Attualità

Una tempesta nordamericana

I tre giorni di New York sepolta dalla neve, prima, durante e dopo, tra preparativi di routine, timori, noia e ripartenze.

di Giulio D'Antona

Quando, attorno alle undici di venerdì sera, i primi piccoli fiocchi di neve cominciano a sfumare l’orizzonte dell’East Village, a Manhattan, in pochi sanno come chiamare la tempesta che sta arrivando. Però tutti ne hanno sentito parlare per giorni, sanno che probabilmente ci sarà da rivedere i piani per il weekend e converrà fare provviste. Il venerdì a New York non è sembrata una giornata da neve. Le temperature sono state sotto il punto di glaciazione per quasi ventiquattro ore, sfiorando una minima di meno quattro gradi centigradi in una giornata brillante e luminosa, senza una nuvola in cielo. Nessuno ha rinunciato a uscire e i locali del Lower East Side nel tardo pomeriggio si sono riempiti di gente che evitava di mettere il naso fuori per una sigaretta e ironizzava sull’allarmismo così tipico dei media americani, che alla minima avvisaglia grida alla tempesta. Non c’è motivo di preoccuparsi finché non c’è da preoccuparsi, questa è la filosofia, e comunque New York è sopravvissuta a minacce ben peggiori di una bufera senza nome.

Verso le undici e mezza i cellulari dei newyorchesi cominciano a vibrare all’unisono: «Allerta neve, è consigliabile tornare a casa». È più o meno a questo punto che, pur senza allarmarsi troppo, tra i tavolini e le banchine della metropolitana, i marciapiedi scintillanti di umidità gelata e i deli che con le luci delle insegne accese sembrano scaldare un pochino l’aria, comincia a circolare il nome di Jonas.

Huge Snow Storm Slams Into Mid Atlantic States

Le tempeste invernali come quella che sta per abbattersi su New York e che nel pomeriggio ha già fatto il suo plateale ingresso nel District of Columbia e in parte della Virginia sono conosciute come Nor’easter per via della direzione che prendono prima di raggiungere la costa Est. Sono puntuali e affidabili, di anno in anno. Raramente sono devastanti quanto gli uragani tropicali estivi, ma spesso il ricordo della neve che seppellisce vialetti di ingresso e automobili parcheggiate rimane a infestare le leggende cittadine. Hanno un nome che generalmente è una variazione sul tema “La grande tempesta del…”, ma non è con questo che passano alla storia. Piuttosto con la quantità di neve depositata, la velocità e l’impetuosità dei venti. Sono onorate di un nome solo se la loro area di influenza supera i quattrocentomila chilometri quadrati o se colpiscono un bacino di più di due milioni di persone. Con il nome della tempesta arriva anche la certezza che sarà una di quelle grandi.

Tra l’11 e il 12 febbraio 2006 si sono scaricati sul nord dello stato di New York e sul New Jersey più di settantasei centimetri di neve. Nel 2010 il Maryland è finito sotto un metro di coltre bianca per opera di Snowmageddon — anche conosciuta come Snowzilla o Snowpocalypse — una mostruosità formatasi sulla costa pacifica e sparpagliatasi sull’Atlantico al traino di venti che soffiavano a più di ottanta chilometri orari. A New York si parla ancora della grande nevicata del 1996, che ha paralizzato la città per quattro giorni appena dopo la fine delle festività natalizie. Man mano che la precipitazione si intensifica e la visibilità si fa difficile, poco prima della mezzanotte di venerdì, ognuno ha una storia da raccontare sulle bufere passate e in pochi riescono a esimersi da previsioni e paragoni. Sembra che Jonas sia pronto a liberarsi di un peso da settanta centimetri di neve portato da venti che supereranno i cinquanta chilometri l’ora.

Huge Snow Storm Slams Into Mid Atlantic States

Nella tradizione marinaresca il Giona è un forte presagio di sventura. Avere un Giona a bordo significa, nella migliore delle ipotesi, essere destinati a una navigazione tormentata. Nella peggiore, naufragio. Prima ancora che inizi a nevicare, prima ancora che il cielo si copra di un velo lattiginoso, prima del venerdì sera in cui i newyorchesi prendono atto dell’attendibilità delle previsioni meteorologiche e danno un nome proprio gonfio di cattivi auspici alla tempesta dietro l’angolo, le corsie dei supermercati sono già mezze vuote. Mancano la carne in scatola e i cereali, gli affettati, i formaggi e il latte, le uova e il pane in cassetta. Non c’è stato nessun assalto, ma una normale, ordinata, equilibrata corsa alle provviste mano a mano che le notizie sulla tempesta in avvicinamento si facevano più attendibili. Quando a Washington la neve ha cominciato a restare attaccata ai cornicioni e ai marciapiedi, alle barbe e agli occhiali dei passanti, a New York qualcuno ha pensato che era giunto il momento di prepararsi.

