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I farmaci dimagranti come l’Ozempic si starebbero dimostrando efficaci anche contro le dipendenze da alcol e droghe La ricerca è ancora agli inizi, ma sono già molti i medici che segnalano che questi farmaci stanno aiutando i pazienti anche contro le dipendenze.

Los Angeles e l’adolescenza

Un'italiana ha scritto in inglese un romanzo di formazione diviso tra un'Italia aspra e arretrata e un'America matta e disfunzionale.

10 Ottobre 2017

Il problema dei “figli di” è che quando si parla di loro si finisce sempre a parlare dei loro genitori o parenti, almeno all’inizio della loro carriera, finché non dimostrano di avere un valore come individui, a prescindere dall’albero genealogico. Kaia Gerber, per ora, non può essere considerata soltanto una bellissima modella di 16 anni: è soprattutto la figlia di Cindy Crawford. Ma Sofia Coppola, ormai da un decennio, non è più soltanto la figlia di Francis Ford: è soprattutto una grande regista, che ha inventato uno stile tutto suo, ammaliante e riconoscibile.

La condanna a essere presentati come “figli di” mi è sempre sembrata un giusto prezzo da pagare per aver avuto una famiglia fighissima e, conseguentemente, il più delle volte, aver assorbito intelligenza e genialità dai propri genitori (e magari essere pure belli e dotati stile: se ci fate caso, le cose vanno spesso insieme). Per questo, anche se le testate americane che l’hanno intervistata si sono giustamente concentrate su di lei e sul suo libro (scritto direttamente in inglese e tradotto in italiano con l’aiuto di Francesco Pacifico), ho deciso di prendermi l’unica rivincita possibile, per quanto meschina, cominciando questo articolo su Chiara Barzini parlando soltanto dei suoi parenti.

Il bisnonno di Chiara è Luigi Barzini Jr, giornalista, scrittore e politico ricordato soprattutto per il suo libro del 1964, The Italians, con cui raccontò la cultura e la vita italiana ai lettori anglosassoni (a sua volta figlio di Luigi Barzini Sr., giornalista Corriere della sera e poi direttore del Corriere d’America). Luigi Jr. si sposa con una ricca ereditiera, Giannalisa Feltrinelli, e con lei dà alla luce Benedetta Barzini, sorellastra dell’editore Giangiacomo Feltrinelli, top model scoperta dall’occhio geniale di Diana Vreeland, musa di Irving Penn e Richard Avedon, frequentatrice della Factory di Wharol, mollata dal regista Roberto Faenza la notte in cui partorisce i suoi due gemelli, e protagonista di un sacco di altre storie straordinarie (da quando l’artista e fidanzato di allora, Gerard Malanga, girò un intero film su di lei, In Search of the Miraculous, a quando lasciò la moda per dedicarsi al femminismo e al marxismo radicale).

Chiara è la figlia del fratello di Benedetta, Andrea Barzini, regista e produttore, e di Stefania Barzini, autrice e conduttrice del Gambero rosso e di libri di cucina, cugina del regista Giacomo Faenza. Quand’era poco meno che adolescente, i suoi hanno lasciato Roma e sono partiti per Los Angeles, portandola con loro. Certo, non è stato per niente facile, direbbe Barzini a sua discolpa, e infatti lo racconta nel suo primo libro Things That Happened Before the Earthquake, che sta ricevendo ottime recensioni negli Usa ed è stato pubblicato in Italia da Mondadori con il titolo Terremoto e, caso abbastanza straordinario nell’editoria italiana, ha una copertina molto sexy.

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Ma voglio infierire, continuare a non parlare del libro, e sottolineare come, in quanto sceneggiatrice, una decina di anni fa Barzini ha firmato i film di Moccia, da Scusa se ti chiamo amore Scusa ma ti voglio sposare, e una serie tv per niente cool come Don Matteo. Ok, devo ammetterlo: ha anche intervistato gente come Leonardo di Caprio e Joan Didion (tra gli altri), ha scritto per tutte le riviste possibili e immaginabili italiane e americane e ha scattato fotografie che mi piacciono molto (tutte raccolte sul suo sito). Ma quel che è peggio è che il suo libro è meraviglioso.

