Cose che succedono | Letteratura

Cosa pensano gli scrittori dei loro libri?

Su Literary Hub, Emily Temple ha raccolto le dichiarazioni di 12 scrittori sui loro romanzi più famosi. Noi ne abbiamo scelte 6: da David Foster Wallace che riflette sul suo malloppo, definendolo prima di tutto un “libro triste” (e sottolineando quanto detesti i romanzi che sfidano il lettore) a Nabokov, così innamorato della sua Lolita da confessare di essere perfino riuscito a perdonarla per aver oscurato tutte le altre sue opere letterarie.

David Foster Wallace su Infinite Jest

«Volevo scrivere qualcosa di triste. Avevo fatto delle cose divertenti e delle cose pesanti e intellettuali, ma non avevo mai fatto nulla di triste. E volevo che non avesse un singolo personaggio principale. L’altra banalità: volevo fare qualcosa di davvero americano, su cosa vuol dire vivere in America in questo millennio… È un libro strano. Non si sviluppa come fanno i libri normali. Ha un sacco di personaggi. Penso che faccia almeno un tentativo di essere abbastanza divertente e avvincente pagina per pagina, quindi non mi sento come se stessi colpendo il lettore con un martello, tipo, “Ehi, ecco questa cosa davvero difficile, incredibilmente intelligente. Vaffanculo. Vedi se riesci a leggerlo”. Conosco libri del genere e mi fanno incazzare».

Kazuo Ishiguro su Quel che resta del giorno

«È iniziato tutto con una battuta di mia moglie. Attendevamo l’arrivo di un giornalista che avrebbe dovuto intervistarmi sul mio primo romanzo. E mia moglie ha detto: “non sarebbe divertente se questa persona venisse a farti queste domande serie e solenni sul tuo romanzo e tu fingessi di essere il mio maggiordomo?” Abbiamo pensato che fosse un’idea molto divertente. Da quel momento in poi sono rimasto ossessionato dalla metafora del maggiordomo».

Margaret Atwood su Il racconto dell’ancella

«Mi chiedono se Il racconto dell’ancella è un romanzo femminista. Se per femminista intendiamo un trattato ideologico in cui le donne sono angeli e/o vittime, no. Se intendiamo un romanzo in cui le donne sono esseri umani – con tutta la varietà di caratteri e comportamenti che questo implica – e sono anche interessanti e importanti, e ciò che accade a loro è cruciale per il tema, la struttura e la trama del libro, allora sì. In questo senso, moltissimi libri sono femministi».

Philip Roth sul Lamento di Portnoy

«Un libro precoce, animato dal buon umore, dalla felicità e dallo spirito libero di quei tempi… Senza saperlo, mi ero già imbattuto nel mio tema – l’impurità. L’impurità del “composto umano”… Rileggendo Lamento di Portnoy a 80 anni, sono rimasto scioccato e soddisfatto: scioccato per il fatto di aver potuto essere così spericolato, soddisfatto per il fatto di esserlo stato».

Vladimir Nabokov su Lolita

«Non mi pentirò mai di Lolita. Era come un bellissimo puzzle: Lolita era la sua composizione e la sua soluzione allo stesso tempo, poiché l’una è speculare all’altra, a seconda del modo in cui lo si guarda. Ovviamente ha completamente eclissato le altre mie opere, almeno quelle che ho scritto in inglese: i libri, i racconti, i miei ricordi; ma non porto alcun rancore verso di lei, per questo. Conservo una curiosa, tenera fascinazione per quella mitica ninfetta».

Jonathan Franzen su Le correzioni e Libertà

«Sono davvero molto interessato all’autoinganno. Il romanzo realista presuppone che l’autore abbia accesso alla verità. Implica una superiorità dell’autore nei confronti dei suoi personaggi comicamente folli. Le correzioni è stato scritto come una commedia, una commedia un po’ arrabbiata, e quindi il modello di autoinganno ha funzionato perfettamente. Lo scrittore infligge al lettore la dolorosa conoscenza di un personaggio dopo l’altro».

«In Libertà, la metafora ricorrente è il sonnambulismo. Non che tu ti stia ingannando, semplicemente dormi, non stai prestando attenzione, sei in una sorta di stato di sogno. In Le correzioni mi ero preoccupato dei mondi irreali, quelli che ci costruiamo noi stessi per viverci dentro. L’incantesimo ha una connotazione positiva, ma anche nelle fiabe non è una cosa buona, di solito. Quando sei sotto incantesimo, sei perso. E lo scrittore realista può svolgere un ruolo utile nel rompere violentemente l’incantesimo. Ma qualcosa sulla posizione che lo scrittore mantiene in tutto questo – il possessore di verità, il gendarme epistemologico – ha iniziato a mettermi disagio. Ora mi interessa molto di più raggiungere i miei personaggi nei loro sogni e sperimentarli insieme a loro: il fatto che si tratti soltanto di un sogno mi interessa sempre meno».