Attualità

Perché si sta tornando a parlare di Richard Florida

L'inventore dell'espressione "classe creativa" sembra tornato sui suoi passi e fa gongolare la sinistra marxista.

di Studio

Richard Florida ci ha ripensato. E, come c’era da aspettarsi, questa cosa sta facendo gongolare quelli che per anni hanno guardato con sospetto l’idea di “classe creativa” e gli effetti della gentrificazione, spesso associata ad essa. Quindici anni fa Florida era diventato un guru della società aperta e dell’innovazione urbanistica, grazie al suo bestseller L’ascesa della nuova classe creativa. Stile di vita, valori e professioni, uscito in America nel 2002 e pubblicato in Italia da Mondadori l’anno successivo. La sua teoria si basava su due elementi. Primo, l’avvento di un nuovo gruppo sociale che si distingue non soltanto per livello di istruzione e di reddito, ma anche per le attitudini liberali e la vocazione cosmopolita: «La classe creativa include le persone che si occupano di scienza e di ingegneria, di architettura e di design, di istruzione, di arte, di musica e intrattenimento, la cui funzione sociale è creare nuove idee, nuove tecnologie e nuovi contenuti creativi». Secondo, il fatto che questa classe creativa fosse attratta dalle grandi città globali, e che questa migrazione stava portando a un rinnovamento dei centri urbani, che prima avevano conosciuto, specie nel Nord America, un momento di crisi.

Nel saggio che l’ha reso celebre, insomma, Florida teorizzava che techies e creativi sono il motore dell’economia globalizzata e, al contempo, di un rinascimento urbano. Di recente, però, ha pubblicato un nuovo saggio, intitolato The New Urban Crisis, in cui ritratta un po’ di cose, sostenendo che, in questa fase, le città stanno vivendo un momento di crisi, che la migrazione della classe creativa in alcune città ha contribuito a rendere il costo della vita insostenibile per i poveri, che mentre i centri urbani stavano rinascendo la campagna e la provincia restavano sempre più lasciate indietro, e che questa diseguaglianza crescente, da un lato i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più esclusi, dall’altro il contrasto tra campagna e città, ha portato all’ascesa dei populismi, a Trump e Brexit. «Ho attraversato un periodo di ripensamento e introspezione», scrive. «Sono troppo ottimista», prosegue, per poi ammettere che esiste «un lato oscuro del revival urbano che un tempo ho celebrato e sostenuto».imgonline-com-ua-twotoone-3WTGnpVszoRS

The New Urban Crisis è stato pubblicato ad aprile, però del ripensamento di Florida s’è parlato più recentemente, soprattutto a causa di un articolo di Jacobin che è molto circolato sui social media e ripreso in Italia da Che Fare. Intitolato “Richard Florida is sorry”, è molto duro con Florida, che viene accusato di avere diagnosticato, peraltro in ritardo, una crisi che egli stesso ha contribuito a creare. L’autore Sam Wetherell riassume in modo sarcastico la teoria della classe creativa: «Se le città in declino vogliono sopravvivere, devono aprire bar fighi, caffè shabby-chic, e gallerie d’arte che attraggano giovani residenti tolleranti e istruiti». Mentre la realtà, come ormai ammette anche Florida, è che «quando i giovani ricchi e prevalentemente bianchi riscoprono la città, finiscono per causare una speculazione edilizia rampante, con prezzi alle stelle e un dislocamento di massa»: è il cosiddetto ciclo della gentrificazione, per cui i giovani creativi arrivano in una zona povera, gli affitti salgono, e così i poveri devono andare da un’altra parte. Negli ultimi decenni l’attitudine nei confronti della gentrificazione è stato uno dei punti di scontro tra la sinistra liberal e la sinistra d’ispirazione marxista: i primi la vedono principalmente come una fonte di rinnovamento, i secondi come foriera di diseguaglianze (certo, si potrebbe fare notare che una cosa non esclude l’altra, infatti le due posizioni si contrappongono più anche per la priorità che si dà all’una o all’altra cosa).

A giugno il New York Times aveva pubblicato una recensione tiepida, dove la tesi centrale era che Florida è piuttosto bravo nell’individuare dei trend, ma poco rigoroso nell’analizzarli e ancora meno convincente quando propone delle soluzioni. Al di là dei processi a Florida, un dato interessante è che i suoi saggi di cui si sta parlando, pubblicati a quindici anni di distanza l’uno dall’altro, sono entrambi figli del loro tempo, perché descrivono due diversi processi in corso: L’ascesa della nuova classe creativa è uscito in una fase in cui alcune grandi città, specie nel Nord America e nel mondo anglofono, si stavano ripulendo e ripopolando; mentre The New Urban Crisis esce in periodo in cui alcuni elementi fanno pensare il contrario. Londra, per esempio, sta perdendo più abitanti di quanto non ne stia acquistando, un esodo stimato a circa 80 mila persone ogni anno e causato proprio dai prezzi alti che a loro volta sono il risultato, tra le altre cose, anche del precedente controesodo, insomma l’arrivo di nuovi abitanti benestanti.

