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L’attacco russo al mondo libero, Facebook, la Casa Bianca e noi

Alla vigilia del summit fra Putin e Trump, dodici russi incriminati per aver sabotato le elezioni Usa. Ora il rischio è per quelle di midterm e per le europee.

di Christian Rocca

TOPSHOT - Russian President Vladimir Putin has a telephone conversation with Patriarch Bartholomew I of Constantinople from his residence in Ankara on April 3, 2018. / AFP PHOTO / Sputnik / Mikhail KLIMENTYEV (Photo credit should read MIKHAIL KLIMENTYEV/AFP/Getty Images)

I governi occidentali e le grandi aziende della Silicon Valley non sono riuscite ad evitare gli attacchi di agenti stranieri, prevalentemente russi, ai processi democratici americani ed europei del 2016 e degli anni successivi. Si può discutere sull’impatto reale di queste ingerenze sulle elezioni dell’Occidente libero, e se effettivamente siano state decisive per far uscire la Gran Bretagna dall’Europa, per eleggere Donald Trump alla Casa Bianca, per fermare le riforme italiane, per disarcionare i governi riformisti europei e sostituirli con maggioranze populiste, ma il dato certo è che le intromissioni straniere ci sono state. Lo sostengono sedici agenzie americane di sicurezza nazionale e quelle di buona parte dei paesi europei, lo dicono i governi dell’Unione finiti sotto attacco e anche quello britannico.  E ora è arrivata l’incriminazione di dodici cittadini russi da parte del procuratore Robert Mueller per aver violato i server del Partito democratico americano e sabotato le elezioni presidenziali del 2016.

Queste ingerenze sono state di natura analogica, sotto forma di elargizioni di denaro, di patti politici e di propaganda vecchio stile, ma anche di natura digitale con attacchi hacker alle macchine elettorali degli stati americani, con la produzione robotica di fake news, con la fabbrica di troll a San Pietroburgo, con i rapporti ambigui tra Mosca e Wikileaks, con l’abuso dei dati personali sottratti alle grandi piattaforme digitali esploso con il caso di Cambridge Analytica e cosi via.

Il mondo occidentale se ne è accorto lentamente e, malgrado non abbia ancora una risposta cogente per contrastare l’attacco, perlomeno ora ha una maggiore consapevolezza della strategia del caos elaborata da Vladimir Putin. L’ex vicepresidente americano Joe Biden, con un articolo del dicembre 2017 su Foreign Affairs, aveva spiegato bene le mire del Cremlino, ma da numero due dell’Amministrazione Obama non aveva fatto molto di più che accorgersi dell’attacco russo in corso e l’assenza di una denuncia perentoria di quanto stava accadendo riguardo alla sfida Trump-Clinton rimarrà uno dei punti dolenti dell’eredità politica di Obama. La Casa Bianca di allora era convinta che nonostante tutto Hillary avrebbe prevalso su Trump e quindi ha scelto di agire sotto traccia contro i russi per evitare di essere accusata di voler favorire il candidato del Partito democratico sull’immobiliarista di New York.

Non è andata così e ora gli ex membri dell’Amministrazione Obama, soprattutto quelli che spingevano per una risposta dura agli attacchi russi, ma anche le colombe che hanno sostenuto la linea morbida del presidente, si mangiano le mani. Ben Rhodes, vice consigliere per la Sicurezza nazionale di Obama, nel suo recente libro The World as it is, ha raccontato come Barack Obama e Matteo Renzi abbiano parlato durante un colloquio alla Casa Bianca anche delle ingerenze russe sul voto italiano: «Stanno facendo in Italia le stesse cose che fanno qui», avrebbe detto Renzi al presidente americano, il quale avrebbe offerto all’alleato italiano un sostegno dell’Amministrazione altrettanto blando quanto lo sforzo per fermare l’attacco russo agli Stati Uniti.

 

Com’è cambiata la situazione

Oggi la situazione è diversa. Sono tutti consapevoli del progetto di Putin, anche se manca ancora una strategia unitaria di governi e industria digitale. Qualcosa però è stato fatto: sono state mantenute le sanzioni economiche anti Mosca, adottate per l’invasione russa dell’Ucraina e ora rinnovate con maggiore forza; sono stati espulsi alcuni diplomatici del Cremlino; è stato impedito l’ingresso in Gran Bretagna a dei cittadini russi; è partita un’inchiesta americana sui rapporti tra Mosca e il team Trump; sono state bloccate le trame oscure di Cambridge Analytica; è stata approvata una direttiva dell’Unione europea contro l’abuso dei dati personali in possesso dei social network; è stato avviato un grande dibattito politico, sociale e culturale sull’impatto delle piattaforme digitali sulle società libere, con tanto di audizioni pubbliche dei vertici di Facebook al Congresso americano e al Parlamento europeo.

