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Scalfarotto, l’omofobia e le unioni gay

Un'intervista a tutto campo col parlamentare che ha dato il nome al ddl anti-omofobia. Si è parlato di ruolo della politica nei cambiamenti culturali, del suo rapporto coi cattolici e del perché oggi porta Federico a cena da sua madre.

di Davide Piacenza

Ivan Scalfarotto è un deputato del Partito democratico, dallo scorso 28 febbraio sottosegretario alle Riforme costituzionali e ai Rapporti col parlamento del governo Renzi. È autore di un disegno legislativo che porta il suo nome e propone di estendere la legge Reale e il decreto Mancino alle discriminazioni subite da persone omosessuali.

Oltre a questo, ieri Repubblica e altre testate hanno dato notizia di un piano del governo per approvare in tempi brevi le unioni civili sul modello tedesco, equiparando legalmente i legami fra persone dello stesso sesso a quelli fra eterosessuali sposati, ma limitandosi, nel campo delle adozioni, a quelle dei figli naturali del coniuge. A Scalfarotto ho chiesto a che punto siamo nel processo culturale di riconoscimento dei diritti civili in Italia, cos’è cambiato negli ultimi anni, come si sente a far parte di un governo sostenuto da Ncd e Alfano e guidato da un premier cattolico, cosa risponde alle Sentinelle in piedi.

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Davide Piacenza: Ho visto su Twitter che non ha gradito il titolo di Repubblica di oggi (ieri per chi legge: recita «Arriva la legge sulle unioni civili, ma solo per i gay», nda).

Ivan Scalfarotto: È un titolo orribilmente sbagliato perché presenta un superamento della discriminazione come fosse la concessione di un privilegio a una minoranza rispetto a una maggioranza. Non è assolutamente così: è come confondere le vittime e i carnefici. Di norma, nella maggior parte dei paesi si opta l’allargamento del matrimonio a tutti i cittadini etero e omosessuali. Nel nostro caso le cosiddette unioni civili sono fatte come una forma di surrogato del matrimonio: è un primo passo volto al superamento di una discriminazione. Invece quel titolo suggerisce che qualcosa venga tolto a qualcuno, cioè gli eterosessuali che, non volendosi sposare, non si vedono riconosciuti dei diritti minimi. La confusione tra chi non si vuole sposare e chi non si può sposare in questo contesto è però molto grave. Una cosa è negare l’accesso al matrimonio agli omosessuali, un’altra è regolamentare quelle coppie che decidono di non accedere al matrimonio. Il lettore di Repubblica che legge quel titolo, anziché felicitarsi del fatto che l’Italia si allinei alle più importanti democrazie del mondo, pensa che l’esecutivo stia scegliendo una minoranza da privilegiare. È un titolo culturalmente omofobico, senza contare che Repubblica è un organo di stampa progressista.

DP: Nello stesso articolo ho letto che questo disegno di legge sarà in Consiglio dei ministri già la prossima settimana. È corretto?

IS: Personalmente sto dicendo a tutti di non impiccarci sulle date, perché non è questo l’importante. Dopo decenni di attesa non starei a guardare a una settimana in più o una in meno. Ciò che è importante è che il governo e il presidente del Consiglio riaffermano che la modernizzazione del paese passa anche di qui.

Nel nostro caso le cosiddette unioni civili sono fatte come una forma di surrogato del matrimonio: è un primo passo volto al superamento di una discriminazione.

DP: Il cambio di percezione dell’omosessualità nel mondo è un dato innanzitutto culturale. La cover story dell’ultimo numero dell’Economist, dedicata al tema, ricorda che soltanto nel 1985 per la società di rilevazioni Gallup nemmeno un quarto degli americani dichiarava di conoscere gay o lesbiche. Oggi siamo al 75%: si tratta, stando ai dati, della più rapida variazione dell’opinione pubblica statunitense su tematiche sociali controverse. In Italia a che punto siamo, e perché?

