Attualità

La fabbrica del cibo degli aerei

Come vengono preparati i pasti che mangiamo in volo? La più importante azienda del settore si chiama Sky Chefs. Abbiamo visitato le sue cucine.

di Davide Coppo

Si prova una soddisfazione del tutto particolare nel conoscere il funzionamento nascosto di un’attività che viene normalmente ritenuta scontata o automatica. È la sensazione che ho provato una delle ultime mattine di marzo, seduto nella  fila 44 di un Boeing 747 appena decollato da Milano per New York. Il momento è stato quello della distribuzione dei pasti: osservavo la hostess condurre il trolley del pranzo e ripartire i vassoi sui tavolini reclinati, illuminati dal sole sorto da poco sopra le Alpi, e pensavo: io lo so come sono state riempite queste vaschette.

Pochi giorni prima ero a Fiumicino a visitare gli headquarter italiani di LSG Sky Chefs, la compagnia leader nel catering aeroportuale, ovvero nel cucinare i pasti che mangiamo sugli aerei. Gli aeroporti mi hanno sempre affascinato per molti motivi. Mi affascinano per la complessità della vita da cui sono attraversati, ogni giorno, a ogni ora: gli impiegati, sia quelli dedicati ad attività strettamente “di volo”, sia i baristi, o i commessi dei duty free, si recano ogni giorno a lavorare in una sorta di zona franca, o meglio: di frontiera. Mi affascinano per la vastità dell’area che occupano. Mi affascina soprattutto la loro destinazione: quella di ospitare mezzi da 400 tonnellate che riescono, seguendo impeccabili leggi  fisiche, ma sfidando la mia scetticissima capacità di comprensione, a sollevarsi da terra e volare.

Gli aeroporti, essendo frontiere, sono posti con un sacco di nascondigli. E il bello dei nascondigli è trovarli, ed esplorarli. È anche per questo che mi sono chiesto: da dove vengono i piccoli pacchetti di plastica che mangiamo sugli aerei? Ed è così che sono arrivato all’aeroporto di Fiumicino, in una mattinata calda, davanti a un edificio basso, i rumori dei decolli e delle turbine accese che sibilano a pochi chilometri di distanza.

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Spiegare come funziona il più grande produttore di pasti aerei del mondo è complicato, ma per dare l’idea di quanto grande sia lo sforzo logistico si può usare un trucco facile che stupisce sempre: i numeri, quelli grandi. Kerstin Lau, una sorridente signora tedesca e molto bionda, “Director of Corporate Communications”, spiega che la produzione di pasti, ogni anno, in tutte le sedi di LSG Sky Chefs, è intorno ai 578 milioni, divisi per 214 aeroporti e 51 nazioni. Nel 2015, soltanto a Fiumicino, LSG Sky Chefs ne ha cucinati e assemblati quasi sei milioni.

Ho visto molte cucine, eppure nessuna è simile a questa. È labirintica, e le regole da seguire sono strettissime: prima di entrare nella zona di ricezione merci, mi viene consegnato da un robot un camice sterilizzato, con una cuffia per i capelli, una mascherina per la barba e delle cuffie-pattine in cui infilare i piedi. Poi devo introdurre le mani in un igienizzatore che ricorda una glovebox, la macchina di vetro, con guanti incorporati, usata per maneggiare materiali radioattivi. A questo punto sono libero di camminare per i 20.000 metri quadrati dell’intera area, a parte gli occasionali checkpoint delle macchine igienizzatrici. Con me, e come me in camice e cuffia e mascherina e pattine, c’è anche Bruno, il Quality Assurance Manager. Gli dico, scherzando, che gli toccherà camminare un sacco di strada per controllare la qualità di ogni cosa, in continuazione. Lui mi dice che fa circa 10 chilometri ogni giorno. «Ho un’app per calcolarli», aggiunge.

