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Santoro, il ritorno

Nell'ultimo mese è stato ospite in tutti i talk show italiani come un vecchio attore teatrale risorto. Ma la sua ossessione resta sempre la stessa: la Rai.

di Francesco Gerardi

I più giovani non ci crederanno, ma c’è stata un’epoca in cui il dibattito pubblico italiano si faceva nei cosiddetti “talk show politici”. Per parlare di omotransfobia non c’erano i social, ma Alessandra Mussolini che a Porta a Porta diceva «meglio fascista che frocio» a Vladimir Luxuria. Per parlare del patriarcato c’era Berlusconi che telefonava nel mezzo di una puntata de L’Infedele per insultare il conduttore Gad Lerner e invitare l’europarlamentare di Forza Italia Iva Zanicchi ad abbandonare immediatamente il «postribolo televisivo» frequentato da «cosiddette signore» («lei è un cafone», rispondeva un Lerner mai così scapigliato). Ma tra tutti i dibattiti-litigi-risse e i giornalisti-conduttori-moderatori ce n’era uno che aveva acquisito il potere di far fallire la festa, uno che quando io ero giovane lui era il Jep Gambardella de L’apparato umano e che ora che io sono invecchiato lui è diventato il Jep Gambardella de La Grande Bellezza, seduto in terrazza a pontificare, preoccupato più dall’ipocrisia dei comportamenti altrui che dal senso delle parole proprie. Il nome di quest’uomo è Michele Santoro, e quando io ero giovane spesso lui non si limitava a dettare l’ordine del giorno al dibattito pubblico, lui riusciva a essere l’ordine del giorno del dibattito pubblico. Poteva ridurre “Bella ciao” a una serie di primi piani del suo volto, aiutare un comico ormai fuori dal giro a diventare il leader del più grande partito del Paese e resuscitare un leader politico seppellito dai caratteri cubitali dei FATE PRESTO sulle prime pagine dei giornali allarmati dalla crisi dello spread.

Circa un mese fa Enrico Mentana chiudeva l’edizione del telegiornale serale di La7 annunciando che a Ottoemezzo, ospite di Lilli Gruber, quella sera ci sarebbe stato Michele Santoro, alla prima tappa di un tour televisivo intrapreso per presentare il suo ultimo libro Nient’altro che la verità, diario delle conversazioni con il collaboratore di giustizia Maurizio Avola, opera che ha il grande merito di far venire subito voglia di rileggere Gli uomini del disonore di Pino Arlacchi e A sangue freddo di Truman Capote. A quell’annuncio una melodia ha cominciato a suonare nelle mie orecchie, proprio come in quella scena di Battlestar Galactica in cui i Final Five scoprono di essere dei Cylon quando cominciano a sentire nella testa le note di “All Along the Watchtower” di Bob Dylan. Solo che io non ho scoperto di essere un Cylon (almeno, non credo), ma ho improvvisamente capito quanto tempo è passato dall’ultima volta che ho potuto a ragione definirmi giovane e dall’ultima volta che Santoro è stato effettivamente rilevante. E nelle orecchie non sentivo «there’s too much confusion here, said the joker to the thief…», ma Al Bano e Romina che mi chiedevano «Ma che cos’è? Quel nodo in gola che mi assale che cos’è? Sei qui con me e questa assurda solitudine perché?».

