Cultura | Musica
Chi ha bisogno del tormentone estivo?
La canzone dell'estate è una fissazione tutta italiana. E si costruisce ricorrendo a sei ingredienti principali: ecco quali.
Una festa in piscina a Burriana, Spagna, il 3 agosto 2018 (Jose Jordan/Afp/Getty Images)
In questo Paese si delibera trecento giorni l’anno su tantissimi busillis, poi per fortuna arriva l’estate, e anche le Camere vanno in vacanza, e resta solo la questione più calda: qual è il tormentone dell’anno? Mica facile rispondere, ogni anno la situazione si complica, ma visto che è da anni che dura, almeno adesso abbiamo imparato qualcosa: come si confeziona un tormentone. Una prima ricetta l’ha condivisa l’anno scorso OEL, che sarebbe Leo, che sarebbe quello del piccolo cult “Le focaccine dell’Esselunga”, che sarebbe pure il figlio di Claudio Cecchetto. Dal “Gioca jouer” al suo “Pezzo reggeaton“, così si chiama perché difatti recita che d’estate «mi serve un pezzo reggeaton per fare successo, parole a caso in spagnolo, chica, hola, como estas, todo bien?». Il punto è già ampiamente centrato. Provate ad accendere la radio: siamo diventati la Colombia. E non perché passano ogni tre minuti Pedro Capó e Paulo Londra (quest’anno ho imparato moltissime cose), ma perché ci si sono messi pure i nostri a fare le basi reggaeton, appunto, e non ne veniamo fuori più.
Questo è il primo ingrediente, l’esotismo che ne consegue (o che l’ha prodotto) non ce lo leviamo di torno dai tempi di “Roma-Bangkok“, il singolo iniziatore, il prototipo, la numero uno di Paperon de’ Paperoni. In realtà gli esotismi geografici non riguardano solo i tormentoni estivi, hanno investito un po’ tutta la musica italiana, vado a memoria: “Nero Bali” di Elodie, Michele Bravi e Gué Pequeno, “Bolivia” di Francesca Michielin, la Lonely Planet dei Thegiornalisti è passata da “Pamplona” a “Riccione” a “New York”, Gazzelle ha appena scelto la “Polynesia” (con la ipsilon: ancora più esotico), Takagi & Ketra è da due stagioni che prendono lo stesso charter anni ’90 insieme a Giusy Ferreri: “Amore e capoeira” prima, “Jambo” adesso. Baby K, fu l’anno scorso «andale andale / portami giù dove non si tocca / dove la vida è loca» (“Da zero a cento”, vedi alla stessa voce: parole a caso in spagnolo), la tallona quest’anno con “Playa”: la musica, la playa, l’estate, la festa, altre parole a caso. “Ostia Lido” di J-Ax, forse la maggiore candidata al titolo di tormentone 2019, tenta la parodia dei viaggi intercontinentali di quegli altri, ma in fondo suona uguale (chica, hola, como estas, todo bien?).
Tra gli esotismi metterei pure quelli gastronomici e alcolici, certamente non gourmet. A questo giro ci sono “Avocado Toas”t di Annalisa, “Margarita” di Elodie e Marracash, “Tequila” e “San Miguel” di Loredana Bertè; l’altr’anno c’era “Moscow Mule” di Benji & Fede. Tangenzialmente entrano nella mischia esotica pure “Calipso” di Charlie Charles, Dardust, Mahmood, Sfera Ebbasta e pure Fabri Fibra: tra i vicoli di Napoli, ma con trombette tropical. E “Maradona y Pelé” dei Thegiornalisti. E anche “Mambo salentino” dei Boomdabash con Alessandra Amoroso ha un mood, come si usa dire, sufficientemente esterofilo: in fondo Otranto è la nostra Miami. Dunque ecco il secondo ingrediente: un titolo stile nomi-cose-città, un Saltinmente fatto di associazioni libere di idee, va tutto bene purché suoni forestiero. Altrove griderebbero alla cultural appropriation: Kim Kardashian è appena stata fatta a pezzi dai giapponesi perché la sua futura linea di intimo si sarebbe dovuta chiamare Kimono. Ha poi annunciato su Instagram che sceglierà un altro nome. Fortuna l’Italia è l’ultimo Paese del mondo e nessuno s’accorge dei saccheggi culturali che operiamo da queste parti. Giusy un anno è nella favela, quello dopo nella savana, e va benissimo così.