Entrando nelle cucine, l’ambiente si fa asettico. I luoghi, solitamente, si caratterizzano per altri fattori oltre alla vista, e naturalmente l’olfatto è uno dei più importanti: se le pareti bianche piastrellate, e le luci al neon incastrate nei soffitti bassi e ancora bianchi, e le linee gialle sui pavimenti per orientarsi, possono ricordare strutture oscillanti tra l’ospedaliero e l’aeroportuale, i profumi disorientano. Ce n’è uno, in particolare, che svetta sugli altri: quello del finocchietto. Seguendolo arrivo nella cella per la verdura. È piccola, ed è il segno, mi spiega Kerstin, che le verdure vengono consegnate fresche ogni giorno. I numeri li leggerò dopo, su un documento aziendale intitolato “A Matter of Logistics” che mi consegna Paolo Ripa, Amministratore delegato: ogni settimana da questa stanza passano in media 2.800 chilogrammi di peperoni, carote, zucchine, e così via. Pochi metri più indietro la luce entra nel “bunker” da due grandi porte aperte. Dalle stesse porte, alcune ore prima, sono entrate le merci. Sono depositate su pallet e consegnate ogni mattina alle sei. La zona della ricezione dei goods, le celle frigorifere, le cucine, le zone di “assemblaggio” pasti, sono sdoppiate come gemelli eterozigoti: la versione piccola è per il cibo halal, quella grande per il cibo di tutti gli altri. Anche le bacheche in cui sono appuntati i nomi dei fornitori sono tenute separate. Avere il certificato di qualità halal, mi spiegano, non è un pranzo di gala.

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Subito dopo Bruno apre, per mostrarmela, una cella frigorifera per la conservazione di carne e pesce, mentre Kerstin rimane fuori perché «fa troppo freddo». Ci sono -22 gradi, una temperatura che forse non ho mai provato in vita mia, e se l’ho fatto non godevo della sola protezione di camice e cuffietta. È freddissimo, i frigoriferi sono austeri, metallizzati. Sulle superfici c’è una sottile patina di ghiaccio cristallizzato, anche sui neon appesi ai soffitti cavernosi, come minuscole stalattiti. È come un enorme freezer. Nel mattino di Roma che sta diventando pomeriggio, mi dice una app metereologica, ci sono più di 20 gradi. Passiamo in fretta in una stanza in cui è in corso la spremitura delle arance per confezionare delle spremute fresche, destinate alla prima classe. Ce n’è una pentola piena e le molecole odoranti arrivano, precisissime, al mio apparato olfattivo. Sento stringersi i denti, e le ghiandole salivari poste sotto la mandibola attivarsi pavlovianamente: acquolina.

Pochi giorni dopo la mia visita a Fiumicino, sul Boeing che vola verso New York, mi accorgo di un dettaglio a cui, nei precedenti viaggi, non avevo prestato attenzione. Me l’ha spiegato Kerstin Lau: volare è un’esperienza noiosa, ed è il motivo per cui gli aerei sono dotati di schermi su cui guardare film o serie tv. Ma queste distrazioni non bastano, sono un’esperienza troppo passiva, e a uno può venire a noia anche un film (a me capita sempre). Per questo c’è il cibo: «Mangiare, durante il volo, è un’esperienza di intrattenimento». Quindi va curata la forma, oltre alla sostanza: un fattore fondamentale nella creazione di un menu è il colore. Il vassoio deve essere gradevole all’occhio prima che arrivi al gusto. «You have to play with food», dice. La compagnia, poi, si occupa anche di mantenere accesi i sensi del passeggero: intrappolato su un sedile – la massima libertà è camminare avanti e indietro per un corridoio – viene sottoposto regolarmente a scelte: ci pensano i trolley del bar e degli snack, costantemente in funzione. Succo di pomodoro o acqua? Caffè o tè? Birra o vino?

Come si sviluppa un menu, cioè, da chi parte l’idea? È innanzitutto la compagnia aerea che sceglie il numero dei menu annuali e la loro frequenza. Successivamente LSG Sky Chefs elabora la richiesta e la presenta di nuovo alla compagnia. Il processo di disegno, presentazione e realizzazione  finale può durare dai due ai sei mesi. A questo punto, gli chef compilano la lista delle materie prime da reperire. Nella divisione europea di LSG Sky Chefs lavorano 16 chef, alcuni a Francoforte, il quartier generale continentale, altri presso i diversi scali. Spesso, tuttavia, si muovono nelle varie location per effettuare la formazione degli chef operativi locali.