La chiave per comprendere lo strano misto di inquietudine, pacata saggezza e ordinata rassegnazione che anticipa un blizzard è proprio nell’inevitabilità e nella prevedibilità del fenomeno. Più che Jonas, quest’anno a stupire New York è stata l’ondata di caldo fuori stagione che ha caratterizzato il periodo natalizio, con massime che toccavano i venticinque gradi centigradi. Prepararsi alla tempesta, armarsi di vanghe, di sale e di cloruro di calcio, riempire le dispense e svuotare gli scaffali, fa parte della routine stagionale come piazzare i condizionatori sulle finestre e il tè a ghiacciare nei freezer sono i primi gesti che anticipano l’estate. Non c’è ragione di ritenere che qualcosa di male possa succedere. Come scrive Adam Gopnik nel suo saggio L’invenzione dell’inverno, da poco edito da Guanda: «Ci opponiamo alla minaccia del gelo con il placido eroismo delle comodità». I newyorchesi sanno che la tempesta arriverà e si preparano a stare in casa. Qualcuno, di fronte al susseguirsi dei titoli sensazionalistici dei giornali e degli avvertimenti concitati delle autorità, resta scettico fino a che non la vede arrivare con i propri occhi, ma alla fine si barrica in casa assieme a tutti gli altri e aspetta di guardarla passare.

Le precipitazioni si intensificano fino a raggiungere il proprio picco verso le quattro di mattina del sabato e il risveglio, per i molti che si sono addormentati con un velo di neve sui parabrezza delle auto, è al fischio del vento sugli alberi. Incattivito dalla piega degli eventi. Qualcuno, a Brooklyn, decide di cominciare a spalare per liberare le scale di ingresso, qualcun altro, più pragmaticamente, torna a dormire certo del fatto che per forse ventiquattro ore non ci sarà molto da fare. «Più ne raccolgo, più ne torna giù», è una delle voci che mi arrivano attraverso la finestra sulla strada mentre prendo la decisione materialistica di fregarmene ancora per un po’.

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Intorno alle nove del mattino è tutto bianco: strade e marciapiedi non si distinguono più e chi decide di uscire di casa lo fa camminando in mezzo alla strada per evitare di sprofondare nei cumuli di neve fresca spalati o sparati dai soffiatori elettrici. Ogni tanto una sirena fischia in lontananza, ma di auto non se ne vedono. Poco prima di mezzogiorno, mentre Brooklyn si chiude in un silenzio ovattato e brillante, il governatore Andrew Cuomo dichiara lo stato di emergenza. «Non c’è ragione di uscire di casa», dice attraverso i social il sindaco Bill De Blasio, «invito i concittadini a non farlo». Ragione o no, non ci sono molti posti dove andare. I bar tengono le serrande abbassate e i supermercati ormai sono mezzi vuoti, resta aperto qualche deli, ma solo perché i proprietari si sono barricati all’interno del negozio. Tutto il resto è lo specchio di una strana città fantasma i cui spettri si affacciano alle finestre e di tanto in tanto scendono a spostare un po’ di neve che ricomincerà ad accumularsi non appena si saranno chiusi la porta alle spalle, alla luce fioca dei lampioni che fa sembrare il paesaggio immerso nell’orzata.

Sui siti di informazione si susseguono le immagini della città imbiancata. Times Square sembra essere rimasto l’unico posto a tenere testa al bianco, con le sue prepotenti luci artificiali che spuntano dalle montagnole e privata quasi completamente dei turisti che di solito la intasano senza ritegno. I teatri sono tutti chiusi e gli spettacoli tutti rimandati. Central Park — e così Prospect Park a Brooklyn — è una lunga distesa simile a un paesaggio campestre di un dipinto di Valerius De Saedeleer, interrotto dagli spettrali alberi spogli e sorvegliato dal profilo golemico dei grattaceli che lo circondano, incerto oltre lo schermo biancastro che non vuole smettere di scendere. La neve è un pulviscolo uniforme che occupa interamente lo spazio visivo in qualunque direzione.

La neve cade placida illuminata dai semafori che continuano a fare il loro mestiere per nessuno

Alla una del pomeriggio del sabato, Cuomo impone il blocco della circolazione di superficie. Eccetto che per i mezzi di emergenza a nessuno è consentito mettersi in macchina. Poco dopo anche le linee metropolitane vengono parzialmente interrotte: i treni non possono viaggiare sulle tratte allo scoperto. I ponti sono chiusi e la città è definitivamente e inesorabilmente ferma. Lo rimarrà per le prossime dodici ore almeno.