IS: In questi ultimi quarant’anni,  in particolare negli Stati Uniti attraverso il fenomeno epocale per la comunità lgbt che è stata l’epidemia del virus HIV, il modo di vivere l’omosessualità è cambiato: c’è stato uno spostamento da una prospettiva che aveva a che fare esclusivamente con la sessualità all’affermazione di un progetto di vita che va ben oltre questa sfera. Gli omosessuali in questi decenni hanno imposto al mondo il fatto che la loro sessualità va compresa anche attraverso l’affettività e la dimensione sociale. Essere omosessuale ha a che fare con la completezza della mia vita, non solo con la mia sessualità. Sono omosessuale perché il mio compagno è un uomo e intendo vivere la mia vita con lui, e desidero che questo nostro impegno reciproco sia preso davanti alla nostra comunità, nonché riconosciuto dalla stessa.

La mia relazione richiede esattamente le stesse formalità che richiede una coppia omosessuale: quando mi si dice che non si può applicare il matrimonio alla relazione omosessuale perché quest’ultima sarebbe diversa da quella eterosessuale rispondo che non è affatto vero: siamo coppie come le altre. I nostri bisogni di diritti e i nostri desideri di acquisire doveri sono i medesimi di quelli di una relazione etero. Tutto questo ha comportato una diversa visibilità, per cui cinquant’anni fa forse avrei potuto evitare di informare mia madre di essere omosessuale, mentre oggi semplicemente vado a cena da lei con Federico. Mia madre in quel sondaggio Gallup prima non ci sarebbe stata: adesso c’è.

DP: In Italia si riscontra comunque un po’ di arretratezza su questi temi. Secondo lei perché?

IS: In realtà non siamo poi così indietro, almeno nella pratica. Scontiamo un grande ritardo politico, questo sì. La politica non ha saputo avere il coraggio di assumere una posizione di leadership. Ci sono paesi culturalmente affini all’Italia dove leggi di questo genere, promulgate dalla politica con anticipo, sono servite a modellare la società. Qualsiasi legge contiene sempre un messaggio di contenuto pedagogico. L’intervento legislativo esprime alla comunità nazionale qual è la posizione della politica, la visione della leadership. In Italia però è la legge a inseguire la società. Una delle cause generanti l’antipolitica, io credo, è anche una sensazione di inettitudine che i cittadini percepiscono nel legislatore. Quando dei fenomeni sono presenti in modo visibile nella società e reclamano riconoscimento, dove non arriva la politica arrivano altre autorità dello Stato, come per esempio la magistratura. Ma un riconoscimento giuridico rimane parziale, perché si riferisce a un caso specifico, da una parte, e dall’altra si rifà a un meccanismo di rivalsa: mi devo rivolgere al giudice perché tu, politico, non sei stato in grado di garantire i miei diritti.

Quando mi si dice che non si può applicare il matrimonio alla relazione omosessuale perché quest’ultima sarebbe diversa da quella eterosessuale rispondo che non è affatto vero.

DP: La legge Reale e il decreto Mancino, ovvero l’impianto su cui si innesta la proposta a cui lei ha dato il nome, sono tra le emanazioni legislative che hanno dato la stura a dibattiti fra i più longevi della storia della Repubblica. Il testo del ddl sostiene che «la fattispecie delittuosa descritta dalla legge Mancino-Reale è molto chiara e precisa». Ci può spiegare meglio perché crede che l’omofobia in Italia possa essere combattuta efficacemente con questi strumenti (e quindi anche rispondere a chi pensa che si tratti di introdurre in modo surrettizio un reato d’opinione)?

IS: La legge spesso serve a dare un messaggio di tipo culturale, come dicevo. Un parlamento che stabilisce che esercitare odio e violenza nei confronti di una certa categoria di cittadini è sbagliato dà un messaggio al paese. La funzione della legge Mancino-Reale, oltre che punire il reo, è stigmatizzare l’esercizio di discriminazione verso categorie di persone storicamente soggette a quel tipo di attacchi. Discriminare un ebreo, uno straniero e un nero è sbagliato: questo è il messaggio dell’impianto legislativo. Dà un’indicazione specifica, e allargarlo e all’omofobia e alla transfobia serve a completarla.

