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C’è un cardinale che potrebbe non partecipare al conclave perché non si riesce a capire quando è nato Philippe Nakellentuba Ouédraogo, arcivescovo emerito di Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, ha 80 anni o 79? Nessuno riesce a trovare la risposta.
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Una nuova casa editrice indipendente pubblicherà soltanto libri scritti da maschi Tratterà temi come paternità, mascolinità, sesso, relazioni e «il modo in cui si affronta il XXI secolo da uomini».
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I fratelli Gallagher si sono esibiti insieme per la prima volta dopo 16 anni In un circolo operaio a Londra.

Venezia71, la difficoltà della biografia letteraria al cinema

Il vincitore Roy Andersson, gli altri premiati, ma non solo: soprattutto la brutta figura dei biopic su Leopardi e Pasolini, che dimostrano la difficoltà che il cinema incontra quando vuole occuparsi di scrittori.

08 Settembre 2014

È finito il Festival del Cinema di Venezia. Lasciando un Lido popolato più da curiosi di Rovigo che da celebrità, guardo la premiazione in diretta su Rai Movie e scopro una Sala Grande piena di posti vuoti (non siamo mica a Sanremo, dove ti pagano per fare lo spettatore scalda-poltrone). Forse è stata questa rilassatezza e lalatitanza del glamour ad aver permesso alcune scelte, diciamo, “audaci” in termini di premi. Evidentemente la giuria – composta da Tim Roth, Carlo Verdone, Jessica Hausner, Joan Chen, Philip Gröning, Jhumpa Lahiri, Sandy Powell, Elia Suleiman, con a capo Alexandre Desplat – ha deciso di proseguire per la strada più tortuosa (quella intrapresa intrapresa dalla Mostra già da alcuni anni: l’anno scorso Leone d’Oro a Rosi e altri premi al quasi esordiente greco di Miss Violence; l’anno prima, Kim Ki-Duk, Seidl e The Master; prima ancora Sokurov). Il risultato è la premiazione di “famigerati” film difficili per pubblico, ma facili per critica – nel senso in cui, se non piacciono, almeno fanno discutere e, soprattutto, padroneggiano un’idea strutturata e consapevole di cinema.

Mai distribuito in Italia è infatti il vincitore del Leone d’Oro Roy Andersson, che ha presentato un film dal titolo scoraggiante per lo spettatore medio (che esiste, ahimè). Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza è un classico Andersson – ricordiamo, autore svedese molto importante, attivo dagli anni Sessanta e parecchio anche nella pubblicità, raffinatissimo quanto originale: ecco una collezione di quadretti semi statici, al cui interno personaggi essenziali e divertentissimi ripetono con variazioni minime sketch assurdi, quasi morali. Premessa generale è uno humor nero che definire solo “scandinavo” sarebbe assai riduttivo e che ha il gran pregio di far ridere in tutte le lingue del mondo. Sempre curatissima, di un tempo moderno ma come sospeso in un “retrò Settanta”, è l’estetica degli interni, mentre quella dei protagonisti ricorda costantemente il lavoro dello scultore Duane Hanson. Insomma, Roy vittorioso come gioia del cinefilo e grande speranza di vederlo finalmente distribuito anche nelle sale italiane.

Da menzionare ancora sono il gran premio della giuria ad Oppenheimer per The look of silence e la miglior regia per Koncalovskij e il suo The Postman’s White Nights. Doppietta (personalmente) inaspettata per Hungry Hearts di Saverio Costanzo, che sbaraglia la coppa Volpi con Adam Driver per interpretazione maschile e Alba Rohrwacher per quella femminile. Il film di Costanzo – da molti, ironicamente ma anche molto appropriatamente, definito “Rohrwacher’s Baby” per le sue somiglianze superficiali con il geniale Polanski – ha i tratti di un piccolo film un po’ ambiziosetto, dove nel vezzeggiativo vogliamo indicare il pregio di certi tentativi ma la pesantezza complessiva di un risultato assai deludente (girare un film a New York e in lingua inglese, cast ridotto all’osso, paternità/maternità quasi come pretesto thriller, la scenetta iniziale e l’avvio con veduta aerea a suon di “Flashdance… What a feeling” avevano in principio fatto ben sperare).

Gli italiani non si sono fatti valere tantissimo, anche se negli Orizzonti l’eccelso Maresco di Belluscone ha preso un premio della giuria (vedetelo, è già uscito e vi regalerà supplizio civico e allegria, in egual misura). Strano per gli italici, infatti, dato che quest’anno due sono stati i presunti grandi protagonisti: Giacomo LeopardiPier Paolo Pasolini. Scrivo presunti perché nonostante il peso della Storia che si portano dietro e la notorietà dei registi che dirigono l’adattamento delle loro vite, i film su Leopardi e PPP sono dimenticabili e ignoratissimi nella premiazione.

Perché, dunque, sembra essere così difficile fare cinema sulle biografie letterarie d’Italia?

Una prima risposta potrebbe stare nella problematica rappresentazione della parola scritta, medium su cui i due personaggi hanno costruito la propria esistenza. È vero, Pasolini è stato anche ben coinvolto nella cultura visiva. Però, come anche Leopardi, Pasolini era praticamente un grafomane, la cui forma espressiva prediletta era quella della scrittura intesa come mezzo privilegiato e più sfruttato per elaborare e diffondere la propria ideologia. In comune i due hanno molto: la professione di intellettuali critici e creatori di contenuto originale, il moralismo innovativo e la frustrazione nei confronti della propria Patria (sentita come tale senza mai pacificarsi nei suoi confronti), una veste sociale notoriamente controversa e di difficile inserimento istituzionale. Come molti miei coetanei, conosco bene entrambi per averli studiati approfonditamente (e con piacere) all’università. Come molti connazionali, grazie a certi loro testi ho potuto formare un abbozzo di coscienza sociale (Il Pci ai giovani!) e sviluppare un’idea del mondo che, già da adolescente, sospettavo segnata dall’esistenzialismo pessimista (ahia: La sera del dì di festaIl sabato del villaggioIl pensiero dominante). Ci si trova insomma, di fronte a due autori difficili da trattare visivamente ma senz’altro molto popolari. Bene, sia Mario Martone che Abel Ferrara maneggiano un po’ a fatica la materia, riuscendo sì a trasmettere il rispetto per il personaggio, ma risultando parecchio deboli in tutto il resto.

