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Dalle rovine di Luciano Funetta, Tunué e Il grande animale di Gabriele Di Fronzo: perché romanzi così difficili da incasellare conquistano critica e pubblico?
Da qualche mese a Milano capita di incontrare gente, perlopiù giovani designer, giornalisti e autori televisivi, ma anche molti universitari, con in tasca un libro dalla morbida copertina nero-viola, al centro della quale è ritratto lo scheletro di un serpente. È uno strano romanzo, scritto da un ragazzo pugliese di trent’anni che ha passato gran parte della vita a guardare i film di Tod Browning e a leggere Juan Rodolfo Wilcock. Si chiama Luciano Funetta, e con Dalle rovine è tra i dodici finalisti del Premio Strega di quest’anno.
La risolutezza con cui Funetta si muove dentro il proprio universo rischia inoltre di sembrare inconcepibile a chi come me, e come alcuni degli scrittori che hanno esordito con me una decina di anni fa, ha tentato sì di indagare l’immaginario orrorifico, ma sempre a partire da un discorso politico e da un riferimento che a noi pareva essere l’unico accettabile: quello di Pasolini. In Funetta l’apparato politico non esiste, l’osceno non serve a rinviare a qualcos’altro. Siamo in una stanza, e un uomo nudo si lascia persuadere dalle proprie pulsioni senza alcuna considerazione interiore, senza l’ombra di un contingente sociale, succube di qualcosa a metà strada fra l’Ate dei greci e l’arte per l’arte di Gautier. Perché, allora, attrae così tanto sia i lettori che le lettrici?
Qualcosa di nuovo
Qui è necessaria una prima sostanziosa parentesi, visto che l’interesse per il romanzo di Funetta è in questi mesi andato di pari passo con quello per Il grande animale di Gabriele Di Fronzo (edizioni nottetempo), la storia di un tassidermista solitario che, in seguito alla morte del padre, decide di imbalsamare la casa in cui ha trascorso con lui gli ultimi mesi della sua vita. A gennaio Marco Peano e io abbiamo presentato il libro di Di Fronzo al Circolo dei lettori di Torino, e alla fine dell’incontro il firmacopie dell’autore è durato due ore e non sono bastati i libri. Chi chiedesse a Di Fronzo, classe 1984, quali sono i suoi autori di riferimento, si sentirebbe snocciolare pressappoco la stessa lista di Funetta: «Pierre Mac Orlan, Jean Philppe Toussaint, Ogawa Yoko, Jean Echenoz, H.G. Wells, Fleur Jaeggy, Roberto Arlt, Julio Cortázar, Edgardo Franzosini». Sembrerebbero non esistere, nella loro formazione, i soliti Don DeLillo, David Foster Wallace, Philip Roth, men che meno Pasolini, che pure avranno letto, apprezzato e debitamente digerito.
Un discorso analogo poteva farsi anche a metà anni Novanta, quando uscirono Occhi sulla graticola di Tiziano Scarpa, Woobinda di Aldo Nove, Fluo e poi Destroy di Isabella Santacroce, tutti romanzi o racconti che attingevano a piene mani alla cultura americana (e che in Italia guardavano solo un po’ a Busi, Arbasino e Balestrini), e che avevano in comune la maggior parte degli argomenti: la televisione, la pubblicità, i manga, la musica. Libri che hanno comunque retto al tempo, e che a sfogliarli oggi non sono minimamente invecchiati. Alcuni romanzi degli ultimi anni hanno invece preceduto il “genius” di questa ondata di singolarità del tutto estranea agli autori sopra citati, e ora riapparsa con Funetta e Di Fronzo: Sirene di Laura Pugno, La casa madre di Letizia Muratori, Zoo col semaforo di Paolo Piccirillo, Settanta acrilico trenta lana di Viola Di Grado, Mio salmone domestico di Emmanuela Carbé, recentemente Panorama di Tommaso Pincio, Questa vita tuttavia mi pesa molto di Edgardo Franzosini e Il cinghiale che uccise Liberty Valance di Giordano Meacci.
