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LinkedIn ha lanciato una sua versione del Wrapped dedicata al lavoro ma non è stata accolta benissimo dagli utenti «Un rituale d'umiliazione», questo uno dei commenti di coloro che hanno ricevuto il LinkedIn Year in Review. E non è neanche uno dei peggiori.
C’è una specie di cozza che sta invadendo e inquinando i laghi di mezzo mondo Si chiama cozza quagga e ha già fatto parecchi danni nei Grandi Laghi americani, nel lago di Ginevra e adesso è arrivata anche in Irlanda del Nord.
Nobody’s Girl, il memoir di Virginia Giuffre sul caso Epstein, ha venduto un milione di copie in due mesi Il libro è già alla decima ristampa e più della metà delle vendite si è registrata in Nord America.
YouTube avrebbe speso più di un miliardo di dollari per i diritti di trasmissione degli Oscar Nessuna tv generalista è riuscita a superare l'offerta e quindi dal 2029 al 2033 la cerimonia verrà trasmessa in esclusiva su YouTube.
Miss Finlandia ha perso il suo titolo dopo aver fatto il gesto degli “occhi a mandorla” ma in compenso è diventata un idolo dell’estrema destra Il gesto è stato imitato anche da due parlamentari del partito di governo Veri finlandesi, nonostante il Primo ministro lo abbia condannato.
In un editoriale su Politico, Pedro Sánchez ha definito la crisi abitativa «la più grande emergenza di questa epoca» E ha invitato tutti i Paesi dell'Ue a iniziare a trattare il diritto alla casa come quello alla sanità e all'istruzione.
La Romania spenderà un miliardo di euro per costruire Dracula Land, un enorme parco giochi a tema vampiri Il parco verrà costruito vicino a Bucarest e l'intenzione è di competere addirittura con Disneyland Paris.
Tra i 12 film in corsa per l’Oscar al Miglior film internazionale ben tre parlano di Palestina È invece rimasto fuori dalla lista Familia: il film di Francesco Costabile, purtroppo, non ha passato neanche la prima selezione dell’Academy.

L’estate delle storie

Alcuni ci si sono fiondati con entusiasmo, altri si sono avvicinati con reticenza. Il risultato è uguale: le Instagram stories sono una droga.

22 Agosto 2017

Dopo le fantasmagoriche trovate di WhatsApp – i puntini di sospensione traballanti, l’orario dell’ultima entrata, le spuntine grigioblu – da un annetto a questa parte (è il loro compleanno) ci si sono messe anche le Instagram stories a generare paranoia, ansia e un frenetico pullulare di spiegazioni complesse che rischiano di trasformarsi in veri e propri romanzi di formazione. Alcuni ci si sono fiondati con entusiasmo, altri si sono avvicinati con reticenza. Il risultato è uguale: sono una droga. Per motivi che nemmeno gli analisti dei social sanno spiegare. Come mai, per esempio, le stories di Facebook si sono rivelate un flop? Alcuni dicono che Instagram è un social torpido, senza filtri razionali: hashtag sconnessi  servono solo a rendere le immagini più potenti. Ma la vera risposta è: chi lo sa. Si sa, però, che si parla meno di quello che succede, di quello che è successo e di quello che succederà, mentre si può stare notti intere a chiacchierare con le amiche del “se ha visualizzato e non risponde”. Che si declina in mille sottocategorie psicotiche tipo “ma siamo sicuri che ha visualizzato?”.

Il controllo è l’argomento principale. I criteri strutturali con cui è organizzata la comunicazione vincono sui contenuti veicolati: non è importante se nella story c’è un gatto molto carino o le linee del parquet. Vogliamo solo vedere chi vede. Non importa se posti una story orribile, l’essenziale è postarla. Sapere quali sono i tuoi stalker, schedarli in una lista immaginaria. “Li ho in pugno”. “Non se ne perdono una”. “Guarda guarda, l’ho appena messa e questo già l’ha visualizzata, poveretto”. Il contenuto della story è un orpello, un’esca che si autodistruggerà nel giro di 24 ore. Un’avventura estiva in loop.