A questo punto non resta davvero nient’altro da fare che aspettare. C’è chi scorre stancamente i notiziari e gli aggiornamenti e chi si affida alla gloriosa mano benefica di Netflix. Chi scende in strada lo fa con spirito esplorativo e trova i quartieri desolati. La neve cade placida illuminata dai semafori che, tanto stoicamente quanto inutilmente, continuano a fare il loro mestiere per nessuno. Qualche volta passa una spazzatrice con la benna sollevata, qualche volta un’ambulanza, qualche volta un ardito isolato che ha deciso di infischiarsene del blocco per tenere la macchina in moto evitando che venga seppellita. Altre si sono già trasformate in cumuli bianchi da cui spuntano gli specchietti o i tergicristalli alzati. Nel tardo pomeriggio una vasta porzione del Bronx rimane senza corrente, a Brooklyn la connessione Internet viene e va. Sotto il peso della precipitazione, la tettoia di un parrucchiere si schianta a terra in un turbinio bianco e leggero. Nessuno si ferma a raccoglierla. Piano, piano i fantasmi sfocati sotto i lampioni giallastri spariscono e a movimentare le strade non rimangono che il vento e i fiocchi di neve. Poi, intorno alle dieci di sera, anche quelli smettono.

Domenica il blocco del traffico è sospeso da circa due ore quando la via si popola di cercatori d’oro. Vanghe e pale per disincastonare le automobili dai blocchi di neve ghiacciata che le tengono imprigionate. Qualcuno si è convinto che spargendo il sale direttamente sopra quello che dovrebbe essere il tettuccio la neve si scioglierà da sola, con un po’ di tempo a disposizione. Il cielo è sgombro, limpido e rassicurante. Il sole, però, non sembra scalfire minimamente la crosta bianca che ha ammantato Brooklyn, Manhattan, il Bronx, Queens e Staten Island, depositando a Central Park più di sessantotto centimetri di precipitazione, un record secondo soltanto alla grande nevicata del 1869, riporta il National Weather Service. La noia è passata, la paura non c’è mai stata. Ora bisogna scavare per tirare fuori la città dal suo nuovo involucro congelato e anche questo i newyorchesi lo fanno con stanca e paziente abitudine.

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La neve rende tutto uguale e tutti ugualmente produttivi. I camerieri spazzano ai piedi delle serrande per poterle aprire, mentre una piccolo drappello di clienti abituali resta in attesa di cominciare la domenica come ogni domenica, scambiandosi aneddoti sul sabato più claustrofobico dell’anno. «Ho ordinato la colazione su Seamless», dice una ragazza. «Dopo quattro ore mi hanno comunicato che non avrebbero potuto consegnarmela. Ho apprezzato lo sforzo». C’è chi si è scontrato con la connettività e chi aspetta un volo dalla California con più di dodici ore di ritardo, uno dei quasi settemila cancellati tra sabato e domenica. Un gruppo di ragazzi molto giovani, ispanici, spala l’ingresso di un ristorante messicano in maniche di maglietta, ridacchiando come se fosse il gioco più noioso del mondo. Due amici cercano di liberare un’automobile con la pazienza di un team di paleontologi alle prese con con il calco di uno scheletro di un milione di anni. Ogni volta che passa una spazzatrice gliela ricopre per metà. «Non hanno rispetto», commenta uno dei due. «Fanno quello che devono fare», risponde l’altro. «Scava più veloce». Alcuni si avviano verso i parchi con uno slittino o una tavola sottobraccio, altri si avviano a passi lunghi verso la messa, molti si fermano sui sagrati per aiutare a liberare gli ingressi delle chiese cantando. Qualcuno va a lavorare, come sempre.

Nella notte sono morte diciannove persone, spalando o guidando. Ci sono stati più di quattrocento incidenti e la polizia ha sequestrato trecento auto che giravano illegalmente. Nella settimana prima della tempesta decine di rifugi per senzatetto hanno diffuso appelli e raccomandazioni per chi non potesse contare su quattro mura riscaldate e un pasto caldo. Venerdì molti degli stanzoni attrezzati e degli spazi messi a disposizione dalle congreghe religiose erano già al completo. Nella giornata di sabato decine di migliaia di volontari hanno lavorato per salvare le vite di chi non aveva altro conforto. C’è chi ha dormito in metropolitana, chi per farcela non ha dormito affatto. A qualcuno hanno sparato sulla Van Wyck.

Foto di Astrid Riecken, Yana Paskova, Jamie McCarthy (Getty Images).