Attualità

Scrivere di dolore

Perché è così difficile scrivere di un lutto? Che differenze ci sono tra un manuale e un romanzo toccante? Perché Gramellini no e Joan Didion sì?

di Cristiano de Majo

Molti memoir, molte autobiografie, molti racconti sul dolore firmati da autori italiani sono usciti negli ultimi mesi. Spesso, e lo dico non solo a titolo personale ma presumendo di interpretare un sentimento diffuso tra i cosiddetti lettori forti appassionati di cose letterarie, sono libri che abbiamo visto solo in tv, ma non abbiamo letto per una forma di pregiudizio o di preveggenza. Per esempio, il libro di Battista sulla morte della moglie, il libro di Amurri sull’incidente che lo ha costretto su una sedia a rotelle per sempre, il libro di Ervas sul viaggio in moto di un padre con un figlio autistico, il libro di Nicoletti sul figlio autistico, il libro autobiografico di Frascella sugli attacchi di panico, dulcis in fundo il libro di Gramellini sulla madre, e altri, molti altri ancora; grandi successi commerciali e tentativi andati a vuoto di parlare a un pubblico ampio, rarissimamente però sostenuti da un’idea forte di letteratura.

Un articolo di Simonetta Fiori uscito sulla Repubblica del 31 marzo scorso registrava la tendenza con una lista folta ma comunque incompleta di titoli, soffermandosi soprattutto sugli aspetti moralmente discutibili di queste operazioni editoriali: il racconto del dolore (la morte, la malattia) come gallina dalle uova d’oro per case editrici prive di scrupoli, la conseguente rinuncia al pudore a imitazione del costume televisivo. Nello stesso articolo, poi, veniva correttamente fatto notare che «altrove l’editoria del dolore esiste da sempre» e che «in America la tendenza è in auge da tempo, nella chiave molto pragmatica del “dai, possiamo farcela”».

Il “dai possiamo farcela” è senz’altro una categoria da tenere in considerazione. Ma bisognerebbe completare il quadro, perché se è vero che editoria americana e anglosassone producono grandi quantità di libri-testimonianza senza alcun valore letterario, è altrettanto vero che in quella lingua vengono scritti memoir e autobiografie che sono pietre miliari della letteratura mondiale e che il dibattito sulla fame di realtà, innescato dall’omonimo libro dell’americano David Shields, che ormai finisco per citare un pezzo sì e uno no, è uno dei più interessanti e vivi contributi alla teoria letteraria degli ultimi anni. Proprio sulla scorta di quel libro, si potrebbe obiettare ai facili moralismi che il proliferare di racconti sul dolore, più che corrispondere a cinismo editoriale, risponde a un’esigenza di lettori e autori sempre meno disposti a credere nei romanzi. Ma il problema semmai è un altro.

Ho la fortuna di tenere insieme a Christian Raimo per il secondo anno consecutivo un corso di scrittura sulla non fiction (termine chiaramente di comodo che sarebbe più preciso sostituire con non romanzesca), la cui prima lezione si è svolta il mese scorso. Oggetto di quella prima lezione: raccontare la malattia, con la lettura e l’analisi di alcuni esempi tra loro molto diversi (fiction, memorialistica, giornalismo, saggistica pura). Tra gli altri, abbiamo letto qualche pagina di Tutti i bambini tranne uno, il resoconto commovente e tostissimo di Philippe Forest sulla morte per tumore alle ossa della figlia di quattro anni e A parte il cancro tutto bene, testimonianza del giornalista di Repubblica Corrado Sannucci della sua lotta contro la malattia, un tipico “dai possiamo farcela”, che si legge con una strana sensazione al pensiero che successivamente alla pubblicazione Sannucci sia morto.

