Attualità

Un’intervista a Giampiero Mughini

Abbiamo incontrato lo scrittore nella sua casa romana, vera protagonista del suo libro. Temi trattati, fra gli altri: i fumetti, gli anni Settanta, la televisione.

di Nicola Mirenzi

Avete presente una cattedrale? Entrare nella casa di Giampiero Mughini è così: un’esperienza religiosa. I muri, i ritratti, le sedie, i quadri, i tappeti, pure il corrimano: tutto parla in questo edificio avvolto in un grado di mistero pari alle cose che si ignorano. Una casa romana racconta. Libri donne amici perduti, le tracce di una vita (Bompiani, 277 pagine, 18 euro), l’ultimo libro di Mughini, è come la trascrizione delle voci che sentite salendo le scale senza riuscire a intenderle per intero: «Se uno pensa che la religiosità stia in cielo – dice – va in chiesa. Io penso invece che la religiosità sia nelle poche cose che facciamo e nei pochi anni che abbiamo da vivere, e dunque eccola qua».
I nomi dei santi da celebrare sono scritti sulla facciata dell’abitazione: «Gaetano Pesce, Leonardo Sciascia, Ico Parisi, Giuseppe Prezzolini, Bruno Munari, Andrea Pazienza, Alessandro Mendini, Giorgio Caproni». Le madonne sono appese alle pareti e soffiano sul fuoco del desiderio: c’è una Franca Rame bellissima fotografata da Mario De Biasi, più una sfilata di semidivinità che facevano visita a Mario Schifano e che Schifano immortalava nude appena mettevano piede in casa sua. Ci guardano, mentre io mi metto a sedere su una sedie rosa e blu disegnata nel 1914 da  Gerrit Rietveld e Mughini si stende di fronte su una Chaise longue di Le Corbusier.

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La casa per me non è solo un’abitazione: è il raduno delle tracce di un destino, di un lavoro, di una memoria culturale.

ⓢ La mia generazione era un libro sulla tua casa a via Trinità dei Pellegrini. Questo è un sequel?
Dieci anni sono troppi, nel mondo di oggi, per dire che è un seguito. E poi in questo libro c’è un personaggio in più, non gradito, ma che esiste, e chiamerò la vecchiaia. Quello era un libro che faceva un bilancio. Non era disperato.

ⓢ Disperato?
Mi sento estraneo a questo mondo, non c’è niente di male. Scrivo di attualità, ma per me Grillo, la Santanché, i forconi sono come gli etruschi. Non riesco a capirli.

ⓢ Invece Matteo Renzi lo capisci?
Di più, ma non sono tanto interessato a quello che capisco.

ⓢ T’interessano molto invece i libri che collezioni in prima edizione, segni della storia culturale italiana: volumi che qui dove siamo non si vedono, ma di cui si sente la presenza, come un fiato sul collo: Italo Calvino e Andrea Paziena, il futurismo e il settantasette. Insieme, a pari merito.
Il settantasette è stato una svolta, l’avvento di un modo di vivere, di comunicare, di essere inedito rispetto alla mia giovinezza e al sessantotto. Lì nasce il mondo moderno, la secessione delle giovani generazioni da quelle più adulte. Nel ’77 si spezza il linguaggio comune, si lacera il tessuto sociale. Per la prima volta nella storia del secondo dopoguerra, l’occidente non mantiene più le sue promesse.

ⓢ Tu dipingi quegli anni, passati alla storia come “di piombo”, con molti colori. Perché?
Tutti ricostruiscono il decennio settanta con la chiave del terrorismo politico, sia di destra sia di sinistra: gli assassinii, gli agguati, gli omicidi. È una cosa che c’è stata, una tragedia. Ma allo stesso tempo, in quegli anni sorgeva il nuovo mondo della comunicazione, della performance, dello stare assieme, della moda, un altro universo. Lì cambia l’atmosfera generale, la musica diventa protagonista, la grafica inventa nuovi giornali, il fumetto si sostituisce in un certo senso alla letteratura tradizionale nel testimoniare un tempo e un umore, e lì la sinistra tradizionale perde la sua presa egemonica nei confronti delle nuove generazioni, basta ricordare l’episodio celeberrimo della cacciata di Luciano Lama dalla Sapienza di Roma.

ⓢ Dedichi delle pagine bellissime ai fumetti.
Sono stati un terremoto. Sino agli anni sessanta c’era Linus, una rivista per gentiluomini colti. Poi arrivano CannibaleFrigidaire: è lì che il fumetto diventa il racconto per eccellenza di una generazione brusca, che usa le droghe, piena di desideri. Se uno deve dire qual è la letteratura più importante di quegli anni nomina Altri libertini di Pier Vittorio Tondelli e Ranxerox di Stefano Tamburini, disegnato da Tanino Liberatore.

ⓢ Tutte cose che collezioni?
Sì, ho iniziato a farlo all’inizio degli anni novanta. È allora che ho comprato l’illustrazione che fa da copertina al libro, una Marylin con gli occhi bendati dai tappi del Campari di Tamburini: uno che nessuno ricorda oggi, ma che era un gigante dello stesso livello di Andrea Pazienza.

