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Il Salone che non c’è stato

Alcuni dei protagonisti della mancata edizione del 2020 raccontano come hanno riorganizzato le loro aziende e cosa auspicano per il futuro del settore.

di Serena Scarpello

Un'installazione del Salone del Mobile 2019. Foto di Pier Marco Tacca/Getty Images

«Mi mancano i voli, i treni, i meeting. Non ho mai saltato una bella festa». Inizia così il video elogio al Salone del Mobile registrato da Michele De Lucchi, in occasione della mancata edizione di quest’anno. Il Salone di Milano rappresenta da sessant’anni un punto di incontro di artisti, architetti, designer di fama internazionale, oltre che il maggior indotto del settore del design (la stima per quest’anno era di circa 1,3 miliardi di euro). Sappiamo tutti che per la sua festa più grande – il sessantesimo, appunto – dovremmo aspettare il 2021, Coronavirus permettendo. Ma quello che ci consola, e che la storia insegna, è che dopo ogni crisi c’è una palingenesi: la cultura rinasce, l’attenzione nei confronti della bellezza si prende la sua rivincita, la meraviglia sostituisce quell’improvviso senso di vuoto. 

«Le aziende saranno sempre più impegnate nell’investire in prodotti e sistemi focalizzati rivolti al benessere delle persone e dell’ambiente», dice Claudio Luti, Presidente del Salone del Mobile, «in tale contesto, la ricerca costante della bellezza, intesa come insieme di fattori, sarà la chiave di volta che consentirà al Salone del Mobile di rafforzare e consolidare la propria leadership globale nei prossimi anni e di anticipare i futuri stili di vita». Saltata l’edizione 2020, il Salone sceglie ora un percorso che unisce promozione, esperienza virtuale e fiera fisica del prossimo anno, e che «consentirà di massimizzare le sinergie, il business e la sostenibilità del Salone». Nel 2021 per la prima volta nella storia della manifestazione esporranno infatti tutte le categorie merceologiche. «Insieme al Salone Internazionale del Mobile, al Salone Internazionale del Complemento d’Arredo, a Workplace3.0, S. Project e al Salone Satellite ospiteremo anche tutte le biennali: Euroluce, già prevista nel 2021, EuroCucina, con il suo evento collaterale FTK – Technology for the Kitchen e il Salone Internazionale del Bagno. Come sempre avremo inoltre importanti eventi in città, che sapranno amplificare l’emozione di essere tornati insieme. Voglio pensare che la rinascita del Paese e del sistema passerà proprio dal Salone del prossimo aprile». E il ruolo di Milano quale sarà? Sarà in grado di non perdere la centralità che aveva acquisito negli ultimi anni? «A differenza di altre città – italiane ed estere – Milano è sempre stata in grado di trasformarsi, reinventarsi, rinascere. Milano nella storia ha saputo interpretare il presente e anticipare il futuro. Sono convinto che anche questa volta ne uscirà trasformata in meglio e più forte di prima. Grazie anche al Salone e alla ricchezza culturale e generosità intellettuale del mondo che ruota intorno a esso».

«Il Salone dovrebbe avere l’ambizione di inventarsi un ruolo per il rilancio del dibattito sulla cultura del design, partendo proprio dal ruolo del design italiano. L’edizione dopo il Covid dovrebbe puntare a questo». Ne è convinto anche Vanni Pasca, storico del design, che dopo aver trascorso gli anni degli studi a Napoli, la sua città di origine, si è trasferito a Milano dove ha collaborato per lungo tempo con Enzo Mari, ha fondato riviste di settore (come Pad Journal), collaborato con l’house organ di Driade (che negli anni ’80 era una specie di Bibbia del design), organizzato mostre in Brasile e a New York, scritto libri come il suo ultimo Tutto il mondo è design. Il Manuale di Vanni Pasca e Domitilla Dardi (Silvana Editoriale, 2019). «Le crisi del passato hanno segnato un prima e dopo. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, ad esempio, abbiamo assistito al boom economico e si sono sviluppate le industrie e il design. Naturalmente il terreno era fertile: c’era una tradizione di pensiero del design in Italia, la competenza professionale dei designer aveva trovato finalmente il supporto dalle industrie del tempo». Cosa può insegnarci il passato?

«A volte le discussioni sono state gravemente segnate da una tendenza all’astrattezza. Per esempio nel 1914 a Colonia si è tenuto un grande congresso durante il quale i designer tedeschi non hanno fatto altro che discutere se il design fosse una professione o un’arte. Ecco, spero che questa volta saremo in grado di andare dritti al punto. I trasporti nelle città, il tema delle periferie e della città concepita come sommatoria, come struttura connettiva di borghi, così come quello del social housing e la flessibilità della casa (in questo momento sembra che tutti quelli che lavorano da casa lavorino dalla cucina): a parte tutto il resto delle questioni, bisognerà far diventare queste riflessioni realtà. E il Salone del Mobile può e deve assumersi questa responsabilità». In che modo si avvia la trasformazione? «Il progetto grafico e la comunicazione visiva avranno un ruolo importante da svolgere. Tutti ricordano le comunicazioni visive fatte durante le guerre. Da Zio Sam ha bisogno di te, in poi. Ecco, anche durante questa pandemia i designer visivi dovrebbero affrontare il problema e con la loro arte suggerire comportamenti, anticipare i cambiamenti, immaginare le nuove abitudini».

