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02:18 mercoledì 26 marzo 2025
È stato ritrovato il pilot dei Griffin, che tutti pensavano fosse andato perduto 30 anni fa. La scoperta l'ha fatta un utente del sito Lost Media Community, che lo ha subito pubblicato su YouTube.
La sorprendente somiglianza tra Jude Law e Vladimir Putin nella prima immagine del film Il mago del Cremlino. Diretto da Olivier Assayas, è l'adattamento del romanzo omonimo di Giuliano da Empoli.
I ministri di Trump hanno aggiunto per sbaglio un giornalista in una chat in cui si discuteva di bombardamenti in Yemen. E non un giornalista qualsiasi: il direttore dell'Atlantic Jeffrey Goldberg.
Hamdan Ballal, uno dei registi di No Other Land, è stato aggredito dai coloni in Cisgiordania e sequestrato dall’esercito israeliano. Al momento non si sa dove sia né in che condizioni versi.
Herbie Hancock ha detto che non fa un album da 15 anni perché si distrae continuamente con YouTube. «Sono vittima di questa cosa, ma che ci vuoi fare, è la vita», ha detto in un'intervista a Bbc.
Su YouTube è uscito il sequel di Leaving Neverland, il documentario sui presunti abusi sessuali commessi da Michael Jackson. Il regista è lo stesso e i "protagonisti" sono sempre Wade Robson e James Safechuck, i due uomini che accusarono Jackson nel 2019.
Bong Joon-ho ha chiesto a John Carpenter di scrivere la colonna sonora del suo prossimo film e lui ha detto subito sì. I due si sono messi d'accordo durante una proiezione della versione restaurata de La cosa.
Si è scoperto che prima di fare il ministro, Guido Crosetto ha lavorato con Marlene Kuntz e Afterhours. E di diverse altre band, grazie a un'associazione culturale chiamata Zaboom: lo ha raccontato in un'intervista a "Un giorno da pecora".

The Last of Us è già la serie dell’anno

In attesa del finale della prima stagione, che andrà in onda domenica negli Usa, la serie Hbo ha superato le già enormi aspettative che c'erano nei suoi confronti.

10 Marzo 2023

Qualche settimana prima della premiere di The Last of Us, sul New Yorker usciva un articolo di Alex Barash intitolato “Can a video game be prestige tv?”, una sorta di riassunto di tutte le buone ragioni e precedenti storici per i quali aveva senso rispondere alla domanda con un no secco, scontato, convinto. Il successo di The Last of Us sta anche e soprattutto nella velocità con cui ha reso obsoleta quella domanda: a circa due mesi e mezzo di distanza non c’è nessuno che neghi a The Last of Us il suo posto nella lista delle cose migliori viste quest’anno, nessuno che neghi il suo diritto all’iscrizione nel grande libro della golden age-peak tv-prestige tv americana. Si dirà: bella forza, con quel budget a disposizione e quei talenti al lavoro e quell’hype attorno. Tutto vero, per carità: è difficile fare un cattivo lavoro avendo a disposizione un budget di circa dieci milioni di dollari ad episodio, avendo come showrunner l’autore di una delle migliori serie degli anni Venti (l’autore è Craig Mazin, a cui il New York Times ha dedicato uno stupendo profilo, la serie è Chernobyl), potendo contare sull’infinito capitale reputazionale del network che ha fatto del suo nome il sinonimo di tutto ciò che è tv ma più che tv. Quindi, di nuovo: tutto vero, per carità. Le premesse per il successo di The Last of Us c’erano tutte, ma questo successo è un altro discorso.

Ero certo che The Last of Us avrebbe fatto da precedente, sdoganando finalmente il videogioco, stabilendone definitivamente la dignità di medium narrativo. Ero certo che dopo questa serie l’industria videoludica sarebbe stata saccheggiata da una Hollywood sempre più disperatamente alla ricerca di nuove proprietà intellettuali da adattare per il grande e piccolo schermo: i fumetti di supereroi oramai cominciano a stufare, lo si intuisce da un po’ e con il mezzo disastro di Ant-Man e The Wasp: Quantumania si è iniziato a dirlo chiaramente. Servono idee nuove e i videogiochi – la più economicamente redditizia e culturalmente influente di tutte le industrie dell’intrattenimento – sono la risposta ovvia. Quello che non mi sarei mai aspettato era di vedere attorno a The Last of Us la quantità e qualità di discussione che c’è stata in questi mesi. Quest’incrocio tra passione del pubblico – la curva degli ascolti non ha fatto altro che crescere, l’ultimo episodio andato in onda ha registrato quasi il doppio degli spettatori della premiere, sfiorando i dieci milioni, numeri che non si vedevano da anni, tradotti in una equivalente attenzione del pubblico che il videogioco di Naughty Dog non lo aveva mai sentito nominare prima  – e attenzione della critica non si verificava dalle ultime stagioni del Trono di spade, ultimo titolo, ancora una volta Hbo, capace di monopolizzare il dibattito televisivo in America e nel mondo. In qualche modo, per qualche ragione, a The Last of Us è riuscito quello in cui hanno fallito le due serie alle quali è scontato paragonarla, per vicinanza cronologica e/o tematica: The Walking Dead e Station Eleven.

