Attualità | Industria

Sergio Marchionne e gli Agnelli

Cosa ci racconta del manager appena scomparso il suo rapporto con la famiglia più importante del capitalismo italiano.

di Luca D'Ammando

The head of carmakers Fiat and Chrysler, Sergio Marchionne, listens during the general assembly of Fiat on April 4, 2012 at the Lingotto in Turin. Marchionne repeated his belief two weeks earlier that Europe should reduce auto production capacity by 20 percent. AFP PHOTO / GIULIO LAPONE (Photo credit should read GIULIO LAPONE/AFP/Getty Images)

Sergio Marchionne, morto oggi mercoledì 25 luglio, è stato il primo manager del gruppo Fiat a non aver conosciuto Gianni Agnelli. Un aspetto apparentemente marginale, in realtà decisivo nel comprendere l’impresa che il manager italo-canadese ha realizzato in questi quattordici anni. Quando Umberto Agnelli lo chiamò alla guida, Marchionne ha preso in mano un gruppo industriale tecnicamente fallito e lo ha portato fuori dalla crisi e dal provincialismo italiano in cui era piombato. E lo ha fatto dovendo gestire i rapporti con la famiglia Agnelli, con tutto quello che ciò comporta: la storia e la leggenda, il prestigio, il fascino e le tragedie.

«Per tante ragioni storiche e culturali noi europei siamo condizionati dal passato, l’idea di chiuderlo per far nascere una cosa nuova ci spaventa», disse Marchionne in una delle rare interviste, a Ezio Mauro in questo caso, appena firmato l’accordo per l’acquisizione di Chrysler. Un’affermazione che definisce perfettamente la contraddizione fondamentale che aveva dovuto affrontare sin dal 2004, quando prese il comando della Fiat: imporre una visione internazionale avendo tra le mani un’industria ministeriale e allo stesso tempo un azionista all’epoca fragilissimo, col difficile compito di provare a metter da parte i miti dinastici. Se gli Agnelli sono stati la vera famiglia regnante del Novecento italiano, il loro ruolo imprenditoriale sembrava ormai destinato a svanire prima dell’arrivo di Marchionne, nel 2004. Senza più il faro dell’Avvocato, con il troppo breve interregno di Umberto, il gruppo sembrava in declino irreversibile, con una famiglia sempre più ampia e slegata e una generazione di mezzo ai tempi giudicata ancora non pronta a prendere il timone.

Franzo Grande Stevens, l’avvocato dell’Avvocato, saputo delle gravi condizioni di Marchionne, ha sentito il bisogno di inviare una lettera al Corriere della Sera in cui ha scritto che «Sergio è un uomo che sarebbe piaciuto a Giovanni Agnelli, che da sabaudo illuminato aveva dimostrato sempre grande interesse per gli intellettuali e per i sofisticati meccanismi finanziari dedicando del tempo ad affrontare tematiche di cultura illuministica e storica. Giovanni Agnelli ne avrebbe apprezzato la “unicità”». In realtà l’immagine di Marchionne è l’opposto di quella di Giovanni Agnelli, eppure entrambi hanno creato una sorta di culto, sono diventati miti pop (l’orologio sul polsino, il maglione nero e tutta la mistica che affascina tanto i media italiani). E, soprattutto, hanno conosciuto la difficoltà di essere dei leader, di prendere decisioni. Giovanni Agnelli diceva che si comanda uno alla volta; una delle frasi più citate di Sergio Marchionne è «chi comanda è solo».

Come già ricordato, a Torino Marchionne lo aveva portato Umberto Agnelli, che lo aveva conosciuto in Sgs e lo aveva voluto nel consiglio di amministrazione. Il primo giugno 2004, pochi giorni dopo la morte di Umberto, è lui l’uomo scelto per guidare la rinascita, con Luca di Montezemolo presidente e John Elkann, allora ventottenne, vicepresidente. Ecco, John Elkann è l’altra figura centrale nell’avventura di Marchionne nel mondo Fiat-Fca. Nelle ore drammatiche in cui ha riunito i Cda del gruppo per nominare i successori del manager, il presidente di Fca ha scritto una lettera a tutti i dipendenti, una lettera straordinariamente intensa visto il riserbo dell’uomo e l’abituale asetticità della comunicazione Fiat: «Negli ultimi 14 anni Sergio è stato il migliore amministratore delegato che si potesse desiderare e, per me, un vero e proprio mentore, un collega e un caro amico. Ci siamo conosciuti in uno dei momenti più bui nella storia della Fiat ed è stato grazie al suo intelletto, alla sua perseveranza e alla sua leadership se siamo riusciti a salvare l’azienda».

Anche grazie alla forza dei numeri e alla visione di Marchionne, John Elkann ha avuto la capacità di non farsi schiacciare dall’eredità familiare, il cui pesò condizionò, in alcuni casi, le scelte del nonno. L’esperienza della crisi, del default familiare intravisto, ha come liberato John Elkann dagli spettri del passato. A completare la rivoluzione ci ha pensato l’uscita di scena degli ultimi rappresentanti della cerchia dell’Avvocato, fra cui Luca Cordero di Montezemolo, l’uomo quasi di famiglia che con le sue relazioni ha mantenuto viva una parvenza di quello che fu il “partito Fiat”. Nella sua opera il cosmopolita Marchionne – infanzia abruzzese, adolescenza canadese, maturità svizzera – si è trovato e poi si è scelto convintamente come spalla il cosmopolita John Elkann per scardinare i muri del sistema imprenditoriale italiano e aprire alla globalizzazione la vecchia Fabbrica Italiana Automobili Torino.

 

Nelle foto: Sergio Marchionne: Il manager e John Elkann nel 2006  (GIUSEPPE CACACE/AFP/Getty Images)