Un romanzo di formazione che avrei pagato oro per leggere da adolescente (mi avrebbe di certo aiutato a capire chi ero e cosa volevo), in cui racconta la storia di una ragazza che si trasferisce a Los Angeles con una famiglia di genitori entusiasti e scombussolati, la nonna e il fratello minore. Non voglio rivelare troppo della trama perché, stranamente (non succede quasi mai ai libri che amo), questo romanzo è dotato di trama. Una lunga parte è dedicata alla vacanza in Sicilia che segue il primo anno di scuola in America e una serie di eventi traumatici, che sottolinea il contrasto tra la vita aspra nella natura feroce dell’isola, le superstizioni, il dialetto siciliano, gli animali moribondi dell’Italia rurale e la Los Angeles dei centri commerciali, dei discount (i genitori si trasferiscono in un quartiere abbastanza sfigato e vivono in uno stato di semi-povertà), dei metal detector all’ingresso della scuola e dell’inglese che la protagonista impara dall’antologia di letteratura americana (scriverà un racconto sul “sesso brutto” che le permetterà di essere ammessa a un corso di scrittura creativa).

I personaggi sono delineati con pochi semplici tratti, eppure restano nella memoria: lo sguardo sui genitori sgangherati alterna tenerezza e rabbia, e la miriade di ragazzi che la protagonista incontra e con cui fa sesso sono uno più freak dell’altro, proprio come succede a molte di noi nella vita reale. Uno ha un tumore alla gola, un altro è un nazista necrofilo, un altro ancora non ha un orecchio (ma lui è solo un amico, e infatti è l’unico che resta fino alla fine) e via dicendo. E poi, come tutti ci aspettavamo, ecco che arriva l’amore lesbico. Da Elena Ferrante a The Girls, l’amicizia sensuale o sessuale tra donne, dominata dalla morbosità, dall’invidia e da un’intimità e un senso di scoperta che non ha niente a che vedere con il legame superficiale e deludente che le protagoniste di questi romanzi hanno con gli uomini, è sempre più al centro dei romanzi di formazione femminili. Insieme alla sua amica Deva, la protagonista cresce e si scopre, si libera della sua corazza, finalmente gode, e alla fine, anche in questo caso, ovviamente, resta delusa.

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La cosa che Barzini sa fare peggio è descrivere le emozioni: va sempre troppo avanti, non si ferma in tempo, e se fossi stata il suo editor avrei tagliato molte delle ultime frasi con cui la protagonista conclude le sue riflessioni. C’è da dire che Eugenia, il suo alter ego, ha 17 anni. È un’adolescente, e il suo modo di pensare retorico, se considerato da questo punto di vista, diventa un intelligente tentativo di mimesis. Le cose che Barzini sa fare meglio, invece, sono tre: descrivere la forza della protagonista, la famiglia e la città (soprattutto quest’ultima).

Nel caos familiare e relazionale che la travolge, Eugenia impara a individuare dei punti fermi suoi e solo suoi: la scrittura, il lavoro nel negozio dell’amico, l’esplorazione personale e in solitudine della città. I quadretti familiari, in cui vengono descritte le idiosincrasie dei padri con le figlie, delle madri con i figli, sono brillanti, acuti e spassosi. Ma è quando descrive Los Angeles che l’autrice raggiunge il suo apice espressivo, portandoci per mano in una città leggendaria, troppo spesso descritta attraverso luoghi comuni, che qui invece prende vita in tutte le sue contraddizioni e sorprese, e soprattutto nella sua più importante caratteristica, quel “luminoso invisibile” che la attraversa. Una parte importante è riservata alla natura nella città, che Barzini descrive egregiamente: il deserto, i canyon, gli eucalipti, e soprattutto le zone boschive di Topanga, dove abita l’amica geniale. La natura è un’amica che rinforza e rinvigorisce ma è anche una nemica che ferisce e distrugge (il terremoto, reale e metaforico, arriva alla fine del libro). Allo stesso modo le persone e la città manifestano un’instabilità estrema, trasformandosi continuamente. C’è un continuo effetto di disconnessione dalla realtà (abbondano l’alcool e le droghe) e il continuo tentativo della protagonista di restare attaccata a una terra in movimento, impegnandosi a sentire le cose con i sensi. Ed è questo che rende Terremoto un romanzo di formazione esemplare. Perché, come diceva Sandro Penna, «forse la giovinezza è solo questo / perenne amare i sensi e non pentirsi».

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