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Il cibo è un fantastico archivio della storia delle società, del loro sviluppo e delle loro trasformazioni. Ci sono molti fattori che incidono sulla scelta di un menu: l’età dei passeggeri che solitamente percorrono le rotte, e ovviamente il loro background religioso. Entro nella cucina halal: sui tavoli di acciaio sono disposte ordinatamente vaschette trasparenti riempite con spezie colorate. L’ambiente è piccolo, anche se enorme in confronto a quello di un ristorante. Un grande armadio blindato è l’abbattitore: i piatti, appena cotti, devono essere immediatamente raffreddati: in quattro ore il “blast chiller”, come lo chiama Kerstin, li porta da 60 a 5 gradi. Bruno ne apre uno, e ci investe una nuvola invisibile di profumi che chiamerei con una brutta parola “etnici”, indistinguibili singolarmente, piacevoli nel loro insieme. Non c’è fretta come nelle cucine normali. Nessuno urla. L’olio frinisce nelle grandi padelle, che vengono fatte oscillare con due braccia dai cuochi. I clienti di queste cucine non attendono il piatto caldo, in una sala da pranzo a pochi metri da qui. Lo aspetteranno tra qualche ora, a dieci chilometri di distanza, nella ionosfera. C’è silenzio. Di tanto in tanto, senza motivo, torna a titillare l’olfatto il sentore di finocchietto.

Nella cucina tradizionale, più avanti, lo spazio è molto grande. È un open space, ma i piani di lavoro e i fuochi creano delle specie di divisioni tra le varie zone. Per ogni tipo di cucina c’è un cuoco specializzato: come spiega Kerstin, il cibo dedicato a una compagnia cinese non deve essere «cinese-europeo», ma «cinese-cinese». Lo stesso vale per tutti gli altri: alla mia sinistra, vicino all’ingresso, c’è la zona coreana. La chef, Bianca, ha riempito una grande vaschetta (una vasca?) di zucchine e carote à la julienne. Si sta dedicando ora a peperoni e cipollotti. Dopo c’è l’area cinese, con pentole davvero giganti, sembrano destinate a mani fuori scala, e invece il cuoco cinese è minuto, le smuove con movimenti sapienti dei gomiti, per rivelare una fiamma alta venti, trenta centimetri. Si solleva da un fornello che somiglia a un vulcano, adagiato su un mobile con i bordi più alti della superficie del ripiano in cui stagna dell’acqua, come un piccolo lago d’acciaio. Bruno mi spiega che sono fuochi particolari, utilizzati per alcuni piatti cinesi che richiedono temperature elevatissime. L’acqua è necessaria per evitare che il fuoco faccia diventare incandescente il mobile. Se ne sono dotati per rendere totalmente autentica anche l’esperienza di cottura, dice Bruno. Passo affianco a vasche tipo enormi asciugatrici a gettoni, un cuoco con un mestolo dice che è ragù, «qui ce ne sono cinquanta chili». Non nasconde un tono soddisfatto. Poco dopo una grande padella mossa a due mani dagli avambracci gonfi di un altro cuoco attrae la mia attenzione. Le ghiandole si attivano, di nuovo. Si chiama Alfonso, e con un forte accento romano mi dice che è guanciale fritto per i garganelli. Vicino a lui, sul piano di lavoro, ci sono straccetti di bresaola che aspettano di essere cucinati. Il cuoco dice: «È sempre per i garganelli, ma per le tratte di magro in cui non ci va il guanciale». Sembra poco convinto della variazione. Il rumore del grasso che si scioglie nell’olio bollente è allegro, come una pineta piena di cicale.