ⓢ È proprio Pazienza che disegna la copertina di Frigidaire che lo omaggia, quando muore d’overdose, e che poi il direttore Vincenzo Sparagna non pubblica perché gli sembrava che l’osservasse «da una altra dimensione, severo come uno spettro».
A mio giudizio sbagliò di grosso. Quello è un ritratto in cui c’è tutta la tragedia di Tamburini, del suo genio interrotto. Fa parte della mia collezione dal maggio 1996, e non lo ha mai visto nessuno. Se lo appendessi a una parete esponendolo alla luce, in pochi mesi i suoi colori svanirebbero.

ⓢ Una stanza della tua casa è dedicata interamente al fumetto erotico.
È un genere straordinariamente interessante, che ha sconvolto l’immaginario. Grazie a esso autori come Pazienza, lo stesso Scòzzari, Liberatore si sono permessi cose che nessun altro poteva azzardarsi di fare. Allora i libri li censuravano, li sequestravano, li distruggevano.

ⓢ Se oggi uno entra a casa tua – scrivi – non t’importa sapere se sia di destra o di sinistra, ma cosa pensa e perché di Kate Moss.
Kate Moss è l’icona di fine del secolo, la donna assoluta: non si può descrivere la forza, la singolarità, la misteriosità attraente di questa creatura. È così: se a uno piace Valeria Marini, capisco subito quanto è remoto da me. Se mi fa il nome di Léa Seydoux sento l’affinità, un gusto, l’aroma del femminile che mi è caro.

ⓢ Le femministe di “Se non ora quando” ti considererebbero un maschilista inguaribile per questa venerazione del corpo delle donne. Eppure nella sfilata conclusiva dei “libri più belli degli ultimi cento anni” inserisci Sputiamo su Hegel di Carla Lonzi.
È il volume fondante del femminismo italiano. Lei è una critica d’arte, una donna straordinaria. È un libro con il quale ha rischiato tutto: vita, destino, affetti. Mentre le cosiddette femministe di oggi con il femminismo costruiscono carriere.

ⓢ Confessione: non è la prima volta che parliamo, io e te, ma ogni volta misuro una distanza tra l’immagine che mi ero fatto e quello che sei.
Me lo dicono in tanti, non capisco cosa vogliano dire.

ⓢ Per esempio non avevo affatto intuito il tuo pessimismo.
Il pessimismo è stato sempre un mio magnifico compagno di banco, perché ti aiuta a capire, a difenderti dai cialtroni.

ⓢ È possibile che molti, come me, si facciano ingannare dal tuo personaggio televisivo?
La televisione è uno strano teatrino in cui dobbiamo fare finta di essere piuttosto su di giri. Non è che puoi andare lì e sederti mesto e melanconico in un angolo. Devi stare al ritmo della corsa. Ma è tutto falso, è evidente: non puoi pensare che Barbara D’Urso esista davvero.

 Però la tv ti piace farla.
Sì, perché è un teatrino molto istruttivo. Non sai bene a chi ti rivolgi. Non conosci i tuoi interlocutori. Non sai di cosa si debba parlare. E devi essere prontissimo nel replicare alle cose le più strane, le più impervie, più inaspettate. È una scuola straordinaria.

ⓢ Come pensi che ti deformi il video?
Quando la gente mi conosce, si accorge che sono un bonaccione. Ma credo di risultare molto antipatico in televisione. Supponente.

ⓢ Lo sei?
Sì, soffro di un terribile complesso di superiorità.

 Eppure tu sei stato vittima, in qualche modo, della superiorità. Mi riferisco a quella presunta della sinistra, che dopo il tuo libro – Compagni, addio – ti ha considerato una specie di rinnegato.
Dopo aver lasciato il manifesto, che avevo contribuito a fondare, il mio telefono non ha squillato per un paio d’anni. E anche oggi continuo a essere off limits per alcuni giornali. Detto questo, non c’è bisogno di usare certi termini: Gramsci andò in carcere, Nelson Mandela pure.

ⓢ Tano D’Amico, tra i più grandi fotografi italiani, militante irriducibile dei movimenti (a cui tu dedichi pagine deliziose), una volta mi ha detto: «Giampiero è di sinistra, perché è inquieto».
Ma che vuoi, quella è stata la mia storia. Con la Santanché o la Biancofiore non ho niente in comune, con Nichi Vendola ne ho molte.

ⓢ Lo voteresti mai?
Mai e poi mai.

ⓢ E Diliberto?
Con Oliviero sono addirittura amico, innamorato dei libri com’è. Ma non è che gli nascondo cosa penso della rivoluzione d’ottobre, uno dei più grandi crimini dell’umanità. E in fondo quando scrivo mi rivolgo sempre a loro per dirgli: «Ma smettetela di essere così cretini».

ⓢ Il tuo prossimo libro?
Questo è un tasto dolente. È la prima volta in dieci anni che dopo aver finito un libro non ne ho un altro in testa. Per me, è un dato molto allarmante. D’altra parte bisogna fare i conti con la realtà: le cose che interessano a me non interessano più a tanti. Mettici poi che io non appartengo a nessuna gang politica-editoriale e non scrivo per aizzare il popolino. Volumi contro le caste, all’assalto di Berlusconi, per le buone e ovvie cause? Ne escono a centinaia ogni dieci minuti. Ma nemmeno se mi puntassero una pistola alla testa li saprei scrivere.