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Piantare miliardi di alberi non salverà il pianeta

Sono serviti diversi anni per capire che gli alberi, indipendentemente dal numero, non potranno compensare decenni di combustibili fossili. Nel frattempo alla politica lo storytelling del miracolo è piaciuto e potrebbe essere di nuovo troppo tardi.

di Ferdinando Cotugno

Era l’anno 2019 e il mondo era molto più semplice di quello attuale quando dal Politecnico di una delle città più ricche e costose del mondo qualcuno se ne venne fuori con un’idea stuzzicante: e se la soluzione alla crisi climatica fosse piantare mille miliardi di alberi? Il 2019 fu l’anno del clima, la nostra prima educazione sentimentale collettiva al problema. Familiarizzavamo con Greta Thunberg ed Extinction Rebellion, le emissioni crescevano e l’apocalisse al rallentatore era la novità culturale dell’anno. Un problema di una complessità strabiliante, sul quale sbatteremo la testa ancora a lungo, ma ci furono settimane in cui ci era stato offerto l’equivalente di un vaccino, una soluzione a somministrazione singola: piantare alberi. Ma non piantare semplicemente degli alberi. Piantare un oceano di alberi, un’Atlantide di alberi, un triliardo virgola due di alberi, un numero così grande da essere paradossale. Il proiettile d’argento per eccellenza: il pianeta sta collassando per un eccesso di carbonio in atmosfera, gli alberi assorbono quel carbonio, basta immaginarne un numero abbastanza grande da far tornare tutti i conti. La cura dimagrante miracolosa del mondo, sette chili di CO2 in sette giorni. Boom. Arrivava dal Politecnico federale di Zurigo e da un millennial ecologo forestale gallese molto bravo con i media e i TED Talk (vera red flag contemporanea) di nome Thomas Crowther. Piantare un triliardo di nuovi alberi sarebbe stata la singola soluzione che più ci avrebbe aiutato contro i cambiamenti climatici, diceva lo studio. Boom, dicci di più Thomas.

Dieci anni prima (in un altro famoso TED Talk, per altro) la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie ci aveva avvisato del pericolo delle «storie singole» usate per capire il mondo. Forse qualcuno avrebbe dovuto avvisarci anche del rischio delle «soluzioni singole» a problemi complessi, uno schema che potremmo applicare a un mucchio di discorsi sui quali ci stiamo attualmente rompendo la testa. Se la tua idea si può spiegare in una frase, sembra facile da applicare e sembrano tutti pazzi a non averci pensato prima, forse non è l’idea giusta. Però sono una tentazione enorme a costo apparentemente zero. L’idea funziona quasi come una magia: che dai calcoli di qualcuno, in un ateneo ben finanziato e con un ottimo ufficio stampa, possa uscire LA soluzione.

L’impatto culturale e politico del triliardo di alberi è impossibile da sottovalutare, nelle scienze del clima è l’equivalente di Friends, la serie che non riusciamo a smettere di guardare anche se era tutto sbagliato e improbabile. Col tempo è stata confutata con un’aggressività non comune nel mondo accademico e alla fine in parte ritrattata dagli stessi scienziati che l’avevano proposta. I calcoli erano forzati, non c’era abbastanza suolo sulla Terra per un progetto del genere, avrebbe danneggiato gli ecosistemi, la biodiversità e le comunità locali, e ci avrebbe dato una pericolosa illusione di sicurezza. Non serve a niente piantare un triliardo di alberi in un mondo che brucia, perché poi bruciano anche gli alberi.

Nel mondo accademico il ciclo di credibilità di questa ipotesi è durato una stagione, ma in quello politico è ancora in circolo. Prima che lo studio fosse stato ritrattato aveva conquistato una legione di fan, tutti intossicati dal potenziale della Soluzione Singola. È facile dire Donald Trump, ma partiamo da lui. A Trump, il negazionista climatico più nocivo al mondo, la soluzione del triliardo di alberi piaceva da impazzire, era proprio una cosa che poteva venire in mente a un concorrente di The Apprentice. Firmò un ordine esecutivo per piantare questo triliardo di alberi e si fece anche fotografare insieme a Melania mentre ne metteva a dimora uno nel giardino della Casa Bianca. Non c’è un solo dettaglio che in quella foto non sia invecchiato malissimo, Trump, il suo matrimonio, il gesto, la scienza dietro il gesto. Forse solo la vanga è ancora attuale.

