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20:21 martedì 16 settembre 2025
Amanda Knox è la prima ospite della nuova stagione del podcast di Gwyneth Paltrow Un’intervista il cui scopo, secondo Paltrow, è «restituire ad Amanda la sua voce», ma anche permetterle di promuovere il suo Substack.
Luigi Mangione non è più accusato di terrorismo ma rischia comunque la pena di morte L'accusa di terrorismo è caduta nel processo in corso nello Stato di New York, ma è in quello federale che Mangione rischia la pena capitale.
Dopo i meme, i videogiochi, le carte collezionabili e gli spettacoli a Broadway, adesso l’Italian Brainrot arriva anche nei parchi giochi italiani Da fenomeno più stupido e interessante di internet alla vita vera, al Magicland di Valmontone, in provincia di Roma.
È morto Robert Redford, una leggenda del cinema americano Aveva 89 anni, nessun attore americano ha saputo, come lui, fare film allo stesso tempo nazional popolari e politicamente impegnati.
La prima puntata del podcast di Charlie Kirk dopo la sua morte è stata trasmessa dalla Casa Bianca e l’ha condotta JD Vance Il vicepresidente ha ribadito che non ci può essere pacificazione con le persone che hanno festeggiato o minimizzato la morte di Kirk.
Tra i film candidati a rappresentare l’Italia all’Oscar per il Miglior film internazionale ci sono praticamente tutti i film usciti in Italia quest’anno Tranne La grazia di Paolo Sorrentino, ma non per volontà: la sua assenza è solo una questione burocratica.
A Lampedusa sono arrivati tre immigrati palestinesi a bordo di una moto d’acqua I tre hanno usato ChatGPT per pianificare la rocambolesca fuga verso l’Europa, seminando le motovedette tunisine per arrivare in Italia.
Il concerto in Vaticano per il compleanno del Papa è stato uno degli show più assurdi di sempre La collabo Bocelli-Pharrell, i Clipse primi rapper a esibirsi in Vaticano, i droni del fratello di Musk, lo streaming su Disney+ e la diretta su Tv2000: è successo davvero.

Il momento d’oro dello stile nordico

La rivalutazione fashion di Ikea, la nuova strategia di H&M, l'apertura di Arket e molti altri indizi confermano l'ascesa dell'estetica scandinava.

28 Agosto 2017

Quando Balenciaga ha lanciato la versione lusso della comune shopper blu di Ikea, i social sono impazziti. E sebbene fosse difficile districarsi tra le raffinate analisi di semiotica e i commenti buongiornisti sdegnatissimi dal prezzo, una cosa era certa: al di là delle (seppur interessanti) discussioni sul basso che diventa alto, sul designer di moda che si appropria di un simbolo popolare e ne stravolge il significato, la vera morale di quella storia era un’altra, ovvero che la borsa blu aveva vinto ancora una volta. In questi anni di affitti-mutui e mutui che non ci accendono, infatti, la bustona (che si chiama Frakta) è stata la spalla indiscussa del meno fashion scatolone in ogni trasloco che si rispetti, dei viaggi alle lavanderie a gettoni di quelli in affitto che non hanno la lavatrice, dei trasporti occasionali di merci e mercanzie varie nonostante l’evidente contro del caso: è impossibile da chiudere e ha una forma francamente bizzarra, eppure “è capiente”, “ci butti dentro tutto”, “non si rompe mai”, “è indistruttibile”.

Ecco perché oggi Frakta può reclamare quello status che abbiamo già assegnato alle brutte Birkenstock, tanto più ora che conta anche di una sua imitazione luxury per mano dell’alta moda, sempre drammaticamente in ritardo rispetto ai fenomeni della strada, o meglio, dei centri commerciali delle più amene periferie d’Europa. Per via di quella storia che ai ricchi piace vestirsi da poveri, certo, ma anche perché lo stile scandinavo è un po’ il feticcio di quest’epoca, una sorta di sostituto dell’ossessione per l’estetica giapponese che aveva caratterizzato la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta. Dimenticate però il lavoro sartoriale di designer come Issey Miyake, Junya Watanabe o Rei Kawakubo. Dimenticate anche ACNE STUDIOS, che dello Scandi style è l’interprete d’autore, capostipite di tutta una miriade di piccoli marchi molto instagrammabili che il Telegraph Fashion definisce “nordic chic”. Quello per i maglioni da pescatore norvegesi, le magliette bianche e gli interni in legno non è l’unico tra i feticci contemporanei, ma è certamente uno dei più redditizi.

