Attualità

La guerra di Bernie

Mentre si parla di Trump e repubblicani, Sanders non molla e continua a fare male alla Clinton. Ecco come e perché.

di Paola Peduzzi

Quando chiedi a esperti americani, elettori, espatriati, amici di passaggio che cosa pensano delle elezioni per la Casa Bianca, la risposta è più o meno sempre la stessa: non è così che doveva andare. La tornata elettorale delle primarie americane è virtualmente chiusa e, tra calcoli forsennati e previsioni drammaticamente errate, i repubblicani hanno da qualche tempo un loro nominato – Donald Trump – e i democratici ce l’hanno, è la prima donna mai arrivata alla nomination nella storia degli Stati Uniti, ma non sono convinti. Non abbiamo fatto altro che parlare delle divisioni del Partito repubblicano, delle sue spaccature insanabili, del #NeverTrump, del lavoro che andrà fatto in futuro per scendere a patti con una candidatura inattesa e sventurata, e ora ci ritroviamo con il Partito democratico, nelle premesse ben più stabile e sobrio, in stato di guerra civile. Hillary Clinton è la nominata del Partito democratico, ha raggiunto la quota di delegati che assicura la nomination, ha vinto questa notte dove doveva vincere, compresa la California (si stanno ancora contando i voti). Ma Bernie Sanders, fenomeno allegro e caldo delle primarie, non molla, al punto che Barack Obama, il presidente freddino nei confronti di Hillary, ha convocato Sanders alla Casa Bianca per dirgli presumibilmente: lascia stare, hai perso. Ma se il disamore è la caratteristica che meglio definisce Hillary, la tigna è quella che definisce Bernie.

L’ultima nottata elettorale è stata un successo per Hillary. Ha stravinto in New Jersey ed è molto avanti in California, i due stati-simbolo della coda delle primarie. Ha tenuto un discorso di vittoria bello e intenso, con un sorriso che non si vedeva da tempo, e con un calore misto a sollievo che pure non si era mai visto. La prima donna candidata alla presidenza dell’America: è da libri di storia. Peccato che Sanders ha rovinato la festa con la sua tigna. Parlando mezz’ora in ritardo rispetto a quanto previsto, ha riconosciuto a Hillary la vittoria della notte, ma ha aggiunto che non vuole mollare, che il suo messaggio deve arrivare secco e dritto alla convention, e ci arriverà. Ogni volta che ha pronunciato il nome della Clinton, il popolo del “feel the Bern” ha fischiato, e lui si è sentito ancora una volta portatore di una causa che non deve essere interrotta.

L’anziano socialista con il collo insaccato, gli abiti da 99 dollari e gli occhiali – simbolo ormai universale – ha sempre suscitato molta simpatia anche in chi non la pensa come lui: ha riempito piazze, lanciato slogan e movimenti, ha scatenato un seguito internazionale inaspettato e gioioso, ha influenzato molti temi della campagna, ha fatto commuovere e abbracciare. Da tempo molti commentatori dicono: nessuno potrà più prescindere dal messaggio di Sanders. La vittoria morale non è mai consolatoria, anche perché stiamo pur sempre parlando di un outsider del Vermont che ha sì condotto una campagna elettorale strepitosa – raccogliendo finora 210 milioni di dollari, con una media di donazione sotto ai 30 dollari, che vuole dire mobilitazione assoluta – ma non ha mai raggiunto Hillary nel conteggio dei delegati e ancor meno in quello dei superdelegati (su 715, 543 hanno già dato il loro appoggio alla Clinton, 44 a Sanders). Ora che Sanders ha perso ma non lo ammette, la sua simpatia non è più così accogliente, anzi si può dire che chi è così tignoso è pure un po’ antipatico: continua a fare male a Hillary, a fare male soprattutto alla candidatura democratica, che già avrà i suoi bei problemi nello scontro con Trump.