La filiera che collegava il Politecnico di Zurigo a Trump era stata oliata da Marc Benioff, il capo di Salesforce, gigante del cloud computing. Benioff aveva trasformato la ricerca in un PowerPoint e l’aveva mostrato al presidente durante un meeting del World Economic Forum a Davos. Un elevator pitch di discreto successo, ma anche una bella storia per un prossimo film di Aaron Sorkin. Il miliardario che si batte per piantare un triliardo di alberi nel Sud globale per garantire che lo stile di vita nel Nord globale rimanga immutato e convince il presidente degli Stati Uniti ad appoggiarlo è anche una delle immagini più chiare del fallimento di ogni decolonizzazione. Va detto, con maggiore imbarazzo, che anche Mario Draghi abbracciò la Singola Soluzione con entusiasmo. Prima della COP26 di Glasgow si tenne un G20 a presidenza italiana a Roma tutto sul clima. Doveva essere il volano, l’innesco della grande trasformazione, a cura delle venti economie più grandi, ispirate dall’uomo che aveva salvato i conti dell’Europa. E per cosa si spese Draghi come centro, leva, punto di accensione? Ecco, il triliardo di alberi, punto più importante delle risoluzioni climatiche del G20 italiano, prova che essere competenti di politica monetaria non per forza ti fa comprendere tutto il resto. Whatever it takes, but it was not enough.

Il piano continua a vivere come una policy zombie, ridotto allo status di inside joke per iniziati, mentre Crowther e il suo team del Politecnico questa settimana hanno pubblicato su Nature una nuova versione di quello studio, molto meno populista e sexy: gli alberi ci possono aiutare, ma siamo noi a dover tagliare le emissioni di CO2. Proprio come la vita sentimentale dei single, la transizione ecologica dell’umanità non è un compito delegabile alle piante. Nemmeno a tantissime piante. Proporre di piantare alberi per risolvere la crisi climatica è una struttura ricorsiva, ha lo stesso valore di chi, di fronte a una guerra inestricabile, dice: dobbiamo cercare una soluzione diplomatica. Ma certo. Ma grazie. Le foreste sono indispensabili per contenere l’aumento di temperature, ma servono molte altre cose, a partire dall’eliminazione in trent’anni dell’uso dei combustibili fossili. «Siamo terrorizzati all’idea che il potenziale della natura possa essere usato male. Sarebbe devastante se le organizzazioni più importanti usassero la natura come scusa per danneggiare ancora di più il pianeta», ha chiosato lo stesso Crowther. Arco di redenzione non male.

Il nuovo studio stima in 226 gigatonnellate il carbonio che può essere assorbito dalle foreste, e mette una serie di cartelli di buon senso, quattro anni dopo la grande euforia: le foreste vecchie e nuove sono anche vittime della crisi climatica, siccità, incendi, malattie. Inoltre: dobbiamo proteggere quelle che stiamo perdendo, invece di piantare un continente nuovo tutto fatto di alberi. Il paper, pubblicato su Nature, chiude la stagione del populismo degli alberi, ma non la mistica della Soluzione Singola. Ne sono anzi arrivate altre, nel frattempo. Ci sono quelle care ai lobbisti del petrolio (grandi impianti industriali di cattura e stoccaggio della CO2, lo chiameremo il lodo Tony Stark) e quelle da visionari (la geoingegneria planetaria su vasta scala: la distopia Snowpiercer comincia esattamente così e finisce con tutta l’umanità chiusa su un treno e l’attuale ministro competente per l’Italia è Salvini). Ne arriveranno altre, progetti di ricerca tramutati in PowerPoint da venti efficacissime slide o vivaci TED Talk da venti minuti che ti fanno uscire galvanizzato e trasformato, convinto che abbiamo finalmente trovato il bottone giusto. Qualcuno ci cascherà, poi rinsaviremo di nuovo.

Nell’immagine di copertina, una foto di Jim Watson/Afp via Getty Images