Non ritengo che si possa parlare di reato di opinione, in primis perché la legge Reale-Mancino è in vigore da molti anni e ha dato buona prova di sé: non abbiamo testimonianze di un uso scriteriato di questa norma. È stata applicata con prudenza, e non si capisce perché, se estesa all’omofobia, dovrebbe improvvisamente diventare liberticida. In ogni caso, per venire incontro a eventuali preoccupazioni, il disegno contiene due norme che tutelano la libertà d’espressione: una che ribadisce il concetto dell’art.21 della Costituzione, pleonastica ma volta a rassicurare e guidare chi interpreta la legge, e un’altra che dice che l’eventuale condotta interna a un’organizzazione di tendenza non costituisce reato.

In ogni caso, io sono l’autore della legge e quindi difendo quest’impostazione, ma dovrebbe essere chiaro a tutti che se nella pratica quotidiana non si esprime odio nei confronti di nessuno non ci potrà mai essere un giudice in grado di condannare. Mi spiego: bisogna anche fare in modo che chi cammina lungo il crinale che divide “odio” e “non-odio” sappia che non è un posto da frequentare.

DP: Come si trova, da attivista lgbt di lungo corso prima che da deputato, a sostenere un governo guidato da un primo ministro cattolico, che nutre dichiarate riserve nei confronti del matrimonio egualitario, e da Ncd, che per bocca di diversi suoi esponenti non ritiene una priorità neanche le unioni civili fra persone dello stesso sesso (non dimenticando, tra l’altro, che in alcuni paesi il modello tedesco ha fatto da anticamera per il matrimonio egualitario).

IS: Il mio problema di essere al governo con Ncd non sono tanto queste posizioni, quanto il fatto di vivere in un paese in cui si è costretti alle larghe intese da un sistema elettorale sbagliato: preferirei che la destra facesse governi di destra e la sinistra esecutivi di sinistra. Dopodiché so bene che questo paese ha una presenza cattolica importante. Però si tratta di una componente forte anche in Germania, ad esempio – il partito della signora Merkel ha la parola «cristiano» dentro la sua denominazione. La possibilità di affermare l’uguaglianza nella società dipende anche da se la causa diventa o meno patrimonio comune del paese, non solo dei diretti interessati. Io voglio che queste leggi passino col voto dei cattolici, e voglio che ai cattolici e a tutti sia chiaro che i problemi degli omosessuali non sono solo degli omosessuali; vivere in una società più rispettosa e aperta non è un interesse corporativo, dev’essere un’aspirazione di tutti.
La battaglia che dobbiamo fare non è di minoranza, perché altrimenti sarebbe destinata a essere persa. Quella dei neri d’America, d’altronde, è stata vinta quando i bianchi l’hanno fatta propria. Se c’è un limite nel modus operandi del movimento gay italiano è proprio quello di non essere stato capace di stabilire alleanze.

Io a stare al governo con Renzi non ho nessun problema. Anzi: Renzi, cattolico, è riuscito a far entrare il Partito democratico nel Pse. Paradossalmente potrebbe proprio essere colui che farà quella legge che non hanno fatto primi ministri di schieramento più marcato a sinistra. Peraltro, faccio notare che fintanto che considereremo queste battaglie patrimonio di destra o di sinistra, connotandole su un piano ideologico, non le vinceremo mai. Questi sono temi che attengono alla civiltà di un paese. In Gran Bretagna c’è Cameron, in Germania c’è Merkel, in Spagna c’è Rajoy, e tutti questi paesi hanno forme di legislazione avanzate nonostante siano rette da governi di centrodestra. In questo senso plaudo addirittura alla svolta di Forza Italia, perché una destra europea è a favore dei diritti civili, non contro.

DP: Manif pour Tous, Sentinelle in piedi e organizzazioni analoghe dichiarano, spesso con toni accorati, di voler difendere la famiglia tradizionale e i valori che rappresenta, sostenendo più o meno velatamente una correlazione tra proposte legislative come la sua e una sorta di decadenza dei costumi. Lei pensa che, su un piano puramente sociologico, questa rappresentazione della famiglia regga il confronto con la realtà odierna?