Bernie Sanders Holds Campaign Rally In Ventura, CA

Il voto in California è diventato il simbolo della tigna di Sanders. Ai comizi elettorali del senatore del Vermont gli slogan erano “Bern the system” e “Bernie or bust”, e lui ha ripetuto: «Prenderemo molti delegati in California, e arriveremo alla convention con un grande slancio che ci porterà alla nomination». Nelle ultime settimane il senatore del Vermont è riuscito a portare dalla sua parte alcuni superdelegati, soltanto negli ultimi giorni è stato il turno di una superdelegata del Nebraska che ha dichiarato: «Nelle primarie Sanders ha vinto il 45 percento dei delegati, ma ha soltanto il 6 percento dei superdelegati. Gli elettori sono frustrati dalle logiche del partito, abbiamo bisogno di persone energiche che portino in giro un messaggio di democrazia». La “Bern offensive” non si vuole fermare. Sanders ha annunciato di voler continuare la sua campagna, ha organizzato un incontro a Washington – dove si vota la prossima settimana – per fare pressioni sui superdelegati e convincerli a stare con lui invece che con Hillary mentre è già pronto un “team di disturbo” made in New York diretto alla convention democratica a Filadelfia. Il senatore del Vermont ha fondi sufficienti per non doversi rassegnare alla sconfitta, nonostante la matematica, ma perché continuare? L’ora della chiusura dei conti si è trasformata nel trampolino della determinazione di Bernie, che critica il sistema poco democratico dei democratici trovando come suo migliore alleato lo stesso Trump. Nei giri ideologici immensi che ha fatto questa campagna elettorale, la determinazione di Sanders a non mollare è diventata l’arma più tagliente nelle mani del candidato repubblicano, al punto che i due – che parlano a un elettorato che ideologicamente s’assomiglia, pur avendo provenienze e riferimenti politici del tutto diversi – si stavano quasi per mettere d’accordo nell’organizzare un dibattito che aveva l’unico scopo di annichilire Hillary. Poi Trump, che è un uomo estremamente volubile, ha cambiato idea, ma fosse stato per Sanders lo spettacolo sarebbe andato in scena.

Alcuni esponenti del Partito democratico intervistati nelle ultime settimane hanno spiegato che in realtà Sanders non è un terminator anticlintoniano tanto brutale: a questo punto semplicemente non può tradire le aspettative dei suoi sostenitori, e deve andare fino in fondo, ma è pronto a consegnare il suo elettorato a Hillary al momento giusto. Quand’è il momento, ancora non si sa, forse Obama riuscirà a stabilirlo nell’incontro di giovedì. Ma c’è un altro problema: quell’elettorato potrebbe non essere più tanto plasmabile. Dopo che ha votato con entusiasmo Bernie proprio perché si scaglia contro l’establishment, contro un sistema che non incoraggia gli outsider, dopo aver urlato fortissimo “Bernie or bust” a tutti i comizi, come può questo elettore andare a votare la dama del potere costituito che ha rabbiosamente esortato Sanders a togliersi di mezzo? Gli esperti di politica americana dicono che è normale, che la storia delle primarie è brutale ma poi non lascia segni permanenti sui leader politici e sui partiti, ma a qualcuno viene il dubbio che in questa campagna che ha stravolto ogni precedente anche queste ferite possano risultare infine incurabili.

Hillary Clinton Campaigns In Southern California

Il team di Hillary non nasconde la preoccupazione, anche se in California si è affidato a una lady di ferro che è soprannominata direttamente la “slayer”, l’assassina, di Sanders (si chiama Buffy Wicks e Ozy ne ha fatto un bel ritratto), che in effetti ha fatto il suo lavoro. Indiscrezioni sui media dicono che la preoccupazione si sta trasformando in nervosismo e isteria, e che i toni affilati di Hillary nei confronti di Sanders sono l’espressione di un’esasperazione montante. Se Bernie non molla, Hillary risulterebbe svantaggiata due volte. Dovrebbe difendersi dai colpi di Sanders e di Trump contemporaneamente, e soprattutto non potrebbe iniziare il corteggiamento all’elettorato di Sanders, per lei imprescindibile, accumulando un ulteriore ritardo rispetto al baldanzoso Trump. L’estate del discontento di Hillary poi non sarebbe soltanto determinata da problemi strategici: già adesso non si fa che ripetere che è poco amata, poco empatica, poco eccitante. Per evitare l’agonia, secondo alcune fonti, Hillary starebbe prendendo in considerazione la possibilità di scegliere Elizabeth Warren come sua compagna di ticket: molto amata dal popolo di Bernie, di cui ha fatto anche parte, la senatrice del Massachusetts sarebbe il ponte perfetto tra i due mondi dello stesso partito che sembrano non volersi parlare più. L’alleanza in rosa sarebbe utile per ricompattare il partito, ma la sua efficacia nella sfida con i repubblicani è ancora da valutare (e chissà che cosa riuscirà a dire Trump di questa coppia di donne).

Questa settimana potrebbe rappresentare il test definitivo della tigna di Sanders. Un insider del Partito democratico ha detto a Politico che «se Bernie resta in corsa dopo aver perso la California, sarà ricordato non più come il campione degli ideali progressisti, ma come un altro politico narcisista». È un attimo passare dalla determinazione al ridicolo, e per quanto l’entusiasmo per Sanders sia grande, per quanto “feel the Bern” abbia segnato questa campagna e il suo popolo gioioso faccia invidia a molti, soprattutto in Europa, per quanto Bernie sembri infinitamente più adorabile di Hillary, non è poi così affascinante un uomo che non sa dire “ho perso”.

 

Immagini della campagna elettorale in California (David McNew, Justin Sullivan/Getty Images)