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09:20 martedì 18 novembre 2025
Jeff Bezos ha appena lanciato Project Prometheus, la sua startup AI che vale già 6 miliardi di dollari Si occuperà di costruire una AI capace poi di costruire a sua volta, tutta da sola, computer, automobili e veicoli spaziali.
Le gemelle Kessler avevano detto di voler morire insieme ed è esattamente quello che hanno fatto Alice ed Ellen Kessler avevano 89 anni, sono state ritrovate nella loro casa di Grünwald, nei pressi di Monaco di Baviera. La polizia ha aperto un'indagine per accertare le circostanze della morte.
Vine sta per tornare e sarà il primo social apertamente anti AI Jack Dorsey, il fondatore di Twitter, ha deciso di resuscitarlo. A una condizione: sarà vietato qualsiasi contenuto generato con l'intelligenza artificiale.
C’è una app che permette di parlare con avatar AI dei propri amici e parenti morti, e ovviamente non piace a nessuno Se vi ricorda un episodio di Black Mirror è perché c'è un episodio di Black Mirror in cui si racconta una storia quasi identica. Non andava a finire bene.
In Cina Wong Kar-wai è al centro di uno scandalo perché il suo assistente personale lo ha accusato di trattarlo male Gu Er (pseudonimo di Cheng Junnian) ha detto che Kar-wai lo pagava poco, lo faceva lavorare tantissimo e lo insultava anche, in maniera del tutto gratuita.
In Giappone un’azienda si è inventata i macho caregiver, dei culturisti che fanno da badanti agli anziani Un'iniziativa che dovrebbe attrarre giovani lavoratori verso una professione in forte crisi: in Giappone ci sono infatti troppi anziani e troppi pochi caregiver.
Rosalía ha condiviso su Instagram un meme buongiornissimo in cui ci sono lei e Valeria Marini  Cielo azzurro, nuvole, candele, tazza di caffè, Rosalia suora e Valeria Marini estasiata: «Non sono una santa, però sono blessed», si legge nel meme.
Hideo Kojima si è “giustificato” per la sua foto al Lucca Comics con Zerocalcare dicendo che l’ha fatta senza sapere chi fosse Zerocalcare Non c’era alcuna «intenzione di esprimere sostegno a nessuna opinione o posizione» da parte di Kojima, si legge nel comunicato stampa della Kojima Productions.

Quel che ci resta di Peter Kaplan

È morto il leggendario ex direttore del New York Observer. Alcune cose che sono state scritte su di lui e perché il suo modo di fare i giornali resta una lezione senza tempo

03 Dicembre 2013

“Credeva che anche le pubblicazioni più piccole potessero essere grandi se in grado di coltivarsi una voce e una comunità”. È solo una delle frasi che sono state attribuite negli ultimi giorni a Peter Kaplan, morto sabato all’età di 59 anni. E probabilmente non la più importante o la più toccante; sicuramente, dato un occhio veloce alla sua carriera, una di quelle cui teneva professionalmente di più.

Kaplan, molti di voi lo sanno e altri l’avranno facilmente intuito, faceva il giornalista e incarnava meglio di chiunque altro – o perlomeno lo incarnava in modo unico, peculiare e particolarmente elegante – un modo di fare e concepire i giornali che piace molto a certi tipi di giornalisti e a un numero ristretto di lettori, quelli cosiddetti forti; quel modo di fare e concepire i giornali definito, probabilmente a ragione, eccessivamente autoreferenziale (ma non noioso né bacchettone, anzi: Kaplan ideò la rubrica Sex and the City, per dire). Innamorato dei punti di vista, refrattario all’applicazione forzata di strategie per arrivare a “tutti”, preferiva concentrarsi su quel che sapeva fare: commissionare storie originali e ben titolate, scovare nuovi talenti, crescerli, trovar loro un posto all’interno di quel coro difficilissimo da intonare che spesso sono i giornali; e poi trovarsi un pubblico con l’orecchio fino che sapesse apprezzare. Altre cose scritte molto su Kaplan in questi giorni: gli piacevano i giornali di carta, adorava i cliché estetici del cronista vecchio stampo, piaceva alla New York che piace (e come pochi altri ha saputo interpretarla), non ha mai guidato una delle ammiraglie dell’informazione americana, ultimamente stava lavorando a M, il tentativo di resuscitare una rivista glossy maschile di un’altra epoca e trovargli un ruolo nella contemporaneità. Insomma, un direttore nostalgico e d’élite per un pubblico nostalgico e d’élite? Era un po’ quello che si diceva cinicamente del suo New York Observer, settimanale che ha diretto dal 1994 al 2009: “si, bellissimo, ma in quanti lo leggono?”
Eppure la dipartita di Kaplan lascia moltissimi orfani, una schiera impressionante di talenti cresciuti con lui e che oggi ricoprono posti di primo piano nei media americani: “togli Kaplan dal panorama mediatico degli ultimi vent’anni e non avrai più The Awl, gran parte di Gawker e una bella fetta di Politico”, scriveva l’anno scorso Nathan Heller su un bel ritratto a lui dedicato dal New Republic. Insomma, buona parte di quelle success story contemporanee in cui l’editoria si specchia felice col sollievo di chi ha ritrovato il proprio futuro.

Forse allora la domanda giusta a proposito del suo New York Observer, non era tanto “bello, ma in quanti lo leggono” quanto piuttosto “chi lo legge?”, proprio nel senso di chi: nome, cognome, professione, influenza, passioni. Perché magari non ce ne siamo accorti, ma dopo la lunghissima sbornia del “tutto per tutti”, allargare, abbassare, farsi capire, acchiappare “la gente”, i teorici del marketing editoriale, con in mano un pugno di banner, stanno tornando a parlare di verticalità, fidelizzazione, lettori forti, nicchie. E in fondo, forse, bastava farsi un giro per strada, come i vecchi cronisti dei film che piacevano a Kaplan, per arrivarci: se vuoi fare una cosa per “tutti” (e quando si dice “tutti” si intende “tutti tutti”, non un po’ di persone spacciate goffamente per “tutti”) non fai un giornale. Se fai un giornale lo fai credibile per chi vuole leggerlo, escludendo inevitabilmente qualcun altro.
Sta a vedere che aveva ragione Kaplan, nostalgico per vezzo, amante del futuro, riferimento senza tempo.

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