Michele Santoro è invecchiato come mi immagino invecchino gli attori teatrali. Ha ancora abbastanza capelli, ma per farli sembrare tanti li deve portare pettinati all’indietro, cosa che fa notare di più i riccioli sulle punte. «Questi sono i capelli è la mia vanità vanità vanitas vanitatum vanitas non la mia civetteria», diceva Carmelo Bene non a caso in quella puntata del Maurizio Costanzo Show. Tutte le volte in cui l’ho visto in tv nell’ultimo mese (a Bersaglio Mobile, a Dimartedì, a Propaganda Live, a Non è l’Arena, a In mezz’ora e in non so quali e quante altre trasmissioni che non ho visto) Santoro indossava un total black che nascondeva alla bell’e meglio quei punti del corpo in cui inevitabilmente vanno a finire gli anni che passano. La vanità è una questione di dettagli, d’impegno, di ostinazione. Ma le movenze e soprattutto la voce sono sempre quelle dell’uomo abituato a stare al centro del palcoscenico, illuminato dalla luce forte, impegnato a farsi sentire e a farsi vedere. Parla sempre come se ci fosse qualcuno seduto in piccionaia che rischia di non sentirlo, Santoro. Senza stringere la cartellina non sa che farsene delle sue stesse mani. Costretto nel ruolo di ospite e quindi obbligato alla posizione seduta non riesce a disperdere a dovere l’energia cinetica, che gli finisce inevitabilmente nelle braccia, che scattano in continuazione di qua e di là come se lui fosse sempre a tanto così dal perdere la pazienza nel tentativo di spiegare una cosa ovvia a uno troppo stupido per capire. Ma come Margo Channing, Michele Santoro è e rimane il più grande attore in un’epoca però in cui al teatro va sempre meno gente, in un mondo di Eve Harrington che ormai cominciano a invecchiare pure loro. La generazione di giornalisti che da Santoro hanno imparato il mestiere (Formigli, Costamagna, etc.) sta per diventare la generazione precedente, che in Italia significa che tra quarant’anni avranno una loro rubrica fissa su un quotidiano nazionale nella quale spiegano un mondo che tra un tentativo di phishing e l’altro hanno smesso di capire da mo’.

Costretto nel ruolo di ospite e quindi obbligato alla posizione seduta non riesce a disperdere a dovere l’energia cinetica

E qual è quella cosa così ovvia che Santoro cerca di spiegare all’interlocutore troppo stupido? Alla fine è sempre la stessa cosa: è la libertà della stampa, che per Santoro è la libertà della (nella?) Rai. Rai per una notte, ogni notte in cui io sono in onda, in ogni trasmissione e su ogni canale che mi ospita: pare questo il punto di ogni suo discorso. Sono qui, certo, ma dovrei essere di là, ovvio. Di riffa o di raffa, tutti i suoi discorsi iniziano in un punto, qualsiasi punto, ma finiscono sempre da una parte, dalla stessa parte: «Io sono un dipendente del servizio pubblico, non un suo dipendente, Berlusconi», alla fine siamo sempre lì, solo che Berlusconi ormai pensa alla fusione tra Forza Italia e la Lega e Santoro va in televisione a dire quanto gli manca andare in televisione, cioè essere un dipendente del servizio pubblico. Quando è stato ospite di Massimo Giletti, tra l’uno e l’altro si sentiva nell’aria un rancore nei confronti della tv di Stato (che poi è nostalgia, che poi è affetto) che faceva venire voglia di fare seduta stante un bonifico alla Rai per l’ammontare del canone 2021 più l’acconto di quello 2022. Si parla di politicamente corretto e cancel culture? Sì, ma in Rai lo sapete che c’è la lottizzazione e che io quando ero in Rai sono stato cancellato via editto bulgaro, domanda serafico Santoro. Si parla di sessismo e rappresentanza femminile in tv? Eh, ma guardate quante donne ci sono oggi che conducono programmi di punta in Rai, la Rai è più o meno libera con tutte queste donne che conducono i programmi di punta?, chiede retorico lui (la risposta è no, e la ragione è che in Rai non ci sta Santoro, e la libertà sarà pure femmina ma Michele Santoro è maschio). E comunque non è desiderabile la società in cui se c’è una violinista femmina accanto, ci deve essere anche il violinista maschio, spiega a un Diego Bianchi già abbastanza stordito dal caso Rula Jebreal e dalle puntualizzazioni di Barbara Serra. Si parla di mafia? Di certo non abbastanza sui canali Rai, risponde sornione Michele. Si discute dell’andamento della campagna vaccinale? E perché al Tg1 non si intervista mai il medico che con questa bizzarria della vaccinazione di massa non è d’accordo? Voi non sapete chi è Montagnier e di sicuro non avete idea di come si organizzano i dibattiti, di come si divulga la scienza: io in una puntata di Annozero misi l’onorevole Tonino Di Pietro dell’Italia dei Valori (sic, giovanotti che leggete, sic) e il professor Franco Battaglia dell’Università di Modena e Reggio a discutere del disastro di Chernobyl, ricorda orgoglioso Santoro, non penserete mica di averlo inventato voi il format in cui Claudio Borghi Aquilini discute alla pari con Andrea Crisanti. «Ma non è che se parlo del globo terrestre devo invitare un terrapiattista», risponde discreto Floris. Chi ha ragione tra i due? Non lo so, ma so che la settimana dopo Floris ha intervistato Montagnier, che ha detto che non lo sa mica se i vaccini non faranno venire il cancro. Servizio pubblico, non ci fosse il coprifuoco prenderei per mano Vauro, Ruotolo, Travaglio, Luttazzi e Morgan e correrei con loro fino al PalaDozza di Bologna, lungo il sentiero della libertà di stampa, fino all’altare del diritto di cronaca.