Osservazione di una corsista attenta dopo la lettura di quattro cinque pagine del libro di Sannucci: «C’è un uso insistito di metafore sportive». È proprio così ed è bastato leggere in parallelo un piccolo pezzo dei due libri, prendendo in esame due momenti molto simili – la scoperta della malattia – per accorgersi di una differenza enorme. Il libro di Sannucci è un racconto auto-ironico, esorcizzante e ricco di volontà di guarire che, a partire dal packaging, si rivolge al lettore con un messaggio abbastanza preciso che è: questo libro ti può aiutare. Al contrario il libro di Forest, palesemente privo di scopi e di messaggi, è soltanto il resoconto di una delle più violente tragedie che possano capitare a un uomo, ed è un resoconto che non offre risposte, semmai descrive realisticamente i tentativi andati a vuoto di trovare delle risposte, ma soprattutto è un resoconto che trasforma il dolore in una ricerca di bellezza. Come? Modellando l’esperienza con lo scalpello dello stile. Così Forest non si limita a offrire il suo dolore allo sguardo altrui affinché se ne traggano degli insegnamenti, ma fa in modo che lo sguardo diventi immedesimazione completa. Insomma, la stessa differenza che passa tra un manuale (e sia detto con tutto il rispetto per Sannucci) e la letteratura.

Allora, se raccontare il dolore è un’operazione che non può essere valutata moralmente a priori, forse il problema è che Italia ci sono molti manuali e pochissima bellezza. In quanto a bellezza, per esempio, mi vengono in mente due libri autobiografici che ho letto abbastanza di recente, La vita oscena di Aldo Nove e Dopo il lampo bianco di Silvio Bernelli, che sono due libri a mio parere non riusciti o non completamente convincenti, ma che comunque hanno il pregio di essere due tra i rari tentativi italiani di affrancare la letteratura dell’esperienza dalla manualistica. Poi ci sono le pericolose vie di mezzo. Quel genere di libri presentati dai lettori come capolavori senza mezzi termini, ma che puzzano di manuale.

Vengo così al tentativo di suicidio letterario che ho messo in atto in questi giorni, un po’ a causa del corso, un po’ per quella che considero una eticamente doverosa verifica dei pregiudizi nei confronti del best seller, di cui spessissimo presumo male: leggere Fai bei sogni, il memoir di super-successo di Massimo Gramellini. Ed eccomi di fronte al peggio di quello che mi aspettavo. Un libro con un materiale potenzialmente molto forte, la morte in circostanze misteriose di una madre, scritto con uno stile molto poco convincente. Prima con il goffo tentativo di Gramellini di imitare la voce di un se stesso decenne in un’atmosfera che sta tra i film di Alvaro Vitali e quella nostalgia calcistico-televisiva che ha visto proprio Fabio Fazio tra i suoi massimi propugnatori. Poi con l’altrettanto goffa trasformazione da decenne secchione a uomo maledetto che fa soffrire le donne. Infine con il colpo di scena a effetto, e finalmente pertinente alla materia del racconto, che arriva quasi a conclusione del libro e che finisce per palesare un mostruoso malinteso della costruzione narrativa.

Pensate poi che Gramellini, in una delle tirature successive alla prima, ha deciso (o non ha evitato) di inserire un capitolo in cui racconta degli effetti benefici del libro in questione sui suoi lettori, manifestando a chiare lettere l’idea che il suo libro sia aiuto e medicina per il prossimo (cioè l’idea manualistica dell’esperienza) e, non contento, e qui è il caso di dirlo, senza alcune senso del pudore, ha allegato una serie di paginate con i commenti lasciati da alcuni di questi lettori sui social network, tra cui spiccavano per esempio: Grazie. Dopo aver letto il libro spero di diventare una mamma migliore. Oppure: Superbo e commovente. È un libro introspettivo come pochi se ne sono letti. O ancora: Solo: grazie Massimo.

Ora l’effetto per me è stato il seguente: questi lettori, che io avrei voluto rispettare, capire, ma lo sforzo a quel punto era veramente troppo, li avrei contattati uno per uno. Avrei voluto avere le loro mail per scrivergli:sapete? La letteratura non serve a niente. Non è una riabilitazione, e neanche una fisioterapia. Piuttosto, cercate la bellezza. Leggete un libro di Joan Didion.