto sentendo una frase senza apparente senso che ha a che fare con l’amore. Non è ironico? Passiamo a La Teoria del Tutto. Stephen Hawking, a causa della sua malattia , non riesce a infilarsi un maglione. In attesa che la moglie lo aiuti, si trova con la testa incastrata nell’indumento. Soggettiva dello scienziato che in questa scomoda posizione osserva il fuco che arde nel camino del salotto. Lo vede velato, schermato dalla lana del maglione. Da qui la scintilla: i buchi neri non sono neri. Non è ironico? La risposta è la stessa per tutte e due le domande: no, è solo scritto male.

Se si decide di raccontare la storia di un genio noto al mondo per la sua scoperta non si può fare a meno di mostrare il Lampo di Genio, l’eureka!. E questo momento è sempre e comunque legato al “nonostante”.

Altra caratteristica peculiare di questi film, e che solitamente piace moltissimo all’Academy, è il lavoro degli attori. Qui l’attore è chiamato a imitare, ricalcare. Quanto più è capace di rendere le caratteristiche i difetti fisici o le imperfezioni che identificano quel personaggio, quanto è più bravo. Pensate a Nicole Kidman con una protesi al naso che interpreta Virginia Wolf in The Hours, a Colin Firth balbuziente ne Il Discorso del Re, a Helen Mirren con la faccia scocciata in The Queen o a Fabrizio Gifuni che parla come Aldo Moro in Romanzo di una Strage. Tutti grandi attori, non c’è che dire. Ma non è curioso che il più delle volte li si premi proprio nel momento in cui “limitano” la loro arte imitando qualcun altro? Nei nostri casi il discorso si fa ancora più evidente. Benedict Cumberbatch porta sullo schermo un Turing fondamentalmente uguale al suo Sherlock, ma con  il 5% in più di omosessualità. Eddie Redmayne invece ha evidentemente studiato alla perfezione i danni causati dalla malattia al corpo di Stephen Hawking e non si può fare a meno di rimanere strabiliati dallo sforzo fisico che una prova del genere comporti, ma nella prima parte – con una certa dose di cinismo – non si può non notare una somiglianza anche con l’Austin Powers di Mike Myers. Cosa che non aiuta di certo il tono del film, che ovviamente è tra le cose meno ironiche e spiritose mai viste al cinema. Concludiamo con una considerazione: ovviamente si può fare un film su Stephen Hakwking o su Alan Turing senza ammorbare il pubblico con spiegazioni scientifiche incomprensibili. Anzi, sulla carta è un’idea stimolante. Ma constatare che in tutti e due questi film il lato scientifico sia quasi totalmente assente o relegato a sequenze in ellissi in cui tutto quello che si vede è qualcuno che scrive con la faccia tra il pensieroso e l’ispirato su una lavagna,  mette amarezza. Eppure, qualcosa mi dice che durante la notte degli Oscar questi due film porteranno a casa qualche importante risultato…
 

Nell’immagine in evidenza: una scena da The Imitation Game