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L’Africa non ne può più dei nostri vestiti usati

I Paesi africani non ne possono più di tutti quei vestiti usati che gli mandiamo. È una questione economica complicata, di cui si discuteva già da un po’, ma che è tornata centrale negli ultimi mesi. Ci hanno dedicato un articolo interessante Max Bearak e David J. Lynch sul Washington Post, che riassumono la questione in un paragrafo: gli abiti smessi che noi noi abitanti dei Paesi ricchi diamo via, in genere ad associazioni caritatevoli (come la Salvation Army negli Usa), poi vengono rivenduti a società private, che le rivendono nei Paesi più poveri. «Enormi quantità di vestiti usati vengono poi spediti su navi-container, dirette soprattutto all’Africa sub-Sahariana, in quello che è diventato un business che vale miliardi di dollari». Il problema, proseguono i due autori è che, «i governi africani non ne possono più. Quello che in occidente molti vedono come un gesto di generosità, secondo loro sta impedendo ai loro Paesi di sviluppare una propria industria tessile».
Due anni fa, ricorda il Post, quattro Paesi africani – Ruanda, Tanzania, Uganda e Burundi – avevano deciso di contrastare questo fenomeno alzando i dazi sull’importazione dei vestiti usati. Più recentemente, all’inizio del 2018, tre di questi Paesi – Ruanda, Tanzania e Uganda – avevano proposto un vero e proprio divieto dell’importazione dei vestiti usati: ci aveva dedicato uno short doc Al-Jazeera. L’innalzamento delle tariffe, oltre alla possibilità che le importazioni potessero essere bloccate tout court, aveva mandato in allarme gli Stati Uniti, che di abiti dismessi sono l’esportatore principale (al secondo posto c’è la Gran Bretagna). Gli Usa dunque hanno minacciato di escludere, in risposta, i Paesi africani da alcuni importanti accordi commerciali. Le altre nazioni coinvolte, sostiene sempre il Post, allora hanno fatto indietro, mentre il Ruanda è pronto ad affrontare le conseguenze delle sue decisioni.

Il fatto che gli abiti usati mandati in Africa siano un problema non è una novità. Nel 2013 la Cnn ci aveva dedicato un approfondimento che citava Oxfam e una ricerca tedesca: «Una grossa fetta degli abiti dismessi finiscono nei mercati africani, tanto che secondo Oxfam i vestiti usati rappresentano il 50 per cento del mercato del vestiario in molte nazioni dell’Africa sub-Sahariana, almeno per volume». Fino agli anni Ottanta e Novanta, l’Africa aveva un suo mercato tessile, ricorda la Cnn, poi però le liberalizzazioni hanno permesso le importazioni second-hand e la cosa «ha messo in difficoltà le produzioni locali, portando alla chiusura di molte fabbriche. Secondo uno studio del 2006 nel Ghana i posti di lavoro nel tessile sono scesi dell’80 per cento tra il 1975 e il 2000». In alcuni luoghi, come la Nigeria, il settore è scomparso quasi del tutto.
La questione, insomma, sembra essere questa: noi occidentali compriamo vestiti a basso costo prodotti in Asia, e quando ce ne siamo stufati li mandiamo in Africa, dove se li comprano gli africani, ma questo ha impedito lo sviluppo di un settore tessile nel continente. Non tutti però sono concordi nel considerarlo un fenomeno soltanto negativo. Nel 2012 per esempio il Guardian aveva pubblicato un articolo che, pur ammettendo il problema, faceva notare che esistono anche lati positivi: «La compravendita di vestiti usati permette di acquistare abiti a buon mercato e inoltre crea lavoro, una cosa di cui si sente molto bisogno». Come ha detto una donna intervistata da al-Jazeera: «Se ci tolgono i vestiti usati, molta gente resterà nuda».
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