First collection preview. Royal Geographical Society, 1 Kensington Gore, London. 2 June 2017. #ARKET

Un post condiviso da ARKET (@arketofficial) in data:

È difficile stabilire con precisione quando abbiamo iniziato a ritenere accettabili o interessanti cose come i materassi buttati sui pallet e l’hygge, ma è facile individuare le aziende che quell’immaginario, amplificato a suon di hashtag, riviste come Kinfolk Magazine e letteratura sulla natura incontaminata dei fiordi, hanno saputo crearlo, e venderlo nel mondo. Ikea, per l’appunto, che ha spianato “democraticamente” il design degli interni come ha scritto Davide Coppo proprio qui su Studio, e H&M, che insieme agli spagnoli di Zara ha dato il via al fast-fashion così come lo conosciamo oggi. E se Ikea può permettersi di fare meta-ironia nelle sue pubblicità e godere dello status di cui sopra, H&M si ritrova invece ad affrontare una congiuntura tutt’altro che facile, a partire dalla crisi sistemica del retail che ha forzato l’azienda svedese a una decisa politica di revisione della propria rete di negozi nel mondo, annunciata a fine 2016. Esattamente come per Zara, ciò ha significato diverse chiusure importanti, come quella del megastore di Piazza San Babila a Milano (che nel 2003 aveva segnato l’arrivo di H&M in Italia), trasferimenti e una strategia di economizzazione delle location, che come scriveva Pambianco lo scorso maggio ora privilegia «le aperture in spazi dagli affitti flessibili e convenienti e in location dalla maggiore visibilità, con l’obiettivo di arrivare a break even nel minor tempo possibile. Confrontando gli ultimi tre bilanci di H&M, emerge come a un numero di aperture lorde sempre in crescita sia corrisposto anche un valore di chiusure sempre più alto». Senza dimenticare l’enorme discorso sulla sostenibilità del low-cost e sugli sforzi che giganti del genere stanno mettendo in atto per “ripulire” il loro business.

Tutto questo non significa comunque che H&M abbia smesso di investire nel proprio futuro, al contrario. Lo dimostra il successo di COS (che compie dieci anni), & Other Stories, Weekday e Monki, marchi che hanno preso il posto di quelli che definivamo “medi” non troppi anni fa e con i quali si è puntato a specifiche nicchie di consumatori, anche piuttosto diversi da quelli del core-brand. E lo dimostra anche il lancio di Arket, marchio di abbigliamento dall’anima “lifestyle”: dedicato a quelli che già apprezzano il minimalismo di COS, costerà mediamente 100 sterline in più rispetto al suo antesignano e manterrà quel design improntato alla funzionalità che quel tipo di consumatore ricerca. Il primo negozio fisico, che ha anche una selezione di brand non H&M, ha appena inaugurato in Regent Street a Londra, mentre l’e-commerce debutterà in autunno in 18 Paesi europei. Seguiranno le aperture a Bruxelles, Copenaghen e Monaco di Baviera: il nuovo store assomiglia a una sorta di mercatino con tanto di caffè in stile “New Nordic”, dove verranno servite solo specialità del Nord-Europa, e avrà un angolo dedicato alla casa, che si aggiunge così a H&M Home.

Come riassume Graeme Moran di Drapers Magazine a Lauren Cochrane del Guardian, «La Scandinavia sta vivendo il suo momento d’oro»: basti pensare alla nomina di David Hagglund come nuovo direttore creativo di Topshop e Topman. Svedese, già art director di Vogue Paris, Hagglund è a capo di un’agenzia creativa di base a Stoccolma che ha collezionato esperienze con H&M e Hugo Boss fra gli altri. «Topshop ha sempre rispecchiato l’immagine della ragazza dallo stile British» spiega Moran «quindi immagino questo sia un tentativo di dare al marchio un’impronta più internazionale». D’altronde, questa è l’epoca della Cool Scandinavia.

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