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Lorenzo Bertelli, il figlio di Miuccia Prada, sarà il nuovo presidente di Versace Lo ha rivelato nell'ultimo episodio del podcast di Bloomberg, Quello che i soldi non dicono.
Il più importante premio letterario della Nuova Zelanda ha squalificato due partecipanti perché le copertine dei loro libri erano fatte con l’AI L'organizzatore ha detto che la decisione era necessario perché è importante contrastare l'uso dell'AI nell'industria creativa.
Per evitare altre rapine, verrà costruita una stazione di polizia direttamente dentro il Louvre E non solo: nei prossimi mesi arriveranno più fondi, più telecamere, più monitor, più barriere e più addetti alla sicurezza.
L’unico a volere il water d’oro di Cattelan andato all’asta è stato un parco di divertimenti Lo ha comprato per dodici milioni di dollari: è stata l'unica offerta per un'opera che ne vale dieci solo di materiale.
Angoulême, uno dei più prestigiosi festival di fumetti al mondo, quest’anno potrebbe saltare a causa di scandali, boicottaggi e tagli ai finanziamenti L'organizzazione è accusata di aver provato a insabbiare un'indagine su uno stupro e centinaia di artisti hanno deciso di non partecipare in protesta. L'edizione 2026 è a rischio.
Il guasto di Cloudflare è stato così grave che ha causato anche il guasto di Downdetector, il sito che si occupa di monitorare i guasti su internet Oltre a X, ChatGPT, Spotify e tanti altri, nel down di Cloudflare è andato di mezzo anche il sito a cui si accede quando tutti gli altri sono inaccessibili.
Il nuovo film di Sydney Sweeney sta andando così male che il distributore si rifiuta di rivelarne gli incassi Christy sembra destinato a diventare il peggior flop dell'anno, il quarto consecutivo nel 2025 dell'attrice.
Diversi grandi hotel sono stati accusati di fare offerte ingannevoli e fuorvianti su Booking L’authority inglese che si occupa di pubblicità ha scoperto che quelle convenientissime offerte non sono mai davvero così convenienti.

Quello che piace al popolo

Le reazioni all'evento musicale più rilevante della nazione hanno rimarcato una spaccatura che sembra ormai irreversibile.

11 Febbraio 2019

Quest’anno agli Oscar ci sarebbe dovuta essere la nuova categoria “Miglior film popolare”, poi bloccata (tra gli altri pure da Spielberg, non esattamente un regista di nicchia) per il solito motivo: come si fa a stabilire cosa è popolare e cosa no? E poi come facciamo: saranno le solite poche migliaia di giurati a decretare il best movie “del pubblico”? Non dovrebbe deciderlo il pubblico stesso? Insomma, un bordello. In estrema sintesi: in cambio della mancata statuetta pop, l’Academy ha assegnato centordici candidature (tra cui quella per il miglior film) a Black Panther, che un tempo agli Oscar non ci sarebbe arrivato mai. Ed è, per mille motivi, giustissimo che ci arrivi oggi, anche se la ragione principale è appunto un’altra: nel neopopulismo pure dei media, se non l’avessero nominato qualcuno avrebbe fatto saltare in aria il Dolby Theatre.

Tutto questo non c’entra ma c’entra con il Sanremo appena concluso, anzi c’entra moltissimo, considerato che “televoto vs élite” è la notizia del giorno (su Repubblica alle pagine 2 e 3, prima della recessione), e considerato che i vicepremier del governo Conte ne stanno facendo accesissima materia di dibattito politico (anche per distrarre dalla recessione). Altra sintesi estrema. Da un lato c’è il secondo classificato Ultimo, sostenuto dal governo in carica in quanto più televotato: con grande sprezzo della mitomania, s’è persino rifiutato di posare per la tradizionale copertina di Tv Sorrisi e Canzoni dedicata al podio del Festival. Dall’altro Mahmood, il preferito di noi fighetti lobbyghèi serenedandini, autore di un gran pezzo (Soldi) che però non conta come argomento di discussione. Anche chi lo endorsa ne fa materia ugualmente politica, in direzione contraria: il ragazzo italo-egiziano di Gratosoglio è il simbolo dell’Italia meticcia e anti-salviniana, l’icona inattesa della rinnovata speranza Dem, il testimone di un Paese che non abbiamo più vergogna di esportare. Ci andrà lui all’Eurovision, e tutti tiriamo un sospiro di sollievo anche estetico: potevano finirci le scarpe scamosciate grigie del Volo.

Poi c’è la terza via, la più scivolosa, la più pelosa. A sostenere il poco televotato Mahmood fate un favore a quegli altri, scrivono oggi alcuni, gli servite l’indignazione sul piatto. È un triplo salto mortale che porta, forse involontariamente, a un unico scenario possibile: noi della bolla che ascoltiamo la nostra buona musica con un calice di vino biodinamico in mano, e la maggioranza che continuerà a sentire le sue canzoni di merda mangiando pasta scotta. Tanto non cambia nulla in ogni caso. È la tentazione che prende molti, in questo preciso momento storico in Italia: ognuno per la propria strada, non potremo incontrarci mai.

La spaccatura è irreversibile, e non poteva che essere l’evento più rilevante della nazione a rimarcarla. Naturalmente via social: gli annunci di Stato ormai si fanno altrove? Salvini si schiera con Ultimo su Twitter, Di Maio lo raggiunge qualche ora dopo, e poi Elisa Isoardi in cerca di riposizionamento forse più sentimentale che intellettuale (Mahmood è «la dimostrazione che l’incontro di culture differenti genera bellezza», hashtag: #top #culture), e Laura Boldrini che condivide il tweet di Isoardi, e Ultimo medesimo che sbrocca nelle storie di Instagram gridando al popolo (a chi se no) ci prenderemo gli stadi, alla faccia dei poteri forti che ci hanno ostacolato. Altro che gilet gialli.

Nel mezzo ci finiscono parole a caso in cui tutti cascano, sovranisti ed élite, governativi e non: «va ascoltata la volontà popolare», «il vincitore è un ragazzo italiano al cento per cento», «il pubblico pagante è stato tradito», «ha trionfato la musica di oggi». Nessuno riporta un dato: alle spalle di questa vittoria c’è un regolamento (complicatissimo, ma tant’è) che hanno sottoscritto tutti i cantanti in gara, dal primo all’Ultimo (scusate). Regolamento in cui il televoto pesava per più del cinquanta per cento, ma chi se ne importa: sarà sempre più facile e utile urlare che deve essere il popolo a decidere. Tutto. Sempre. Il popolo che, in questo caso, ha addirittura speso i suoi soldi per veder poi trionfare il preferito di Beppe Sala: scandalo! (L’altro dettaglio di cui non si tiene conto è che, se ci fosse solo il televoto, si tornerebbe al vecchio problema: le case discografiche si potrebbero direttamente comprare la vittoria. Ma chiudo subito la parentesi, il discorso è troppo lungo.) È finito il Festival di Sanremo e ci siamo ritrovati nella vera trasmissione che è il Paese: un’infinita puntata delle Iene. Il cast è il solito: il popolo e la kasta, i tanti e i pochi, le masse e i radical chic (sic). Da questo storytelling, si dice così, probabilmente non usciremo mai. E non abbiamo neanche uno Spielberg qualsiasi a salvarci.

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