Immagini tratte dal remake cinematografico di It, girato da Andy Muschietti e in uscita in Italia a ottobre; il clown inglese Joseph Grimaldi (Hulton Archive/Getty Images)

Attualità

Non può finire tutto per colpa di un pagliaccio

Trent'anni fa con It Stephen King diventava il più grande scrittore vivente. E Pennywise, la sostanza del terrore, la più grande esegesi di Lovecraft.

di Alcide Pierantozzi

«Sinistra è l’esistenza umana e ancor sempre priva di senso: un pagliaccio può esserle fatale» scrive Nietzsche a un certo punto di Così parlò Zarathustra, subito dopo averci raccontato di un funambolo che proprio a metà del percorso su una corda tesa fra due torri, mentre un manipolo di persone si gusta la scena, vede pararglisi dinnanzi a rapidi balzi un vero pagliaccio che non fa parte dello spettacolo, il quale lo esorta con voce agghiacciante: «Muoviti, piè zoppo… poltrone… tu sei d’impaccio a chi è meglio di te». Non è il Diavolo a far cadere il funambolo giù dalla corda, no: troppo facile, troppo grossolano per Nietzsche. Non è Apollo, che invece colpisce sempre e solo da lontano e non si avvicinerebbe mai così tanto alla propria “vittima” (anche perché la follia di Apollo, il suo male perpetrato, sono per Nietzsche matrici di sapienza). Meno che mai potrebbe trattarsi di Dioniso, che è un bambino dalla spontaneità bestiale, un monstrum che guardandosi allo specchio vede riflesso il cosmo intero e a cui la ragione è preclusa, e che non agirebbe mai con una tale raziocinante scaltrezza. Allora chi è questo pagliaccio archetipico, crudele e falsificante le idee che il povero funambolo ha di sé stesso e del proprio talento, e che alla fine lo uccide? La risposta l’ho trovata senza mai cercarla, come di solito si trovano le risposte alle domande importanti.

Semplicemente, quell’antico, imperioso, tracotante (ma anche fascinans) pagliaccio è già Pennywise, qualunque cosa sia, protagonista, antagonista, co-protagonista e guest del più importante e complesso tra i romanzi di Stephen King. È It nella sua prima e mai citata apparizione su carta. L’innominato It, unica creatura letteraria degli ultimi decenni capace di abbattere i collaudati confini del peso dei ruoli di un personaggio narrativo e della sua presenza sulla pagina, come solo Moby Dick, lo Squalo e il conte Dracula riescono a fare. E che, al pari di loro, è un personaggio universale, di tutti, non appartenente al genio di King. Non solo. È un personaggio la cui sostanza non sta nel rossetto, nel cerone o nei denti da squalo, ma in questo suo apparire e sparire terroristico, da mutafaccia, che nel libro è oggetto di elucubrazioni e riflessioni infinite da parte dei bambini da esso minacciati, e da parte tua, lettore. È un’entità che tutto avvolge, It, è quello che si rivela allo sguardo a un certo punto della vita, quando la vita è all’inizio e non possiamo scorgerne il significato totale.

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«Tutto quanto è oggetto di molta riflessione, diventa inquietante» scrive sempre Nietzsche nello Zarathustra. E oggetto di molta riflessione, per tutti i bambini e da sempre, prima e dopo la rivoluzione digitale, è il clown. I bambini di King non sono coraggiosi, come spesso si è scritto, e solo chi non sa leggere bene un libro potrebbe crederlo. Per questo It non è un mezzo di risoluzione per la loro crescita individuale, non è nemmeno un totem che loro possono evocare quando vogliono per stimolare di più i loro giochi. Ne sono terrorizzati, quello sì, e perciò il coraggio non c’entra niente. I bambini di King non sono coraggiosi, sono sapienti, filosofi illuminati dal delirio di una visione eccezionale, di una allucinazione da oracolo delfico. Non ho mai voluto credere che King si sia inventato una simile creatura e abbia architettato una trama così fitta solo per accrescere il senso di coraggio nei suoi bambini, o in virtù della loro ascesa nel mondo adulto, o per insegnarci chissà che. Questo lasciamolo dire ai risvolti di copertina, abbiate pazienza. Se esiste un pagliaccio assassino, almeno nell’economia di questo romanzo significa che il mondo adulto non sussiste, o perlomeno che non è quello che è, e che tutte le categorie entro le quali gli adulti credono di stare al sicuro sono cazzate. Sapiente non è chi possiede già un bagaglio di conoscenze sulla vita e sul mondo, non è la mamma, o il vecchio nonno, loro ai pagliacci cattivi non ci credono; sapiente è proprio chi getta luce nell’oscurità del contingente adulto, chi trancia i nodi che stringono i comportamenti insensati dei grandi, e chi designa l’incerto attribuendogli un nome. Anche se quel nome è vago, è un pronome: «It».