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Una volta cotti e abbattuti, i cibi devono essere impiattati, di- sposti nei contenitori che verranno poi caricati nei trolley e por- tati sugli aerei. Nella stanza dedicata a quello che Kerstin chiama «final assembly» lavorano molte più persone. Prima di entrare igienizziamo le mani per la quarta volta: tutto funziona con fotocellule sensibili al movimento, in modo che non si debba toccare niente. C’è un computer che contiene un archivio di tutte le ricette, compagnia per compagnia, più le istruzioni estetiche per appoggiare le diverse componenti nella maniera corretta. Dalle cucine alla disposizione dei piatti nei rispettivi contenitori mi stupisco di come l’intero processo sia così poco automatizzato: sono le persone a fare tutto. Ogni giorno, in questa stanza vengono preparati 23.000 vassoi. Le macedonie disposte sui piatti creano un pattern affascinante. Kerstin spiega che i piatti devono somigliarsi tutti, e tutto è tagliato nello stesso modo, e nello stesso modo disposto nel rispettivo contenitore. Ci sono altre istruzioni molto rigide circa l’impiattamento, che un ristorante “normale” non avrebbe bisogno di seguire: le pietanze non possono essere troppo alte, né troppo larghe; non si usa carne cruda, mai; i cibi non possono essere liquidi; soprattutto, le cose non devono rotolare. Mirtilli? Non lasciateli liberi su un aeroplano!

I piatti “caldi” che vengono infilati nei trolley non sono, comunque, pronti all’uso, ma devono essere riscaldati a bordo. È il motivo per cui nelle cucine, poco fa, sono stati tolti dai tegami, dai forni o dalle padelle con un leggero anticipo: la cottura arriverà “a puntino” soltanto in cabina. C’è un’altra criticità con cui compagnie come LSG Sky Chefs devono fare i conti, e che un passeggero, ancorché poco attento, avrà indubbiamente notato. La depressurizzazione delle cabine a 10.000 metri, la scarsezza di umidità, perfino le vibrazioni, incidono sul nostro senso del gusto. Kerstin Lau snocciola i dati: la percezione della sapidità si riduce del 30 per cento; quella degli zuccheri del 20. La soluzione, naturalmente, non è aggiungere più sale o più zucchero: il sapore di un piatto si regge su un equilibrio delicato, un’equazione. Sta allo chef riuscire a riprodurre, con un’alchimia gentile di spezie, i sapori della terraferma. Su un tavolo staccato dagli altri ci sono dei piccoli piatti fondi, grandi quanto tazzine di caffè, con della bresaola e del prosciutto di tacchino. L’addetto che li sta componendo mi dice: «Questi sono per la Roma che va in trasferta. Sono quelli che chiamiamo voli Vip: il Papa, il Presidente del Consiglio, e la Roma».

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L’esercito metallico dei trolley – nuovi e ammaccati, marchiati di adesivi strappati e non, belli da osservare spogliati della loro corazza frontale, con i dodici o più vassoi impilati all’interno, per ogni lato – viene portato in rampa di carico. Dopo un’immersione di silenzio ovattato, tipico della zona di impiattamento dei “freddi”, ci si risveglia all’improvviso in un aeroporto. I camion sono disposti per ricevere i trolley da portare sull’aereo a cui sono destinati. Un finanziere controlla tutto, prima che venga messo sul camion. Durante lo scarico, prima di salire a bordo, un altro finanziere controllerà ancora. È una procedura di sicurezza, ma mi diverte pensare che il finanziere 2 controlli che il finanziere 1 abbia controllato. Si sentono i sibili dei motori degli aerei accesi e parcheggiati; a volte il soffio forte, arrabbiato, di un velivolo che si lancia sulla pista di de-collo per raggiungere il V1, attivare i flap, librarsi. Qui sono l’unico a dire “aereo”: dicono tutti «aeromobile», oppure «carrier». Torniamo indietro velocemente, posso restituire il camice al robot. Penso alla quantità di aerei che stanno volando in questo momento sopra di me. Penso a quanto cibo caricano. Al piacere della velocità di crociera sopra il bianco delle nuvole, alla sorpresa attesa del vassoio sul tavolo, alla coreogra a di hostess e stewart, succo di pomodoro, snack, pranzo, birra, caffè, succo di pomodoro. Atterraggio.

 

Fotografie di Delfino Sisto Legnani