In controtendenza, per ora, c’è solo il nuovo governo nazional-populista italiano formato da due alleati del partito Russia Unita di Putin e la cui piattaforma di politica estera è sovrapponibile a quella del Cremlino: rimozione delle sanzioni alla Russia, ostilità nei confronti dell’Unione europea e della Nato, bordate contro l’Euro e fine della solidarietà tra gli alleati storici. E a ottobre, ha annunciato con grande fierezza il premier Giuseppe Conte su Twitter, la ritrovata unione di intenti italo-russa sarà celebrata con una visita ufficiale del governo italiano al Cremlino.

La reazione dunque c’è stata, ma è ancora ampiamente insufficiente per scongiurare un altro attacco al cuore dell’occidente in occasione delle prossime elezioni di metà mandato americane a novembre e alle Europee del prossimo anno. Vedremo se, il 16 luglio, al vertice in Finlandia tra Trump e Putin se ne parlerà, come promettono gli americani. Ma già fa discutere che i due leader abbiano deciso di incontrarsi preliminarmente senza traduttori e senza consiglieri, inserendo un elemento di mistero al summit tra un presidente sospettato di aver aiutato ad eleggere l’altro.
Intanto i due player più importanti, quelli con potenziale e risorse in grado di prevenire e respingere gli attacchi russi, ovvero la Silicon Valley e il governo di Washington, continuano a restare disconnessi e a non lavorare insieme per evitare che l’influenza russa o di qualche altro attore straniero possa ripetere l’exploit del 2016 anche in occasione delle prossime tornate elettorali.

Secondo la CNN, a due anni dall’elezione di Trump il sistema americano è ancora vulnerabile: nella Silicon Valley pensano che la responsabilità sia delle agenzie di intelligence che non si fidano in pieno dei colossi tecnologici e non condividono con loro le informazioni necessarie a prevenire l’ingerenza straniera. A Washington, invece, credono che Facebook e Google siano meglio equipaggiati dei servizi segreti per monitorare le attività sospette sulle loro piattaforme e lamentano di non avere accesso ai dati a loro disposizione.

Questo rimpallo di responsabilità arriva direttamente al cuore della Casa Bianca: sia le aziende della Silicon Valley sia i servizi americani credono che manchi una risposta strategica nazionale da parte di un’Amministrazione Trump molto restia, se non addirittura contraria, a riconoscere la gravità del problema perché metterebbe in discussione la legittimità del voto del 2016.

 

Qualcosa si muove?

Nonostante ciò qualcosa si muove, più che altro su iniziativa di Facebook e delle associazioni che curano gli interessi dell’industria digitale. Sebbene il colosso fondato da Mark Zuckerberg non abbia ancora risposto a tutte le richieste di chiarimento poste dal Congresso, e anzi abbia ammesso di aver fornito dati sensibili a società cinesi considerate una minaccia per la sicurezza nazionale dall’intelligence americana, sembra comunque che Facebook voglia evitare di trovarsi nella situazione imbarazzante degli ultimi due anni. A fine maggio, ha svelato il New York Times, Facebook ha ospitato nella sua sede di Menlo Park un incontro con altre grandi aziende tecnologiche e con funzionari dei servizi di intelligence e il fatto stesso che l’incontro si sia tenuto nella sede di Facebook e non al Dipartimento di Sicurezza Nazionale o all’Fbi, secondo la Cnn è già una risposta alla domanda su quale dei due attori americani sia più interessato ad affrontare la questione seriamente. All’incontro di Menlo Park hanno partecipato le 8 principali aziende tecnologiche americane, Amazon, Apple, Google, Microsoft, Oath, Snap, Twitter e ovviamente Facebook. Dall’altra parte del tavolo c’erano un sottosegretario della Homeland Security e il responsabile della nuova divisione dell’Fbi denominata “influenze straniere”.

Si è trattato di un primo tentativo di coordinamento strategico, ma secondo quanto risulta al New York Times l’atmosfera dell’incontro non è stata serena: le aziende digitali hanno segnalato alcune campagne di disinformazione in corso ma alla richiesta di specifiche informazioni di intelligence per prevenire le minacce future si sono visti opporre un secco rifiuto da parte degli agenti federali. La sensazione è che Silicon Valley e Washington continueranno ciascuno per conto proprio a fermare l’interferenza straniera sulle elezioni di midterm, col rischio di ripetere il patatrac del biennio precedente. I riflettori sono puntati soprattutto su Facebook, lo strumento più usato dai russi per influenzare le elezioni del 2006 attraverso l’acquisto di spazi pubblicitari e l’apertura di pagine social per diffondere disinformazione (e ora sotto indagine americana per aver ceduto i dati personali di 71 milioni di persone a Cambridge Analytica).

Ma con l’inchiesta Mueller sui rapporti tra i russi e Trump in dirittura d’arrivo, probabilmente poco prima delle elezioni di novembre, l’impegno molto blando dell’attuale presidente americano nel contrastare la campagna russa contro l’Occidente potrebbe tornare di grande attualità.

 

Nelle immagini: il consolato americano a San Pietroburgo; Vladimir Putin nel suo ufficio; un cartello di protesta durante un comizio di Trump (Getty Images)