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E non potrebbe essere altrimenti: nelle stories c’è qualcosa che non si può vedere nelle foto filtrate, aggiustate, ritagliate e postate ad arte, nelle stories c’è la vita nella sua parte più intima. La story è pezzi della tua casa, del tuo pigiama, del cielo che stai guardando mentre sei triste. E non potrebbe essere gestita altrimenti, dev’essere breve, deve avere una scadenza e soprattutto deve possedere un trucco che sposti l’attenzione dall’intimo. Il trucco è l’occhietto, la possibilità di controllare chi ti guarda. Ne metti una, ok, l’hanno guardata in 150. Posti la seconda, restano in 130. La terza. 100. Metti alla prova questi temerari con la quarta. Gli spettatori diminuiscono e non sai se colpevolizzarti per aver fatto scendere l’attenzione sulla tua fantastica vita – “avrò postato video di volta in volta più brutti? Colpa della smania?” – oppure prendertela con il calo dell’attenzione del popolo di Instagram.

La trama è semplice e complicatissima, come in un romanzo della Austen: i sentimenti sono quelli, le basi sono immediatamente comprensibili, ma ci pensa l’intreccio di questi stessi sentimenti cristallini a complicare tutto. E allora anche qui ansia e paranoia, miste a vanità e soddisfazione, creano una varietà di personaggi degni di nota. I più orsi guardano solo le story degli amici, di quelli posizionati nella safe zone, non si azzardano assolutamente a cliccare quelle di chi gli piace perché non lo deve sapere. Poi ci sono quelli che ti stalkerano e vogliono fartelo sapere, che accompagnano lo stalking visivo a messaggi privati provocanti, a volte proprio hard come Gué Pequeno. Quelli del vorrei ma non posso che non se ne perdono una ma hanno paura anche a scrivere “ciao” o “bel gatto” o “interessanti linee del parquet”. Gli adorabili annoiati che non danno nessuna di queste soddisfazioni e dopo un po’ vorresti espellerli dal social per la loro eccessiva temperanza: a volte le guardano a volte no, dipende da come gli gira, da quanto si annoiano. Quelli che nemmeno ti seguono per non farti sentire importante ma poi, ogni giorno, ti cercano, ti trovano, e se le guardano dalla prima all’ultima.

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Questa è di gran lunga l’epopea più inspiegabile, per giunta antieconomica. Non vuoi seguire X ma cerchi ogni giorno il suo nome sulla barretta con la lente d’ingrandimento per guardare le sue stories sapendo che può vedere, anzi, che di certo vedrà il tuo nome fra gli altri nomi? Pura follia. Poi, non dimentichiamo, ci sono i fake, i nostalgici del buco della serratura, quelli che per non essere scoperti si sono creati un profilo falso: quanta fatica per preservare un’apparente dignità. Siamo diventati tutti dei guardoni, accettiamolo. I peggiori di tutti, però, sono quelli che “io lo uso solo per osservare”. Non fanno mai una story ma guardano quelle degli altri per studiarli, per fare improbabili analisi sociologiche. Guardare dall’esterno stando all’interno per scoprire i principi sottostanti e magari intuire, o peggio, riuscire a controllare azioni e reazioni è una boiata antica e persistente, una pia illusione. I filosofi del distacco (esercitare il distacco sui social è paradossalmente peggio che esercitarlo di persona) se non provano la sensazione appiccicaticcia che dà il non fare una story per qualche giorno o la percezione della vita che cambia in base alla frequenza dei momenti condivisi, non capiranno mai.

Oltre a fomentare questo tipo di digressioni atemporali, le stories hanno anche una qualche utilità. Muovono il turismo. Puoi vedere che il tuo datore di lavoro è alla Maddalena, che il tipo che ti piace ma non deve saperlo è alla Maddalena, e che c’è pure l’amica con la quale hai litigato a morte qualche mese fa… quindi elimini la Maddalena dalle possibili mete estive. Muovono anche i culi dei corteggiatori più sedentari. Tizia posta una story in cui fa capire distintamente dov’è, magari mettendoci pure l’ora e un “vieni, ti aspetto”. Lui la guarda e va. Così, senza dirsi niente. Magari va e non dice niente nemmeno dal vivo. Ma è andato. Magari sono andati in tanti. Hanno seguito le mollichine di pane. E questo può bastare.

Foto Getty.
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