La serie tratta dal fumetto di Robert Kirkman è stata per anni una delle più viste – quando non proprio la più vista – dal pubblico americano. Eppure non è mai riuscita a produrre una discussione che andasse oltre se stessa: al di là delle recensioni dei singoli episodi – esiste ancora qualcuno che legge le recensioni dei singoli episodi? – l’ultima volta che ne ho sentito parlare è stato quando Amc ha annunciato che l’undicesima stagione sarebbe stata l’ultima. E dire che The Walking Dead e The Last of Us condividono moltissimi del loro riferimenti narrativi: Joel ed Ellie non sono così diversi da Rick e Carl, che a loro volta non erano così diversi dai protagonisti de La Strada di McCarthy o di Léon di Besson o di Lone Wolf & Cub di Koike e Kojima. Per qualche ragione, però, The Walking Dead non è mai stato considerato portatore di messaggi né indicatore di movimenti culturali. Mai una volta in più di dieci anni di esistenza. Dopo soltanto otto episodi di The Last of Us, invece, ho già letto pezzi bellissimi che ne fanno l’oggetto di una discussione sulla fine del mito dell’eccezionalismo americano anche in narrativa (Roxana Hadadi su Vulture) o che vedono in Joel un modello di emotività maschile/amore paterno vecchio e nuovo allo stesso tempo (Janet Manley su Literary Hub). Il paragone tra The Last of Us e Station Eleven, poi, è ancora più interessante, perché Station Eleven è una serie migliore di The Last of Us. Da tutti i punti di vista: estetico, tematico, narrativo. Eppure, a parità di apocalissi pandemiche – fungo da una parte, virus simil-influenzale dall’altra – e di diari di sopravvissuti, Station Eleven è rimasta la passione di una nicchia, un titolo da spendere se si vuole fare la figura di quelli che ne sanno. Perché?

Ci ho pensato parecchio, rivedendo gli otto episodi di The Last of Us usciti fin qui, in preparazione del finale che andrà in onda domenica nella notte americana (in Italia sarà trasmesso su Sky e Now). E mi sono convinto che il principale pregio della serie sia la sua capacità di ridursi ai numeri primi: al numero due, in particolare. Il numero di Joel ed Ellie, i protagonisti, benedetti anche da una chimica tra i loro interpreti – Pedro Pascal e Bella Ramsey – che chiunque abbia un profilo social sa esistere pure al di là del set (anche per il suo atteggiamento amorevole nei confronti della giovanissima collega, Pascal è stato insignito del titolo di daddy di internet), simboli dell’amore come croce da trascinare e alla quale essere inchiodati, destino inevitabile e tensione indispensabile di ogni essere umano. Ma oltre al rapporto tra i suoi due protagonisti, The Last of Us è costruito attorno a vicende di coppie che contengono tutte le moltitudini, magnifiche e orrende, della vicenda umana. L’amore romantico, nato adulto, anziano in premessa tra Bill e Frank. Quello fraterno tra Sam e Henry. La pace che Tommy trova nella famiglia, nella moglie Maria e in un figlio che esiste anche se il mondo è finito. L’incertezza, l’eccitazione, la drammaticità dell’adolescenza riassunte in un bacio tra una ragazzina che sta per morire (Riley) e una che cambierà il mondo (Ellie). Gli appetiti sadici di David e James, incarnazioni delle tentazioni bestiali che esistono in ognuno di noi, dormienti in attesa del pericolo che ne giustifichi l’esistenza e ne assolva i crimini.

Il principale pregio di The Last of Us è stato quello di rifiutare il racconto di un mondo e di mostrare invece i mondi, personali e immensi, irrilevanti e fondamentali, che continuano a esistere nella polvere che si alza quando tutto il resto cade a pezzi. The Last of Us, d’altronde, è un titolo che si presta a una doppia interpretazione: gli ultimi di noi, i sopravvissuti, i derelitti, gli speranzosi; ma anche quel che resta di noi, i numeri primi dell’umanità, le parti di noi stessi dalle quali non possiamo separarci nemmeno alla fine del mondo. Una storia tutto sommato semplice, persino banale (al contrario della complessa intersecazione narrativa di Station Eleven, per tornare al paragone di prima), niente che non sia già stato raccontato nelle pagine e sugli schermi. Eppure così attuale, così giusta per questo tempo che assomiglia sempre di più a un intervallo tra catastrofi, a un sospiro di sollievo tra un’apocalisse e l’altra, tra una scampata e quella inevitabile, in attesa del momento in cui «perdiamo», come spiegava l’epidemiologo protagonista della bellissima prima scena di “Quando sei perso nell’oscurità”. Ma, ancora una volta, The Last of Us si chiede in realtà cosa ci sia dopo la fine del mondo. Nel mio episodio preferito della prima stagione – il quinto, “Resistere e sopravvivere” – ritorna spesso una frase presa da un fumetto al quale Ellie si appassiona. La frase è “endure and survive”, resistere e sopravvivere, appunto. «Ridondante», la definisce Sam, uno dei protagonisti dell’episodio. «Non granché come scrittura», aggiunge Joel. Eppure, quella frase è vera ed è la risposta che The Last of Us dà alla domanda che la serie stessa pone. Cosa c’è dopo la fine del mondo? L’umanità, che resiste e sopravvive.

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