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Storia e rinascita del Salone del Mobile
Un dialogo con Mario Piazza, il curatore della mostra che racconta tutto quello che l'evento rappresenta per la città di Milano da 60 anni.
Living Nature. La natura dell’abitare, 2018, Piazza del Duomo. Foto di Saverio Lombardi Vallauri – courtesy Salone del Mobile.Milano
Il manifesto dei manifesti: così definisce la mostra elogio del Salone del Mobile il suo curatore Mario Piazza, perché mette insieme tante cose – oggetti, monografie, immagini e tematiche – e perché vuole esprimere tutto quanto questo evento rappresenta per la città di Milano da 60 anni, compresa l’auspicata rinascita post-pandemia. Non è quindi ancora tempo di super feste, come sognavamo un anno fa, ma di una super mostra sì (almeno quella). Ideata dal Museo del Design Italiano di Triennale Milano per il Salone del Mobile, Il Salone/la Città. La storia di 60 anni di eventi collaterali nella città, si svolge dal 4 al 12 settembre, in occasione del ritorno della manifestazione curata da Stefano Boeri.
ⓢ Cosa significa fare questa mostra dopo 2 anni di fermo dovuti alla pandemia?
Il tentativo di ricostruire una normalità e un investimento di fiducia nei confronti di una ripartenza che tenga conto di quanto abbiamo imparato, a cominciare dal senso stesso della nostra esistenza sul pianeta. L’obiettivo di fondo è quello di far capire il ruolo del Salone anche come operatore culturale, centro di riflessioni su temi specifici. La missione principale del Salone, ossia l’ente fiera quale luogo di scambio e di promozione della produzione dell’arredo in senso ampio, è sempre stata affiancata da eventi collaterali che hanno negli anni reso il Salone una vera e propria istituzione culturale, con tutte le sue riflessioni su cosa vuol dire abitare, come si modificano i gusti e gli stili sia da parte dei progettisti, delle imprese, dei consumatori nel mondo dell’arredo.
ⓢ In questi 60 anni come si è evoluto il rapporto del Salone del Mobile con la città?
Nello spazio dedicato al tema del cibo abbiamo usato la figurazione della cena, e lì c’è un grande tappeto dove sono disegnati un po’ tutti questi luoghi che il salone ha toccato nella città, alcuni noti per la loro natura espositiva, come la Triennale e Palazzo Reale, e altri meno come il Planetario, la conca del Naviglio, San Marco. Luoghi che fanno capire che il modo di ragionare sulla progettualità culturale del Salone è stato quello di far vedere che il sistema del design è ramificato nella città: c’è infatti il luogo della fiera, ma ci sono anche gli show-room dei marchi e tutti questi altri luoghi che sono diventati a poco a poco il Fuori Salone. Un modo di “fare città” che oggi potremmo dire ha ispirato tutte le politiche di format della cultura milanese.
ⓢ Quindi non è vero quanto abbiamo spesso pensato negli ultimi mesi, che fosse finita l’era degli eventi?
Non credo, sarebbe bello da un certo punto di vista che lo fosse (ride). Quello che conta sempre è andare in profondità. Credo che oggi molte cose siano mediate dalla tecnologia cha ha come primo principio quello di essere molto facile e di muoversi velocemente sulla superficie, ma non riesce ad arrivare a certi tipi di densità. Bisogna invece capire come dare alla celerità tecnologica una profondità e un senso. Un po’ come quando ci siamo resi conto che la “Milano da bere” degli anni ’80 era molto di più un happy hour. Ecco, la mostra fa questo tentativo: vuole andare oltre la superficie, sorprendere, usando una scrittura poetica per raccontare le cose e lasciare spazi interpretativi.
ⓢ Il primo spazio è dedicato alla memoria, e si prosegue poi su vari temi: dall’artigianato al made in Italy, ai grandi maestri come Achille Castiglioni, Joe Colombo, Gio Ponti, Vico Magistretti, Alvar Aalto, Ettore Sottsass, Bruno Munari, Massimo Vignelli.
La mostra non si presenta in modo classico, mi piace dire che è un po’ costruita attraverso l’esercizio della sineddoche: fa vedere una parte del tutto, rappresentando altro. Nell’idea di fare una mostra facilmente fruibile, come fosse una passeggiata, c’è anche quella di non esercitare un percorso storiografico cronologico lineare ma piuttosto fare dei salti dentro i quali ci sono enucleazioni di vari ragionamenti, svolti con tante altre mostre. L’archivio ha l’obiettivo di trasmettere da una parte l’idea culturale della professione e del centro all’impresa e dall’altra della sedimentazione, una percezione figurata attraverso le immagini di tutti questi avvenimenti. Poi si entra un po’ nella logica di queste tematiche: la consapevolezza di cosa vuol dire progettare arredi e come sono cambiati rispetto allo spirito del tempo, al gusto, ai materiali, al modo di costruirli. Il primo aspetto è proprio il linguaggio dei mobili, come cambiano e perché cambiano in rapporto con la società: il modo di vedere il mondo dagli anni ’60 ai ’90 in poi segue logiche completamente diverse, si va dagli anni del boom al post-modernismo. E il percorso va avanti con l’artigianato, i grandi maestri, il made in Italy, la filosofia dell’abitare, i limiti, l’ecologia, il tema del cibo e del come si comunica.
ⓢ E come si comunica un evento così longevo?
La comunicazione del Salone da una parte ha avuto l’obiettivo di costruirsi un’immagine in senso corporate, dall’altra quella di ospitare molti attori diversi. C’è stato un lavoro di scrittura estetica, uno stile di racconto che ha avuto anche molti artefici, dalle agenzie pubblicitarie più prestigiose ai grandi designer che l’hanno interpretato e ai grandi autori cinematografici che hanno girato video sui luoghi abitati dagli architetti. In generale l’arte è molto presente come sistema di lettura. Tutte queste cose sono addensate in un unico oggetto che fondamentalmente è il manifesto dei manifesti, dove si è fatto uno sforzo di sintesi che ha il valore di aprirsi a delle molteplicità di interpretazioni.
ⓢ E le riviste che ruolo hanno avuto in questo racconto? Una su tutte, Abitare, coetanea del Salone, e che tu hai diretto dal 2011 al 2014.
Io ho questa idea che fondamentalmente sia finito il tempo della rivista nel senso classico del temine. Molte delle riviste del design italiano sono nate anche per questa grande esuberanza economica del settore e sostegni pubblicitari importanti. È necessario che le riviste si costruiscano dei pubblici, dei lettori. La prima cosa che avevo cercato di fare durante la mia direzione era di essere un rompi ghiaccio che andava a scoprire dei luoghi nuovi, dei modi di leggere diversi. Questo obiettivo porta con sé un modo completamente diverso di lavorare. La grande novità delle riviste oggi è che molte persone sperimentano in auto produzione forme di scrittura che sono sempre più un ibrido tra l’uso dell’immagine e del testo: i testi come li usiamo oggi sono delle forme astratte e quindi anch’esse delle immagini, sempre di più viste come degli oggetti che utilizziamo per essere sintetici ma anche per sperimentare nuove forme di espressione. Oggi si dice spesso che c’è bisogno di una rinascita, ossia di una rimessa nel mondo delle cose, e per farlo bisogna partire dal fare le cose in modo diverso. Lo stesso vale per il design: se continuiamo a pensarlo solo dal punto di vista dell’uomo, senza considerare quello della natura ad esempio, le cose non cambieranno mai.