Che cosa lega questi testi così diversi fra loro? Si tratti di sirene dai capelli azzurri che abitano il mare in un futuro distopico o di bambine che si fingono madri delle proprie bambole Cabbage Patch, di salmoni che si insediano in casa tua e dettano legge come i personaggi di Edward Gorey o di artisti stralunati che vivono negli zoo, questi libri evocano sin dalle prime pagine, con una certa demonicità, qualcosa che non ci viene raccontato in linea retta, ma cui si allude. O meglio: tutto ci viene detto così com’è, e (fatta eccezione per Meacci, il più virtuoso) con un’immediatezza di stile molto atipica nella cultura italiana; ma ciò che ci viene raccontato di un personaggio o di una data situazione vuole dirci sempre qualcos’altro, e che sia la maternità o il problema dell’antropizzazione, ce lo dice assai di traverso, al punto che rimane difficile interpretare il sottotesto, perché non si sa bene quale sia il testo. Se ne coglie il glamour, l’appeal, se ne intuisce il magnetismo. Tra le righe il messaggio sembra essere: il presente così com’è non si racconta, tentare di cogliere l’imprendibilità della contingenza è da sciocchi, e comunque alla lunga infastidisce i lettori. Non è un caso se uno scrittore originale come Vanni Santoni ha individuato subito questa nuova inclinazione, e ha contribuito a darle i connotati di una scuola all’interno di Tunué, dove è editor per la narrativa italiana dal 2014.
La Tunué
Spesso si dice che una casa editrice di qualità è un “progetto”, parola che, se vista nella sua connotazione architettonica, presuppone un riparo. Così come si progetta una casa affinché le intemperie non minaccino chi vi abita, e se ne delineano gli spazi sulla carta, gli editori scelgono cosa inserire nel proprio catalogo sulla base di una minaccia esterna. Nove volte su dieci la minaccia è pretestuosa, o comunque è una minaccia che hanno prima individuato altre forme di comunicazione parallele all’editoria (la minaccia della televisione, delle ideologie, ma anche la minaccia della “leggerezza”, dell’“immediatezza”), forse una prima ragione per cui gli editori italiani negli ultimi anni sono stati più reattivi che idiosincratici. La prima reattività è avvenuta all’inizio degli anni Duemila proprio nei confronti degli autori che furono chiamati “cannibali”, e il tentativo di normalizzazione delle scelte successive è stato talmente disastroso che nel giro di pochi anni quegli stessi autori sono tornati prepotentemente in carica, divenendo gli scrittori di riferimento della generazione dei nati negli anni Ottanta e Novanta.
Ma quando una minaccia di grande portata aumenta, ad esempio comincia a riguardare il futuro stesso dei libri, quando cioè il senso della fine si approssima, la progettazione non basta più: è necessario l’ornamento. In questo discorso la storia dell’architettura è forse più utile di quella della letteratura. L’uomo decora e abbellisce quanto più ha paura. Molti editor, anche all’estero, si sono mossi in modo bipolare dinanzi a questa percezione: collane per l’ornamento giocoso, e collane per le cose serie. Non ha sempre funzionato. Perché? Perché gli autori di là da venire – e cioè quelli attuali – avrebbero deciso da soli di intraprendere il percorso dell’ornamento, sotto le forme del camp più estremo, del divertissement, delle ucronie, della commistione goliardica tra i generi, delle storie-sogni e delle lentificazioni, e mai funzionalmente a un progetto pedagogico. Questa cosa andava respirata subito, compresa subito, ma in Italia sembra che non si possa chiedere né al sistema editoriale né a quello cinematografico di compenetrare l’aria del tempo. Tunué rappresenta una felice eccezione, in grado di convivere, pacificamente, con case editrici di sensibilità per alcuni versi affine come minimum fax, marcos y marcos e nottetempo.
Funetta, Gabriele Di Fronzo, e dopo ancora l’ultimo libro di Giordano Meacci. Da marcos y marcos, nel frattempo, è in uscita Io e Henry del venticinquenne Giuliano Pesce, storia davvero adorabile del paziente di una clinica psichiatrica che confida a un giornalista conosciuto per caso di essere un agente segreto. Deve recuperare il Registro-01, ossia il più importante documento nella storia dell’umanità. Fuggiranno insieme verso Roma, a bordo di una Panda, per andare alla festa della contessina Kosinceva, in possesso di informazioni sul prezioso registro. Un romanzo del genere mi costringe ad ammettere, un po’ a denti stretti, che in fondo la regola cui obbediscono Funetta, Di Fronzo, Pesce e tutti gli altri è soprattutto una: divertirsi. Ma il discorso resta più complicato di così.