Il resto del film è come la gobba di Leopardi: un insieme di cose che tutti conoscono del poeta e che vengono sottolineate in ogni istante, con grande pesantezza e sottovalutazione dello spettatore.

Il giovane favoloso beneficia di un Elio Germano classico e impeccabile: si ha l’impressione che l’attore abbia seguito alla lettera, migliorandole, le indicazione del regista. È ottimo, solo che è precisamente quello che ci saremmo aspettati da un bravo interprete come lui. Il resto del film è come la gobba di Leopardi: un insieme di cose che tutti conoscono del poeta e che vengono sottolineate in ogni istante, con grande pesantezza e sottovalutazione dello spettatore. Martone compone proprio quello che ci saremmo aspettati da una biopic su Leopardi: uno sceneggiato televisivo che si guarda senza problemi e che propone un’italianissima (leggi: un po’ lenta, un po’ sofferente e non aperta a commistioni estetiche/di genere) versione dei fatti. Gli episodi citati sono quelli che conosciamo tutti (studio matto & disperatissimo, morte di Silvia, reclusione recanatese, Antonio Ranieri & il rapporto quasi omoerotico tra i due, Firenze, Fanny Torgioni Tozzetti & il rifiuto amoroso, Roma, malattia & forfora, Napoli), come del resto i testi recitati dal buon Germano (da vedere, per ridere, com’è visualizzata la natura matrigna de La Ginestra).

Ferrara ha preferito invece riassumere l’esistenza pasoliniana nel classico “ultimo giorno di vita”. Pasolini opta così per un finale per niente controverso in cui Abel Ferrara adotta la versione del 1976 – quella della Corte d’Appello che condanna Pelosi di omicidio, ma in concorso con ignoti. Eppure, tutto ciò che viene prima sembra una corsa disperata all’inclusione del mondo pasoliniano. L’intervista di Furio Colombo, il team di madre e assistenti che curavano il nido domestico e professionale, il lavoro su Petrolio che gradualmente viene abbandonato per la sceneggiatura di un film con Eduardo de Filippo, Porno-Teo-Kolossal: ecco su cosa si regge Pasolini. Nel proseguire, il film abbandona gradualmente la fedeltà realistica per rappresentare spezzoni di, appunto, PetrolioPorno-Teo-Kolossal, con un Ninetto Davoli che fa De Filippo e Scamarcio che fa Ninetto Davoli. Insomma, confusione. A peggiorare le cose c’è l’unico elemento che (a ragione) ha scandalizzato tutti: il film è in inglese. Ed è in inglese non solo Willem Dafoe, ma pure la madre, Valerio Mastandrea nel ruolo del cugino Nico Naldini, l’attrice Laura Betti; pure l’intervista con Furio Colombo! Ogni tanto a Pasolini scappa un “bongiorno” “grazzzie” “prendi sedia” in italiano smozzicato, e, anche se ci spiegano che serve per il doppiaggio in post (il film è stato consegnato alla Mostra praticamente l’altro ieri, con le riprese concluse in estate), l’insieme è alquanto doloroso da ascoltare.

Ci sarebbe piaciuto che Ferrara e Martone fossero stati in grado di immaginare la vita dei due grandissimi laddove la nostra fantasia non riusciva più ad andare: oltre agli episodi cardine della loro esistenza e oltre i testi cruciali del loro pensiero.

E dunque, non solo l’inserimento della materia letteraria sembra forzoso e didascalico, ma le due biografie sono entrambe raccontate in modo molto prevedibile. Non che volessimo scoprire i segreti delle loro vite o svelare misteri che rivoluzionassero la nostra conoscenza di Giacomo e Pier Paolo, no. Ci sarebbe piaciuto che Ferrara e Martone fossero stati in grado di immaginare la vita dei due grandissimi laddove la nostra fantasia non riusciva più ad andare: oltre agli episodi cardine della loro esistenza e oltre i testi cruciali del loro pensiero. La lezione finale sembra suggerire che la rappresentazione della biografia letteraria e/o filosofica è impossibile, se viene proposta in modo letterale. Sebbene Ferrara ogni tanto si lasci andare al “visionario” l’effetto è quello di uno stile registico che straborda e si appropria (male) della storia altrui.

Per esempio, Olive Kitteridge è un capolavoro per la Tv che si gioca benissimo la carta di “tratto dalla storia di” (un Pulitzer, quello di Elizabeth Strout, romanzoaltrettanto bello) e dimostra che il cinema si trova molto a suo agio con la finzione letteraria, quando si diverte a riprodurla. Al contrario però, la biografia di chi produce la materia prima – quella dello scrittore, del regista – sembra mettere in grave difficoltà il mezzo cinematografico. Ecco così che assistiamo ad un cinema impacciato nel visualizzare l’esistenza proprio di chi è diventato celebre perchériusciva vedere il mondo con la parola scritta. Meccanismo curioso, questo, dato che ogni film ha bisogno di una sceneggiatura scritta per prendere forma; eppure è quello che succede agli amatissimi Leopardi e Pasolini. Almeno quando li portano al cinema.

Nell’immagine, William Dafoe nei panni di Pasolini.

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