Sapienti sono Bill, Ben, Bev, Richie, Eddie e Mike, coraggiosi nelle dinamiche della storia solo in quanto sapienti (gli adulti, i bambini lo sanno, non possono sconfiggere It). Loro sì, sia pure pagando il prezzo di cacciare via uno spettro enorme per evocare un armamentario di folletti-parassiti per la psiche. E allora It, qualunque cosa sia, torna quando sono grandi, e trova terreno fertile quando si riappropria, aumentandone l’intrusività, di quei folletti che ad esempio hanno portato Beverly a trovarsi un uomo violento e ubriacone come suo padre. It non è il Male (i critici letterari che utilizzano la parola male, nove volte su dieci non sanno quello che dicono, diffidate), non è qualcosa che inerisce alla fantasticheria e che in essa si oblia, ma è un agente fatale in grado di dominare ciclicamente le funzioni mentali di chiunque non sappia riconoscere il suo carattere illusorio, la sua tragicità di chimera; è la resina di una natura in frana costante perché non compresa giacché parziale, di una natura che allestisce continui spettacoli dell’orrore, dando così prova di essere ben più inverosimile di come si mostra. È il pezzo del puzzle che appare terrifico fuori dal proprio contesto. È un odore, musica che è un’uscita dal significato, non è reale. I temi del romanzo di King, dall’omofobia alla violenza sulle donne, dal razzismo alla democrazia, non sono così grevi e realistici per un caso, per far risaltare le scene fantastiche o per un esercizio di denuncia sociale.

Joseph Grimaldi

It è in fondo il più grande bracconiere di quel daino che si riposa all’ombra d’un albero, se si ricorre alla metafora con cui molta poesia indiana ha indicato la nostra mente: minaccia la sostanza del mondo, scombina gli elementi certi con mistero senza un perché, e le brutture del reale ne sono una conseguenza, non viceversa. Ma Beverly, Ben e gli altri, sapienti dinanzi all oracolo folle, per una breve intermittenza della loro vita fatale provano a interpretarlo, comprendono il senso delle illusioni con cui tutti ogni giorno suscitiamo la realtà. La filosofia del Novecento di questo si è occupata, dell’apodittico inspiegabile, della rottura di ogni regolarità dell’accadere. «It goes» ripetono i bambini; «It is». It, né maschile né femminile, né organico né inorganico, né visibile né invisibile, né esistente né inesistente, e soprattutto né comico né, per ovvie ragioni, serious, è un oggetto. Come il mondo. È «it» nel senso di «parola-oggetto», parola vuota ma rivestita da una patina morbosa, potendo comprendere in sé ogni altra parola e, stavolta sì, ogni cosa. Essendo una parola vuota, It non è soggetto allo scorrere del tempo, non è una parte malvagia della totalità delle cose sotto sembianze clownesche. It è la totalità delle cose che se vista dal punto di vista della parte, di una stagione, ci appare orribile. Se il mondo va avanti così come va avanti, allora è una pagliacciata. Non solo It assume le sembianze di tutti gli incubi ma incarna il surplus del travestimento, il pagliaccio, la maschera priva di faccia.

«Tutti gli oggetti, organici ed inorganici in eguale misura, erano completamente al di fuori di ogni possibilità di descrizione come di comprensione» scrive Lovecraft in un racconto molto caro a King, riferendosi a un luogo dimensionale cui il protagonista, uno studente appassionato di stregoneria, può accedere solo in dormiveglia. Il racconto è I sogni nella casa stregata (The Dreams in the Witch House) – magnifico, pagine che ti gelano dentro e che andrebbero lette dieci volte prima di affrontare It – ed è quanto di più kinghiano possa mai capitarvi di leggere, opera omnia di King compresa. Qui per descrivere un mostriciattolo simile a un topo, ma con il volto umano e i lunghi dentini affilati, incarnazione di una strega di nome Keziah, incarnazione del caos strisciante, esserino ab-normale in grado di spostarsi in ignoti reami spazio-temporali prima di tornare nella stanza dalle pareti oblique della casa in cui risiede il protagonista Gilman. Ecco, per nominare questo topo Lovecraft utilizza il pronome “it” perché si tratta di un animale, certo. Ma andate a vedervi con quale ossessione il più ineffabile dei pronomi viene reiterato sulla pagina. Lovecraft sta bene attento affinché sia chiaro a chi legge che quell’esserino sia una cosa. E non nel senso di “cosa senza nome”, senza insomma implicazioni filosofiche, perché il topo in effetti un nome ce l’ha: si chiama Brown Jenkin. Ma nel senso di oggetto; o meglio: della manifestazione o espressione della morbosità di un oggetto. Una malignità primordiale capace di risalire gli abissi urlanti e triangolari entro i quali si sviluppano le pareti della stanza, questo è Brown Jenkin. L’emersione da un altro contesto. King sta tutto qui, qui prende tutto quello che c’è da prendere per scrivere il suo libro.