«Io sono un dipendente del servizio pubblico, non un suo dipendente, Berlusconi», alla fine siamo sempre lì

Nella prima uscita di questa resurrezione televisiva, quella a Ottoemezzo, Gad Lerner gli aveva consigliato di fare attenzione a come diceva le cose, a quali parole sceglieva per dirle: i tempi sono cambiati, Santoro-si-contenga, aveva provato a suggerire Lerner, guarda che è n attimo tra il ritorno dell’eroe e l’uscita dello zimbello, aveva cercato di avvertirlo Gad. Santoro l’aveva presa abbastanza male, la voce si era alzata ancora un altro po’, le braccia avevano cominciato il loro moto perpetuo: «Se la ‘Ndrangheta gestisse certi ospedali calabresi li gestirebbe meglio di alcune persone che li gestiscono oggi, purtroppo», aveva subito rilanciato nonostante i “beh” di Gruber, i “suvvia” di Lerner. Ma spiegare il pericolo della “ironia del web” a Santoro immagino sia come provare a spiegare a Carlo Freccero perché nessuno capisce di che sta parlando quando dice net per dire… Internet, credo? Forse si fa prima a fermarlo, Santoro, dicendogli che Cruciani, in apertura di una puntata de La Zanzara, si è detto perfettamente d’accordo con Michele.

È che Santoro non accetta di farsi trattare da venerabile maestro (figuriamoci da vecchio rincoglionito) ma nemmeno vuole avere a che fare con gente che lo considera il solito stronzo. Quando Fiammetta Borsellino, nel mezzo di Bersaglio Mobile, dichiara che a lei non interessa parlare del libro di Santoro perché crede che quello di Avola sia l’ennesimo tentativo di depistaggio di Cosa Nostra, Santoro va su tutte le furie. Alla fine della trasmissione Mentana ha il fiatone a gonfiargli il petto e delle perle di sudore che gli decorano tutta la parte superiore del labbro: «È stata una trasmissione turbolenta», riassume. Era da quella volta in cui Giuliano Ferrara urlò «l’ONU è un cesso!» prima di lasciare il suo studio che non vedevo Mitraglia così affaticato.

Mi permetto di dare un consiglio a Michele Santoro, e mentre lo faccio le mie guance sono più rosse di quelle della dottoressa Antonella Viola che a Ottoemezzo gli confessa che lui è stato uno dei suoi idoli di gioventù:  È stata una trasmissione turbolenta sarebbe uno splendido titolo per la sua autobiografia e nella prefazione ci starebbe bene la strofa di questa canzone che non ho ancora capito se ce l’ho in testa perché ho scoperto di essere un Cylon o perché ho capito di essere invecchiato: «Nostalgia, nostalgia canaglia/Che ti prende proprio quando non vuoi/Ti ritrovi con un cuore di paglia/E un incendio che non spegni mai».