Il terzo ingrediente sono gli autori fantasma. Fino a qualche anno fa non esistevano, cioè c’erano ma nella forma di deejay truzzi che poi smaniavano per essere essi stessi annoverati nel gruppone delle star, Bob Sinclar, David Guetta e tutti gli altri. Adesso le firme delle canzoni possono anche non avere una faccia, chi se ne importa. Conoscete i tratti somatici di Takagi & Ketra? Certo che no, basta il brand. Takagi & Ketra è come il marchio DOP sulle canzoni dell’estate, l’Eataly del ritornello che ti si appiccica al cervello. È il «Quentin Tarantino presenta» delle nostre ferie. Tra le firme fantasma ci sono anche i superproduttori parimenti senza volto o quasi, impazza il talentuoso Dardust: ha un magnifico progetto musicale da solo, cercatelo in giro, ma quando ha a che fare coi successi pop si occulta dietro alle star e alle starlette anch’egli come impalpabile certificazione d’autore. Oggi, difatti, tutti lo vogliono. È anche tra gli artefici di “Nuova era” di Lorenzo Jovanotti, che è passatissima dalle radio, ma si può definire tormentone estivo? Certo che no, è roba troppo buona, il tormentone è cazzone per definizione (altro ingrediente: siamo al quarto, dunque).
Il quinto ingrediente accomuna i tormentoni di tutto il mondo, a patto che nel mondo esistano: altrove mica c’hanno due (facciamo tre) mesi di vacanza. Il quinto ingrediente, dicevamo: non ci sono più le popstar di una volta. Da un parte c’è il deejay/producer, meglio se in coppia. Dall’altra c’è l’influencer della musica, meglio se donna. L’Influencer Della Musica, mettiamo le maiuscole, è la vera protagonista del nostro tempo. Prendiamo un esempio di popstar classica: Madonna. La signora è appena uscita con un gran bel disco, Madame X, che ha l’aria e la forma dei dischi di una volta (salvo la concessione alla geografia nel primo singolo: “Medellín”). C’è un’ispirazione a fare da miccia (la nuova vita a Lisbona), una ricerca musicale, un progetto cucito da e su un’artista con una storia che cambia col passare dei decenni. L’album della regina spunta così in questo strano tempo e fa uno strano effetto: perché oggi i dischi non importano più a nessuno. Ora si sfornano singoli (tormentoni?) a nastro, si salta da un progetto all’altro, da un genere all’altro, da un produttore all’altro. Le nuove stelline non sono cantanti: sono influencer, appunto. La followatissima Selena Gomez, e Bebe Rexha, Halsey, Julia Michaels, Camila Cabello (dalla rétro-cool “Find U Again” con Mark Ronson alla spanish-patinata “Señorita” con Shawn Mendes in un battito di ciglia!), fino alla regina indiscussa della categoria, cioè Rita Ora, un po’ cantante, un po’ attrice (era la sorella di Christian Grey nella saga Cinquanta sfumature), un po’ testimonial (pure del marchio Material Girl di Madonna: cortocircuito!), un po’ prezzemolina delle feste e dei tappeti rossi.
Si sa che con la musica da sola non si campa più, non ci riescono manco Rihanna e Beyoncé diventate imprenditrici non certo da “over” come Madonna con i belletti e le palestre, figurarsi questa nuova leva. L’ingrediente-influencer, nel frattempo, ha preso piede anche da noi. La regina è Elodie, ora in radio con “Margarita” (mi piace moltissimo) e pochi mesi fa insieme ai The Kolors in “Pensare male” (mica brutta pure quella). E in fondo anche Giusy Ferreri, partita come interprete italiana genere classicone, oggi ha successo soprattutto quando s’aggrega a una cumpa: “Avventure nel mondo” con Takagi & Ketra. Ricapitolando. Primo ingrediente: il pezzo reggaeton. Secondo: nomi-cose-città. Terzo: gli autori/produttori fantasma. Quarto: lo scazzo. Quinto: le Influencer Della Musica. Manca l’ultimo: il fatto che siamo stupidissimi. È quello che determina tutto. È quello che ogni anno rinnova la campagna per l’elezione del tormentone dell’estate (ma davvero c’interessa il vincitore? È come per le elezioni quelle vere, si vota per fare caciara, mica per fare i governi). È quello che tiene in piedi la musica estiva italiana e i suoi soli all’orizzonte, i tramonti sudamericani, i Puerto Rico citati a caso. Altrimenti non balleremmo «cercavo un mare calmo e ho trovato te» come fosse la canzone più bella del mondo. O, forse, lo è per davvero.