Anche in Shirley Jackson c’è King, anche nel racconto Il barattolo di Ray Bradbury, addirittura in Coleridge, ma mai quanto in questo racconto di Lovecraft, scritto in preda a un esaurimento nervoso nel 1932. Il punto di pressione fobica di questo racconto è il topo, e anche se leggendolo da ragazzino King non gli avrà dato molto peso, magari preferendogli L’orrore di Dunwich o Il colore venuto dallo spazio, l’avrà letto in preda a una concentrazione squisita. Quante volte ci è successo di leggere un libro così così ma di leggerlo assai bene, entrandoci dentro del tutto? Più ci si concentra e meno si disperdono le facoltà mentali, più si riesce a sognare profondamente (si sa, i bambini sono sempre concentrati. Se si distraggono dall’altalena, è per concentrarsi meglio sullo scivolo).

Sempre nel racconto di Lovecraft, in seguito al crollo del tetto della casa stregata, un setacciamento dei detriti e dei rottami porta infatti alla scoperta di «molte piccole ossa di topi uccisi nel crollo, come pure di altre ossa sempre di topi che recavano zampe in modo tale da essere oggetto di riflessione e di controversia». Forse a causa del veleno per topi e della successiva decomposizione dei loro cadaveri, un fetore nefasto e in parte calamitoso invade la casa e l’intero circondario. Un odore per descrivere il quale Lovecraft, sempre troppo denotativo, non sa trovare parole efficaci. Ci penserà King cento anni dopo, scrivendo che It sprigiona «l’odore di un oceano morto». Piacerebbe a Baudelaire. Lovecraft ci dice che questo odore sconcertante si diffonde soprattutto dopo il primo di maggio e i santi, che provoca l’immediata inabitabilità della dimora da parte dell’ispettorato del comune della sacrilega e nerissima città di Arkham: luogo che come Derry sorge su un punto di pulsazione magnetica di quel caos strisciante senza nome, città-oggetto che pare innestarsi come un’installazione da set nel bailamme di cittadini psicotici, omofobi, maschilisti. Bulli, ingannevoli, narcisi, i cui nervi sono scossi e sovreeccitati fino al parossismo e al delitto.

Il tremendum-fascinans, lo spettacolo di contraddizioni della vita, la sostanza terrificante che sta dietro a tutti gli uomini e a tutti gli dei: questo è It, già presente in Nietzsche e in Lovecraft. Non un dio, non un demonio, ma un mostro centiforme, l’espressione dell’asimmetria del mondo. Se in Lovecraft i mostri hanno bisogno di un momento di fragilità della psiche per mostrarsi e fare danni, per King basta molto meno. Basta essere bambini. King, so quanto è rischioso dirlo, vive il proprio libro e febbricita dalla prima alla duemillesima pagina grazie all’uso della cocaina durante la stesura. Ripensa a Lovecraft, a un paio di cose che gli sono successe da piccolo, pippa e ispirazione ed espirazione aumentano di ritmo, le pagine si riempiono, il Maine fuori dalle finestre si rimpicciolisce; beve gin e Kundalini produce nel suo stomaco profonde spirali di quiete.

Non capisce più nulla, il naso gli gocciola sui fogli vergati di parole in corpo 12, la sua grande silhouette da mollaccione e il suo multidimensionale talento si trasfondono nel sembiante di un ragazzino solo e sperduto in una città deserta, con lo spray per l’asma sempre dietro, incapace di sfuggire alle spire dei bulli della scuola ma che dinanzi all’illusione di uno stupido pagliaccio non cede. Non può finire tutto per colpa di un pagliaccio, altrimenti il mondo sarebbe una pagliacciata. Scrivendo It, trent’anni fa, King diventa il più grande scrittore vivente, per ragioni che vanno ben oltre le mie osservazioni. Grande anche perché ci spiega Lovecraft, ne comprende la struttura filosofica e la sensibilità acuta. Quanto a Nietzsche, che il Re non abbia mai frequentato troppo le pagine dei suoi libri direi che è inutile precisarlo.