IS: No, secondo me no. Una delle grandi rivoluzioni del secolo scorso è stato il nuovo diritto di famiglia. Dobbiamo ricordarci che la cosiddetta famiglia tradizionale non è affatto tale, perché risale al 1975. La famiglia tradizionale era quella precedente, in cui il marito-capofamiglia stabiliva il luogo del tetto coniugale, in cui la donna doveva portare i beni dotali al matrimonio, in cui c’era il diritto d’onore, in cui l’adulterio della donna era reato e l’adulterio dell’uomo no. Quella era la famiglia tradizionale. Poi le cose sono cambiate, ed è chiaro che anche l’emancipazione della donna – ovvero l’idea che non c’era più necessità di una divisione di ruoli ben marcata in cui il marito portava il pane a casa e la donna accudiva i bambini – è stato un prodromo della coppia omosessuale, perché ha fatto saltare all’interno della coppia i ruoli di genere. Oggi possiamo avere un uomo e una donna che lavorano entrambi, due uomini di cui uno lavora e l’altro no, eccetera. Quello schema di cui parlano alcuni conservatori non esiste più. Ovviamente anche la legge sul divorzio e le famiglie allargate, i secondi matrimoni e le convivenze con più figli hanno contribuito a segnare un distacco dal passato. Il modello familiare è cambiato e far finta che viviamo negli anni Settanta è sbagliato, sia che si parli di famiglie che spostando lo sguardo al mondo del lavoro.

Fintanto che considereremo queste battaglie patrimonio di destra o di sinistra, connotandole su un piano ideologico, non le vinceremo mai.

DP: Una sorta di paradosso che avverto, personalmente, è che nonostante le istanze lgbt godano di un consenso sempre maggiore a livello globale, fare coming out – specie a certi livelli e in determinate posizioni – rimane una scelta rara. Qual è la sua opinione in merito?

IS: Non so se sia rara, so che non ho mai conosciuto qualcuno che ha fatto coming out e se n’è pentito. È una scelta, come dicono gli americani, di autenticità. Poter vivere la propria vita senza maschere, per quello che è, dà una sensazione di enorme libertà. È chiaro anche che è un passaggio senza ritorno, così come è pacifico dire che oggi ci troviamo in una società comunque omofoba – lo dico non da un punto di vista tecnico o giuridico, parlo in termini culturali. Come il titolo odierno di Repubblica ci dimostra, peraltro.

Esiste ancora uno stigma sociale nei confronti dei gay; uno stigma che invece manca nei confronti dell’omofobia. Mentre in altri paesi dire una cosa omofobica è considerato socialmente sconveniente, in Italia la situazione è diversa. Non ho mai avuto esperienza diritta di omofobia nei miei confronti, ma posso dire che quarantott’ore prima di entrare al governo un importante esponente politico nazionale disse che non potevo far parte dell’esecutivo in quanto gay. E devo dire, non notai grande scandalo da parte di nessuno, anche se il presidente del Consiglio biasimò questa persona. È un po’ lo stesso discorso del razzismo che ha sperimentato Cécile Kyenge: qualcuno dice che il problema non esiste, ma basta chiedere a lei cosa ha attraversato. Certi fenomeni, spesso sottovalutati, purtroppo sono ancora esistenti.

DP: E la politica dovrebbe affrontarli, lavorando in questo senso.

IS: Per questo dico che la produzione legislativa produce grande risonanza culturale. Nei Paesi dove questo lavoro si è fatto – anche anticipando i tempi, come in Spagna – è servito a dare dei messaggi. Dieci anni fa la Spagna profonda, per definirla così, non era pronta come quella metropolitana, però se un dipendente un giorno andava in ufficio col certificato di matrimonio, quel pezzo di carta aveva a tutti gli effetti validità. Il datore di lavoro poteva anche dirsi contrario, ma gli assegni familiari li doveva pagare. Dopo diversi casi del genere, ecco che la procedura è diventata nient’altro che una cosa ordinaria.