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Siamo proprio sicuri che il nuovo It sia meglio del vecchio?

È arrivato nelle sale italiane il 5 settembre il secondo capitolo dell'adattamento del classico di Stephen King diretto da Andy Muschietti.

di Alessio Altieri

Come ha fatto un prodotto così mediocre in quasi ogni suo aspetto come la miniserie It, trasmessa in due episodi nel novembre 1990 da Abc, a diventare icona immortale del terrore? In parte c’entra, ovviamente, l’incredibile abilità di Stephen King di creare, nell’omonimo best seller, una storia  monumentale da cui attingere. Ma in parte, appunto, perché nell’adattare un suo testo a volte è andata bene in un modo, a volte in un altro. C’entra molto in realtà Tim Curry con la sua interpretazione di Pennywise, che un colpo di scalpello alla volta per ogni movenza o espressione inventata, ha scolpito un personaggio inedito e terrificante, scemo e sublime, torbido come una fogna nella sua condizione di strisciante onnipresenza.

Tutta l’attesa per la prima trasposizione cinematografica divisa in due capitoli (il primo è uscito nel 2017, il secondo lo scorso 5 settembre) è la dimostrazione del processo di introiezione collettiva di questo clown con in mano un palloncino avvenuta negli ultimi trent’anni, e di come le vie della fascinazione pop siano spesso oscure ma sacre (di nuovo: l’It televisivo era già modesto per gli standard dell’epoca, e a guardarlo oggi è invecchiato malissimo, ma poiché è It, e sta lassù nell’immaginario di tutti noi, va preso serissimamente). Per questi due capitoli cinematografici nati con l’obbligo – assolto – di dover essere due successoni di pubblico, è stata scelta la via della semplicità narrativa, e il caratterizzante intreccio tra le vicende passate e presenti del club dei perdenti è stato sostituito da due blocchi divisi: nel primo capitolo le vicende dei ragazzini, in questo secondo quelle dei grandi.

Nessuno dei sette, a eccezione di Mike, ha continuato a vivere a Derry, nessuno vive più nemmeno nel Maine, e la lontananza ha fatto svanire totalmente il ricordo delle atrocità vissute in infanzia. Ci vuole la telefonata del bibliotecario Mike (l’unico rimasto e anche l’unico a non avere una carriera scintillante) per risvegliare le coscienze. Perché It è tornato, ed è ora di tenere fede al patto fatto 27 anni prima: se si fosse rifatto vivo, si sarebbero riuniti per ucciderlo una volta per tutte. La partenza di questo secondo capitolo rende immediatamente fiduciosi, perché quando dei bulli un po’ troppo cresciuti pestano senza pietà l’omosessuale Xavier Dolan (che si vede per pochissimi minuti in questa scena d’apertura e letteralmente per un secondo più avanti) Derry sembra Gotham. Un annidamento di oscurità umana che è soprattutto un luogo mentale, che proprio come It, il mostro che lo abita da millenni, assume contorni più reali nutrendosi della paura mantenuta costante attraverso violenza e soprusi. E così ha perfettamente senso che la lontananza fisica e di pensiero, da Derry o dal passato, possa rimuovere il suo ricordo e annullarne l’esistenza.

Lo spartiacque del film è la scena della reunion al ristorante cinese, che era emozionante nella miniserie e fantastica qui. Merito del grande cast (James McAvoy, Jessica Chastain, Bill Hader, James Ransone i migliori) che la rende traboccante di nostalgia positiva, di bei ricordi andati, di vita vissuta, di affetto intatto ma anche di un dolore indelebile. Da qui, nel passaggio dai ricordi “fluttuanti” a una ricerca estremamente materica della risoluzione, tutto inizia ad andare a rotoli in termini di godibilità del film. Non possiamo rimproverare al regista Andy Muschietti di non essere Lynch, e non essere riuscito a mantenere il male all’interno delle strade perdute della mente umana, ma il modo in cui prima lima il tutto verso una convenzionalità stucchevole e poi lo sbrodola in un film di due ore e cinquanta decretano un fallimento con pochi appelli. Perché, al netto di qualche pigro jumpscare, It – capitolo 2 non fa paura, ma soprattutto non suggella il progetto con l’unico elemento che gli avrebbe dato davvero senso: donare un nuovo posizionamento iconografico e aggiornare l’immaginario comune.

I due nuovi It non lo fanno, vivono di rendita sui presupposti di successo assicurati dalla vecchia gloria del “marchio”, non forniscono nuove suggestioni e non creano una propria epica. Il risultato? Incassi da record, certo, ma dopo trent’anni ci ricordiamo ancora del Pennywise di Tim Curry, il nuovo è uscito da una settimana e quasi l’abbiamo dimenticato.