Esiste, insomma, un elemento ciclico nel ripensamento di Florida. E questa cosa si inserisce in un contesto molto americano, in ciclo che egli stesso racconta nell’anticipazione del suo saggio pubblicata dall’Atlantic. Florida, che è nato nel New Jersey alla fine degli anni Cinquanta, è cresciuto in una fase storica in cui, per usare le sue stesse parole «il sogno americano si stava spostando nei suburb»: era la grande fuga della classe media e medio alta dai centri urbani, che stavano diventando sempre più poveri a causa della de-industrializzazione (si potrebbe aggiungere, che l’esodo era anche una risposta all’afflusso di afroamericani dal Sud agricolo verso le città del Nord, la cosiddetta Grande migrazione americana, e che dunque conteneva anche un elemento razziale, per non dire razzista); era l’epoca del blackout di New York, dei centri urbani decaduti, impoveriti e in mano al crimine; era l’epoca in cui “inner-city youth”, letteralmente “ragazzi del centro città”, era un eufemismo per i figli del sottoproletariato nero, una terminologia impensabile a Roma o a Milano.

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Vivendo a Pittsburgh tra gli anni Novanta e i primissimi anni Zero, però, Florida si accorse che qualcosa stava cambiando, che i benestanti – o, meglio, un certo tipo di gente benestante, particolarmente istruita e aperta di mentalità – stavano tornando nelle città, attratti non solo da buone possibilità di lavoro ma anche dalla qualità della vita: «I lavoratori della conoscenza, i techie, gli artisti ed altri creativi si stavano trasferendo in posti che offrivano stipendi alti, cioè che avevano un buon mercato del lavoro. Questi luoghi offrivano anche quello che potremmo definire un buon mercato degli incontri, offrivano la possibilità di incontrare gente, e un’abbondanza di cose da fare, con ottimi ristoranti e caffè e una buona scena musicale». Nel suo saggio del 2002, ricorda, «ho argomentato che la chiave del successo urbano era attirare talenti e non soltanto aziende».

Poi è arrivata la crisi del 2008, le diseguaglianze sono aumentate e la gente ha cominciato a rendersi conto del fatto che costituissero un problema serio: «Mentre la classe media e i suoi vicini stavano scomparendo, la nostra geografia si divideva in piccole aree di benessere concentrato, ed aree molto più vaste di povertà. Gradualmente, mi rendevo conto che il raggruppamento di talento ed asset economici stava generando un’urbanizzazione asimmetrica e iniqua dove un manipolo di città superstar e di qualche quartiere, mentre altri luoghi sono lasciati indietro». Tradotto, non in tutte le città c’è una rinascita, c’è New York ma c’è anche Detroit, e anche dove c’è una rinascita i più deboli vengono penalizzati (come faceva notare il Nyt, oggi sono i poveri che si stanno spostando verso i suburb, infatti tra il 2000 e il 2013 la povertà urbana è aumentata “soltanto” del 29 per cento mentre nella suburbia è cresciuta del 66).

Esiste, dunque, una «nuova crisi urbana», che però è diversa da quella dell’America postbellica, quando erano i ricchi a lasciare le città: alcuni centri fioriscono, ma sono in pochi a poterseli permettere, mentre altri deperiscono e la povertà urbana si sposta in provincia o in periferia. È un’urbanizzazione, sostiene Florida, modello “the winner takes it all”. Poi sono arrivati i populismi. Florida, che nel frattempo s’è trasferito a Toronto, in Canada, si convince c’entrino qualcosa con la «nuova crisi urbana». È scioccato da Trump, dal referendum britannico, ma ancora di più dalla rielezione, nel 2014, di Rob Ford come sindaco di Toronto, un sindaco votato soprattutto da «i lavoratori che sentivano che della rivitalizzazione urbana beneficiavano solo le élite». Brexit, Trump e Ford, sostiene, sono il prodotto del risentimento, geografico e demografico, di chi è stato lasciato indietro dal fiorire della classe creativa. Più che contraddirsi, insomma, Florida sembra aver preso atto del fatto che, dal 2002 ad oggi, il mondo è cambiato, e parecchio.