Stili di vita | Cibo

Il decennio del cibo sui media

Mai come in questi anni abbiamo visto, discusso e fotografato così tanti piatti.

di Davide Coppo

Un avocado toast. Foto OMAR TORRES/AFP via Getty Images

Scorri con il pollice dal basso verso l’alto sullo schermo del tuo smartphone, su qualsiasi social network tu sia in questo momento, sfoglia la homepage di un sito di news, di una rivista, vai in libreria, guarda le pile di libri speciali. Accendi la tv, fai zapping distrattamente, esci e cammina un po’, prova ad andare in un quartiere che fino a pochi anni fa era considerato “periferico”. Una cosa in particolare si è diffusa in tutti questi luoghi: cibo.

Le penne al salmone di quando ero piccolo, gli gnocchi alla romana del giovedì, l’insalata russa con cui mio nonno guarniva i natali, anno dopo anno, erano già tutte tendenze tipiche di una specifica epoca. Poi sarebbero arrivati i ristoranti fusion e il sushi, i cupcake e gli hamburger gourmet, ogni epoca con le sue mode e i suoi trend. Eppure gli anni Dieci sono stati di più, sono stati il decennio del cibo per eccellenza, e hanno accelerato la proliferazione di mode e fissazioni culinarie. È cambiato il nostro rapporto con quello che mangiamo, con il perché lo mangiamo e il dove, e soprattutto su tutto quello che facciamo, con il cibo, quando non lo mangiamo. Perché? Indizio numero uno: i media.

Innanzitutto, che cosa è finito con gli anni Dieci? La popolarità dei grandi chef come figure pubbliche inizia negli anni Zero, e all’inizio degli anni Dieci è al suo apice, pronta per la discesa: Gordon Ramsay è già una star mondiale quando, nel 2009, diventa giudice e produttore di Hell’s Kitchen, e Masterchef inizia nel 2010, portando il cibo davanti agli occhi degli telespettatori come nessun programma prima. Masterchef non mostra ricette, preparazioni, non racconta storie: è un talent show figlio a tutti gli effetti del decennio precedente, quello del Grande Fratello e altri reality con poca antropologia e molto trash. Sempre nel 2010 si chiude un’altra parentesi significativa per il cibo: Ferran Adriá annuncia la chiusura di elBulli, il ristorante che era diventato sinonimo di cucina molecolare (o decostruttivista), tipica degli anni Zero e pure del decennio precedente.

Ma il concetto di decennio è qualcosa di aleatorio e trovargli caratteristiche univoche è un gioco rischioso, e quindi è vero che la parabola dei grandi chef era in calo discendente, ma è pur sempre vero che non si è esaurita subito, e anzi la prima stagione di Chef’s Table, la serie di documentari prodotta da Netflix con David Gelb, si è concentrata sui migliori e più raffinati tristellati del mondo: da Massimo Bottura a Francis Mallman passando per Dan Barber. È innovativo, tuttavia, il modo in cui su Chef’s Table vengono raccontati i cuochi e le loro cucine: gli anni Zero ci avevano fatto capire molto chiaramente che la maggior parte degli chef sono maschi scontrosi, tamarri e molto poco educati, figure perfette per urlare contro velleitari concorrenti e sfogarsi lanciando piatti a distanze olimpioniche, e David Gelb ha voluto ripulire quell’immagine. Bottura, Barber, Mallman sono protagonisti di cucine diverse ma sono tutti pensatori originali e sofisticati, umanamente molto più delicati, o almeno così vengono ritratti, ed è un netto cambiamento di rotta.

Preparazione del kimchi. Foto ED JONES/AFP via Getty Images

Mentre tramontavano gli uomini forti della cucina, emergevano figure più piccole e discrete. Il cibo diventava più intimo: è un ridimensionamento non qualitativo ma quantitativo, legato alla crisi che dal 2008 si abbatte su mezzo mondo. Si diffonde una certa moda, nella cucina che fa uso di animali, a rivalutare le frattaglie e altre parti da sempre considerate di scarto; le trattorie tornano luoghi di tendenza, i menu si accorciano prediligendo la freschezza alla lunghezza, i vini si fanno meno industriali. E Chef’s Table funziona ancora bene come indicatore: le stagioni successive si concentrano su cuochi non stellati ma proprietari di piccoli negozi, o a volte nemmeno quelli, come la monaca buddhista koreana Jeong Kwan. Il cibo, nel discorso pubblico, riscopre quindi una sua dimensione politica ed etica, e anche le mode hanno un occhio fisso all’ambiente e a come quello che mangiamo o beviamo viene prodotto: il kale (o cavolo riccio), il vino naturale, le verdure fermentate (il Noma, laboratorio scientifico-culinario che sui fermenti basa la sua cucina, è stato il miglior ristorante del mondo per ben 4 anni), il cavolfiore, la quinoa, il tè matcha, l’hamburger sintetico. C’è un problema, naturalmente: la potenza dei media legati al cibo – principalmente Instagram – è in grado di trasformare un semplice trend culinario in uragani devastanti per le economie di interi Paesi: è il caso dell’avocado, da anni nuova risorsa economica di narcotrafficanti centro-americani, oltre che ingrediente molto instagrammabile quando disposto su una fetta di pane a colazione.

Sono diversi i tipi di media che hanno proliferato in questo decennio, e non tutti sono positivi. Da un lato sono nati e cresciuti siti di ricette e suggerimenti culinari di ottima qualità: Eater è stato lanciato nel 2009, Epicurious ha pubblicato la sua app nello stesso anno e il primo cookbook nel 2012, la bellissima sezione Cooking del New York Times esiste dal 2014 e quando si è staccata dal resto del giornale, chiedendo un paywall a sé stante, ha raccolto oltre 120mila abbonamenti in un solo anno. Il lato oscuro è fatto da applicazioni come Tripadvisor, il capostipite, prima di sovranisti e pentastellati, del populismo contro la competenza, o la sezione Tasty di Buzzfeed, colpevole di commentatissimi obbrobri come le one-pot pasta, radicalizzatore delle inquadrature dall’alto, a sua volta madre degenere di mostri come le bowl di qualsiasi tipo: cose che non possono piacere davvero, fatte di riso appiccicoso, salmone allevato, scialbi fagioli di soia e insipido cavolo viola crudo, eppure come fanno le piante carnivore con le mosche ci attraggono grazie ai colori iper saturi. Ma è stato tutto sommato un buon decennio per il cibo, per la consapevolezza e la coscienza di quello che mangiamo. Lo è stato grazie ai media, e nonostante i media. Gli anni Dieci ci lasciano all’inizio di un periodo in cui, con una maggiore consapevolezza sul ciò che individualmente consumiamo ogni giorno, possiamo cambiare molto. Nonostante gli errori, nonostante il poké.