Benedetta Mori Ubaldini per la Galleria Rossana Orlandi

Stefano Seletti è uno degli autori più noti dell’immaginario del design italiano contemporaneo. Guida l’azienda di famiglia nata nel 1964 da 30 anni ormai e ha vissuto già molte trasformazioni, facendo del cambiamento la sua vera cifra stilistica. «Quella attuale è solo l’ennesima rivoluzione di Seletti. Mio padre nel ’72 importava i cestini portapane e le sottopentole in paglia e li vendeva ai grossisti che poi rivendevano nei mercati rionali. La Seletti nasce così. Quando arrivo io a fine anni ’80 prende piede la grande distribuzione che 15 anni fa si è spostata direttamente in Cina. Così iniziammo a disegnare i nostri prodotti, a vendere in un mercato diverso dalla grande distribuzione, partendo con un mini catalogo. Quello che stiamo vivendo ora è solo l’inizio di un’ennesima trasformazione. E oggi mi sento di poter dire che siamo l’azienda giusta per potersi trasformare. Anche il fatto di essere piccoli ci consente dei rapidi mutamenti». In questo periodo di quarantena Stefano ha pensato al nuovo sito, «concepito più come una rivista, con le pagine di pubblicità, l’elemento umano oltre il prodotto. Il sito attuale ha raggiunto performance incredibili: solo nel mese di aprile abbiamo fatto quello che avevamo fatto l’anno scorso in 6 mesi. Leggevo che dall’inizio del lockdown il 75 per cento delle persone che hanno comprato sul web non l’avevano mai fatto prima. Mi ha aperto un mondo, ha aperto le porte all’ennesima trasformazione di Seletti».

Il digitale è stata la risposta alla mancata fiera di quest’anno. «Stiamo iniziando a fare dei video dei prodotti raccontati direttamente da me. L’obiettivo è far vivere ai clienti la stessa esperienza che vivevano prima. Per farlo li accompagno virtualmente in showroom e spedisco loro a casa, qualche giorno prima, una box con dentro il catalogo di quello che gli mostrerò, una tazza e una bustina di tè. È un nuovo modo per approcciare il cliente». A breve sul sito ci saranno anche le “Mascherine Seletti wears Toilet Paper”: parte del ricavato delle vendite andranno in beneficenza. Si rinnova così la fortunata collaborazione con Maurizio Cattelan, insieme al quale Seletti organizza una delle feste più celebri del Salone, il Design Pride a Piazza Affari. «Pensa che quest’anno sarebbe stata la quinta edizione e per di più il giorno del mio cinquantesimo compleanno! Sono contento comunque di aver ricevuto moltissimi messaggi di affetto. Gli sponsor ci hanno anticipato che l’anno prossimo ci saranno. Nessuno ha detto poi vediamo. Un messaggio bello». Il Fuori Salone si è organizzato con una versione online che vedremo live dal 15 al 21 giugno con il lancio della nuova piattaforma Fuorisalone Digital che prevede l’introduzione di due nuovi strumenti (il Fuorisalone Tv e Fuorisalone Meets) e la possibilità di distribuire i contenuti su due nuovi canali (Fuorisalone Japan e Fuorisalone China). Ma le feste non si possono sostituire. «Esatto. C’è chi dice che rimarrà solo la Fiera e sparirà il Fuori Salone, io personalmente penso che possa accadere il contrario, per assurdo».

La Galleria Rossana Orlandi rappresenta quello che potremmo definire il distretto generale del Fuori Salone. Il suo cortile è da anni luogo di cene fiabesche e feste indimenticabili, in cui gli invitati si confondono tra le opere: possono affacciarsi sul mondo attraverso le finestre del collettivo di artisti Anotherview (che mostrano cavalli ripresi per 24 ore mentre corrono in Camargue, elefanti che attraversano i laghi in Namibia) o fotografare le gigantesche giraffe di filo intrecciato di Benedetta Mori Ubaldini. «Quest’anno avrei dovuto installare uno sciame composto da una trentina di api di 30 cm, a muro o su un pannello colorato di un blu scuro – mi racconta – che per me rappresentano un messaggio importante sulla biodiversità, oltre che essere piccola icona, una specie di simbolo del cambiamento. Un’opera anche commercialmente interessante per la galleria che le ha volute inserire nel suo ecommerce. Ma non è la stessa cosa. Il Salone ti dà l’occasione di presentare il tuo lavoro nel modo più estroso e poetico, per quanto la tecnologia abbia finalmente mostrato il suo lato più creativo. Presentare le cose durante il Salone è come un gioco e questo è mancato a tutti».

Le chiedo se secondo lei ci sarà una ripresa artistica e letteraria, così come cento anni fa avvenne nel periodo post Spagnola. «Speriamo. Sicuramente su alcuni temi ci concentreremo di più. Soprattutto su come si crea la bellezza. In questo periodo ci siamo ricordati di quanto il poco sia bello e di come la qualità sia più importante della quantità. Potremmo focalizzarci più sull’essere che sull’avere. Tutta la tematica della natura ha avuto la sua rivendicazione massima. Anche per me che vivo nel mondo degli animali, e con le mie opere esprimo la mia nostalgia verso la natura, questo momento è servito per pensare di più al messaggio, a come dire una certa cosa attraverso racconti narrativi tridimensionali». Concentrarsi sul meno, vale anche per il Salone del futuro. «Assolutamente. Il Salone del Mobile dovrebbe ridimensionarsi, negli ultimi anni era arrivato a certi eccessi per numero di eventi e di inaugurazioni, che non ti permettevano di goderti lo spettacolo. Detto questo, per me è insostituibile. Milano senza Salone è impossibile immaginarla, mancherebbe della sua principale forza creativa». E allora, quando la crisi sarà finita, il Salone del Mobile rinascerà, e a Milano sarà di nuovo subito festa.