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Cosa si dice di The Lost Daughter, l’adattamento della Figlia Oscura di Elena Ferrante
Dell’adattamento cinematografico de La figlia oscura di Elena Ferrante si parla ormai da diversi anni: la notizia dell’acquisizione dei diritti per la trasposizione da parte di Maggie Gyllenhaal risale addirittura al 2018. Una delle prime certezze, all’epoca, era che Gyllenhaal aveva scelto La figlia oscura per il suo debutto alla regia e alla sceneggiatura: si sarebbe occupata lei di tutto quanto, e avrebbe dato un contributo anche come produttrice. Nel 2020, poi, tra febbraio e novembre, sono arrivate le notizie riguardanti il cast: Olivia Colman, Jessie Buckley, Dakota Johnson, Peter Sarsgaard, Paul Mescal, Oliver Jackson-Cohen, Ed Harris, Dagmara Domińczyk, Jack Farthing e Alba Rohrwacher, questi gli attori scelti per dare un volto ai personaggi di Ferrante. Dopo la prima alla Mostra di Venezia lo scorso 3 settembre, il film ha avuto una distribuzione limitata nelle sale americane a partire dal 17 dicembre, prima di arrivare su Netflix dal 31 dello stesso mese. È stata la piattaforma di streaming, infatti, ad assicurarsi i diritti per la distribuzione negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in molti altri Paesi del mondo. In Italia, il film arriverà in sala a marzo, distribuito da BIM.
Adesso, ovviamente, cominciano ad arrivare le recensioni dei critici, americani e inglesi soprattutto. C’è un filo che, per il momento, tiene assieme tutte le opinioni dei critici: The Lost Daughter è soprattutto l’ennesima interpretazione memorabile di Olivia Colman, alle prese con uno dei personaggi emotivamente più complessi e “oscuri” della sua carriera. Se è vero che la storia di Leda Caruso è, come scrive Adrian Horton sul Guardian, un tentativo di «smontare il mito secondo il quale la maternità fa parte della natura delle donne», è anche vero che «è difficile non odiare Leda per il modo in cui ignora i figli». Un odio che si alterna però con il tentativo di mostrare l’origine del rifiuto, del distacco, un tentativo portato avanti dall’ossessione che Gyllenhaal mostra per le motivazioni interiori di Leda e dall’accuratezza con cui Colman traduce con il suo volto quella stessa interiorità che la regista indaga.
Sul Time, Stephanie Zacharek si è concentrata soprattutto sul coraggio della scelta fatta di Gyllenhaal. «Il film si muove dentro corridoi emotivi estremamente complessi, una sfida che metterebbe alla prova anche il più consumato dei cineasti. Per questo, il risultato che Gyllenhaal riesce a ottenere con la sua opera prima è tanto più rilevante». Peter Debruge di Variety approfondisce ulteriormente il discorso sulla sorprendente naturalezza con la quale Gyllenhaal sembra aver diretto il suo primo film, adattando un romanzo sì breve ma denso di temi e significati “delicati”, spesso trascurati o maltrattati. Secondo Debruge, in The Lost Daughter si trova la conferma di quanto affermato in passato dalla regista: Gyllenhaal, infatti, aveva detto di essersi “ritrovata” nelle parole di Ferrante. Alison Wilmore di Vulture, nel suo pezzo, sottolinea proprio questa “stranezza” del film: la maestria, imprevedibile per una regista e sceneggiatrice all’esordio, con il quale Gyllenhaal è riuscita ad adattare un romanzo che «non è per niente scontato considerare “trasportabile” sul grande schermo». La storia della Figlia oscura, infatti, avviene in gran parte nella mente, tra i ricordi e i monologhi e le introspezioni di Leda. Infine, l’opinione di Richard Brody del New Yorker, meno entusiasta dei suoi colleghi ma ugualmente impressionato sia dalla prova registica di Gyllenhaal che da quella attoriale di Colman: «Il film è in ogni caso un grandissimo risultato perché è, nella sua essenza, una specie di meta-film: racchiude e mostra un tipo di film fondamentalmente raro. Un’opera che, nella stessa scelta di adattare il romanzo di Ferrante, dimostra l’esistenza di una grave mancanza nel cinema drammatico contemporaneo: la capacità di raccontare la vita delle donne attraverso dettagli intimi, per mezzo di esperienze universali e profonde».

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